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L'amore in città - Antonioni, Fellini, Lattuada, Lizzani, Maselli, Risi e Zavattini (1953)

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TITULO ORIGINAL L'amore in città
AÑO 1953
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACION 105 min.
DIRECCION Michelangelo Antonioni, Federico Fellini, Alberto Lattuada, Carlo Lizzani, Francesco Maselli, Dino Risi, Cesare Zavattini
GUION Michelangelo Antonioni, Aldo Buzzi, Luigi Chiarini, Federico Fellini, Marco Ferreri, Alberto Lattuada, Luigi Malerba, Tullio Pinelli, Dino Risi, Vittorio Veltroni, Cesare Zavattini 
MUSICA Mario Nascimbene
FOTOGRAFIA Gianni Di Venanzo (B&W)
REPARTO Rita Josa, Rosanna Carta, Enrico Pelliccia, Donatella Marrosu, Paolo Pacetti, Nella Bertuccioni, Antonio Cifariello, Livia Venturini, Maresa Gallo, Angela Pierro, Rita Andreana, Lia Natali, Caterina Rigoglioso, Mara Berni, Valeria Moriconi, Giovanna Ralli, Ugo Tognazzi, Patrizia Lari, Raimondo Vianello, Edda Evangelista 
PRODUCTORA Faro Film
GENERO  Drama. Romance | Drama romántico. Neorrealismo. Película de episodios 

SINOPSIS Película formada por seis cortos realizados por distintos directores: Michelangelo Antonioni (Tentato suicidio), Federico Fellini (Un' agenzia matrimoniale), Alberto Lattuada (Gli Italiani si voltano), Carlo Lizzani (L'amore che si paga), Dino Risi (Paradiso per quattro ore), Francesco Maselli y Cesare Zavattini (Storia di Caterina). (FILMAFFINITY) 

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Subtítulos (Español)



LA STORIA
Film a episodi. 1. Paradiso per 4 ore descrive l’ambiente delle sale da ballo dei quartieri periferici, frequentato dalle domestiche durante il permesso domenicale. 2. L’amore che si paga comprende alcune interviste con prostitute che ricostruiscono la loro vita, la loro storia e il loro modo di pensare. 3. Tentato suicidio riporta una serie di interviste con protagonisti di tentati suicidi. Nel raccontare la loro storia, gli intervistati rivelano le cause prossime e lontane dei loro gesto disperato. 4. Un’agenzia matrimoniale descrive l’attività di un’agenzia del genere, cercando di spiegare lo stato d’animo di quelle ragazze che, pur di sposarsi, sono disposte a contrarre matrimoni che si rivelano, il più delle volte, infelici. 5. Storia di Caterina. Una giovane domestica, Caterina non avendo risorse finanziarie, abbandona nell’aiuola di un giardino il figlioletto, frutto di un amore illegittimo. Tuttavia non ha il coraggio di allontanarsi: lo sorveglia da lontano fino a quando non ne vede assicurata la sorte. 6. Gli italiani si voltano è la satira di un certo atteggiamento che gli italiani assumono generalmente di fronte alle attrattive del bel sesso.
     
LA CRITICA
Primo esperimento nella linea del ‘pedinamento della realtà’ dopo i capolavori dei neorealismo, Amore in città doveva essere, nelle intenzioni di Zavattini e degli altri artefici dell’iniziativa, il numero di avvio di una ‘rivista’ semestrale. In realtà, per il disastroso esito commerciale, rimase un caso isolato che ebbe il merito di anticipare di alcuni anni i vari tentativi di cinema-verità. Strutturato in sei episodi legati tra loro da vignette di breve durata sullo stesso tema ed affidato ad autori diversi nel temperamento e nello stile, il film risultò discontinuo nel linguaggio, ora senza veli o filtri spettacolari, come nel caso di Antonioni e Lizzani, ora svagato e brillante e con non poche annotazioni da commedia di costume, come nel caso di Fellini, Risi e Lattuada. Ma l’episodio più significativo di Amore in città, che da solo occupa quasi la metà del film, fu quello diretto da Maselli o e Zavattini, in cui la realtà delle immagini, casuali o ricercate, si sostituisce all’altra realtà (quella ‘vera’) ricreandola. (C.G.P.)
Fernaldo Di Giammatteo, Dizionario Universale del Cinema, Vol. 1, Editori Riuniti, 1984
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Film a episodi, come un tempo andava di moda, ed esempio di un cinema didattico e di "inchiesta" L'amore in città, film del 1953 prodotto dalla Faro Film, è composto dai brevi film di Antonioni, Fellini, Risi, Maselli, Lizzani e Lattuada. Vale la pena di spendere qualche parola sulla storia di quest'opera, anche per evidenziare la meritoria operazione culturale compiuta con la produzione del dvd da parte della Minerva Classic.

L'idea fu di Zavattini coadiuvato, nella produzione, da Riccardo Ghione e Marco Ferreri, che in quegli anni aveva smesso di fare il rappresentante di liquori per dedicarsi al cinema. Si trattava di realizzare una rivista cinematografica che si sarebbe chiamata "Lo spettatore" elemento, quest'ultimo, del pubblico, tra quelli cruciali dei fondamenti della complessiva poetica zavattiniana. Il carisma dell'intellettuale emiliano raccolse attorno a se buonissima parte dell'emergente cinema italiano di quegli anni e in un clima di assoluta libertà, contropartita per una operazione del tutto gratuita, i giovani registi realizzarono i propri episodi. Ciascuno degli autori aveva piena autonomia nel proprio lavoro, anche in relazione all'argomento, purché legato al tema prescelto per quel primo numero della cinerivista. L'esperimento non venne più ripetuto e gli intenti, quelli di girare un numero della rivista ogni sei mesi, rimasero nel cassetto. Cosicché quest'unica testimonianza rappresenta una punta avanzata della manifestazione del mutare del costume italiano e, nel contempo, segnala la necessaria di una innovazione della morale dopo l'immediato dopoguerra. Sotto questo profilo il film non mancò di cogliere nel segno ma i guai si manifestarono non soltanto per un (prevedibile) disastroso esito commerciale, ma per gli inevitabili problemi con la censura.

L'avere tirato fuori dalle polverose stanze dei ricordi o solo dalle pagine delle storie del nostro cinema questo film dimenticato non soltanto ha il decisivo significato di una rivalutazione della nostra cultura cinematografica, ma riempie un vuoto storico nella storia della nostra cinematografia. Il film, infatti, non solo rappresenta l'esordio per qualcuno di questi registi (Maselli), ma forse segna un mutamento di rotta del neorealismo (per Mereghetti, come  afferma negli extra del dvd, addirittura della sua pietra tombale) che, per un effetto inatteso, che Pasolini, qualche anno dopo, non avrebbe amato, si stava trasformando in realismo perdendo quella carica innovativa che il movimento aveva avuto al suo esordio. Proprio l'episodio di Maselli Storia di Caterina è paradigmatico di questa definitiva trasformazione. Il regista fece ripetere sullo schermo, alla disperata protagonista la propria vera triste vicenda. Proprio la costruzione dell'episodio, riuscitissimo, peraltro, essendo forse il migliore dell'intero film, fa sorgere i legittimi dubbi circa la corrispondenza teorica di un'operazione del genere rispetto a quelli che furono i temi di fondo del neorealismo.


SINOPSIS DE LOS SEIS EPISODIOS
1. 'Amore che si paga'. Lizzani. (11'). Investigación sobre la prostitución en Roma. 2. 'Tentato suicidio'. Antonioni. (22'). Estudio sobre los protagonistas de los intentos de suicidio. 3. 'Paradiso per tre ore'. Risi. (11'). Describe el ambiente de las salas de baile de los suburbios, frecuentadas por los jóvenes los domingos. 4. 'Una agenzia matrimoniale'. Fellini. (16'). Investigación sobre las agencias matrimoniales. 5. 'Storia di Caterina'. Maselli y Zavattini. (27'). Una madre indigente abandona a su hijo en un convento de monjas para recuperarlo, arrepentida, al día siguiente. 6. 'Gli italiani si voltano'. Lattuada. (14'). Una especie de cámara indiscreta en las calles de Roma, muestra las reacciones de los hombres que se vuelven para ver pasar a una bella joven.

COMENTARIO
Concebida por Zavattini como un paso adelante en la concepción del neorrealismo, esta obra está más cerca de lo que más tarde se llamaría "cinéma vérité". A través de seis episodios, se reconstruyen diversos fragmentos de la vida cotidiana, algunos de ellos interpretados por ciudadanos anónimos. El resultado es desigual: no es cine neorrealista, fenómeno espontáneo que se cierra en el mismo momento en el que se teoriza, y no es todavía el cine-documento de los años 60-70. Permanece el valor de su testimonio histórico sobre una época de transición en la que sus autores buscaban un estilo más personal y menos 'objetivo'.
monzi

Bellas Mariposas - Salvatore Mereu (2012)

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TITULO ORIGINAL Bellas mariposas
AÑO 2012
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 100 min.
DIRECCION Salvatore Mereu
GUION Salvatore Mereu (Novela: Sergio Atzeni)
FOTOGRAFIA Massimo Foletti
REPARTO Sara Podda, Maya Mulas, Micaela Ramazzotti, Davide Todde
PRODUCTORA Viacolvento / Rai Cinema
GENERO Drama

SINOPSIS 3 de agosto, Cagliari, un barrio pobre. A las tres de la mañana Cate, de 11 años, se despierta por los gritos de su excéntrico vecino. Cate quiere escapar de ese apartamento, de sus numerosos y problemáticos hermanos y de su tirano padre. Solo Gigi, un vecino, merece su amor. No quiere acabar como su hermana Mandarina, que se quedó embarazada a los trece años, o como Samantha, la mujer fatal del barrio. Y hoy, 3 de agosto, la vida de Gigi corre peligro: Tonio, el hermano de Cate, quiere matarle. Cate advierte a Luna, su mejor amiga. Ambas pasan el día más largo de sus vidas entre la ciudad, el mar y miles de aventuras. Sin embargo, su querido Gigi está en peligro. Cuando todo parece perdido, una hermosa mujer aparece de la nada durante la noche: la misteriosa Aleni, una bruja que al parecer puede ver el futuro de la gente... (FILMAFFINITY)

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Trama 
Cate e Luna sono due 'farfalle', o meglio, due ragazze nel pieno di un'adolescenza rigogliosa, ricca di sogni e paure. Le due amiche, pur vivendo nella squallida periferia di Cagliari, stanno muovendo i loro primi passi verso la vita, fantasticando grandi progetti di riscossa. Soprattutto Cate, vorrebbe diventare una rockstar e scappare subito da quella casa in cui vive con i suoi numerosi, problematici fratelli e con un padre tiranno che le impedisce persino di cantare. E poi c'è Gigi, innamorato di Cate, ma troppo timido e innamorato per mancarle di rispetto. In un lungo giorno di agosto, le due ragazze si troveranno a dover proteggere Gigi da Tonio, il fratello di Cate, che lo vuole uccidere. Quando tutto sembra perduto, l'intervento di una bellissima donna - la coga Aleni, una strega che legge la sorte degli abitanti del quartiere - farà prendere alle cose una nuova piega...

Critica 
"Il cine-personaggio più sorprendente dell'anno è una ragazzina di 11 anni che sa tutto, vede tutto, capisce tutto - o quasi. Ma intanto lo racconta alla macchina da presa, senza un attimo di tregua, senza star troppo a distinguere tra fantasie e realtà (o tra italiano e dialetto), e soprattutto senza mai giudicare niente e nessuno. Anche se la sua squinternata famiglia e il palazzone in cui vivono alla periferia di Cagliari non brillano per armonia e benessere. (...) Cate e i tanti personaggi surreali di 'Bellas Mariposas', il film di Salvatore Mereu (...) non sono affatto «rubati» alla vita, come potrebbe sembrare, ma nascono dal racconto-monologo del cagliaritano Sergio Atzeni (Sellerio), intrepido cantore della sua terra e della sua lingua, scomparso a soli 43 anni nel '95 lasciandosi dietro creazioni strepitose come Cate. Un incrocio fra la Zazie parigina e molto disinibita di Queneau, suggerisce Mereu, e un narratore onnisciente dell'Ottocento. Che arriva sullo schermo con la forza di un ciclone (con qualche incertezza in sottofinale: forse la magia funziona meglio in famiglia). Anche perché Mereu cuce tutto addosso a un gruppo di ragazzini delle periferie con cui ha lavorato come insegnante. Premiato a Venezia e Rotterdam, 'Bellas Mariposas' esce solo ora, e in modo assai avventuroso, grazie al consueto terrore per tutto ciò che è nuovo, azzardato, poetico, disturbante. Ma questo è un altro discorso." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 8 maggio 2013)

"(...) una prova di personalità e originalità come il racconto di Sergio Atzeni dal quale è tratto. È il resoconto di una giornata estiva dal punto di vista della dodicenne Caterina intorno a un omicidio annunciato che è un po' la caricatura altrettanto magico-fantastica della 'Cronaca' di Garcia Márquez. Nelle differenze che non potevano non esserci il film restituisce l'impasto linguistico che della spigolosa e al tempo stesso armoniosa prosa di Atzeni, stella della letteratura prematuramente scomparsa a 43 anni nel '95 ('Bellas mariposas'è la sua ultima opera, pubblicata postuma), ha caratterizzato l'impronta, diciamo con uno slogan, 'glocal': tra valorizzazione del sardo (come Camilleri il siciliano) e consapevolezza europea. Il monologo di Caterina, tra pulizia e sporcizia, tra innocenza e corruzione di un ambiente degradato, è anche la versione proletaria di un altro celeberrimo diario adolescenziale ma di ambiente borghese: 'Il giovane Holden'. Il film di Mereu conferma una ricchezza artistica sarda che non trova sufficiente riconoscimento." (Paolo D'Agostini, 'La Repubblica', 9 maggio 2013)

"Siamo in un desolato quartiere periferico di Cagliari dove le donne, considerate meri oggetti di sesso, mantengono del proprio lavoro maschi profittatori e delinquenti; mentre i figli seguono l'esempio dei padri e le figlie sognano di sottrarsi a un destino di prevaricazioni. Come Caterina e la sua amica del cuore Luna (non-attrici di accattivante spontaneità), le 'Bellas Mariposas' del film che Salvatore Mereu ha realizzato sulla base del romanzo di Sergio Atzeni (Sellerio). Riuscendo nell'intento di recuperare sullo schermo la struttura narrativa della pagina; e conferendo al dramma un trattenuto livello emozionale grazie a un raffinato gioco di rimpallo fra realismo dell'immagine e tessuto letterario della parola." (Alessandra Levantesi Kezich, 'La Stampa', 9 maggio 2013) 

"Ispirandosi a un bellissimo racconto/monologo di Sergio Atzeni, scrittore sardo prematuramente scomparso, racconta una torrida giornata d'agosto in quel di Santa Lamenera, immaginario quartiere della periferia di Cagliari. (...) È una trama che potrebbe essere un episodio di 'Gomorra', ma Mereu - appoggiandosi molto sulla scrittura di Atzeni - fa un'operazione diversissima: è la stessa Cate a raccontarci la propria giornata, guardando in macchina e rivolgendosi a noi spettatori, in un effetto-straniamento che fa molto Nouvelle Vague piuttosto che neo-neorealismo alla 'Mery per sempre'. Il risultato è un film originalissimo, crudo ma qua e là fragorosamente divertente, in cui il brulicante mondo di Santa Lamenera sembra qualcosa a metà fra la Little Italy di Scorsese e lo slum di un musical di Bollywood. Mereu ha talento da vendere, e la piccola Sara Podda (non professionista, come quasi tutto il cast) è una rivelazione assoluta. Uno dei migliori film italiani della stagione." (Alberto Crespi, 'L'Unità', 9 maggio 2013)

"C'è una leggerezza spregiudicata nel dolore così sbarazzino di Cate, ragazzina non più bambina ma ancora non cresciuta, che ondeggia sulla corda tesa, e rischiosa, di una quasi adolescenza. È raro, rarissimo, se non impossibile trovarne di simili nel nostro cinema recente, forse perché questa soglia è una materia sfuggente, che si ribella per natura alle regole della sua rappresentazione. Invece Salvatore Mereu ci porta per mano, con passione e delicatezza, nell'universo del suo personaggio, Cate appunto (interpretata con allegria dalla molto brava Sara Podda), e della sua amica Luna (Maya Mulas, anche lei presenza forte), compagna di avventure e di segreti. (...) 'Bellas mariposas' (...) è uno dei film italiani più folgoranti di questa stagione, eppure non ha trovato una distribuzione così il regista ha deciso di farlo circuitare da sé (...). E c'è solo da arrabbiarsi di fronte a cose simili pensando alle lamentele sullo stato-delle-cose nel cinema italiano, quando per film così preziosi non c'è il minimo scatto da parte della distribuzione che finisce col privilegiare le cose «sicure», ( che poi dai risultati così sicure non sono). (...) Mereu ha girato in sardo, col ritmo della lingua di Atzeni, un dialetto mischiato alle invenzioni slang del quotidiano, velocissimo come i monologhi in macchina, ma tutti interiori nei quali Cate aggredisce il mondo e se ne difende. L'ironia pungente del suo sguardo cambia il segno alla rabbia, e alle ferite di genitori e «grandi» che la calpestano senza capire perché lei e Luna hanno il potere di sorridere alle nuvole, anche se forse ancora non lo sanno. La spiaggia, un gelato, una piccola truffa: come Celine e Julie sulla loro barchetta - e ci sono sapori nouvella vague nel film di Mereu, nel suo spirito giovane sfrontato e sognatore - Cate e Luna disegnano la scoperta delle loro emozioni nel paesaggio che le circonda. La storia del film si srotola lungo una giornata, dalla mattina alla notte, che basta però a raccontare un mondo coi suoi conflitti e la sua durezza. Mereu però sfugge ogni retorica delle periferie violente (ha girato a Sant'Elia, quartiere «a rischio» di Cagliari), e predilige una cifra surreale, quasi trasognata. Senza lasciare mai il punto di vista dell'io narrante, Cate, nel flusso ininterrotto delle sue storie, Mereu inventa con la parola un cinema denso e appassionante, che è tempo, forma, respiro. Le sue immagini volteggiano, corrono, si fermano, ci raccontano altre storie ma sempre soltanto attraverso le descrizioni della ragazzina (...). Mereu tiene il suo sguardo fermo, e ci fa ridere, ci sorprende, ci attrae nelle epifanie del suo universo quasi fantastico eppure così ferocemente reale. Il cinema è qui, nel sorriso di Cate e di Luna, e in una ribellione che inventa il mondo." (Cristina Piccino, 'Il Manifesto', 9 maggio 2013)

"Assai duro 'Bellas mariposas' di Salvatore Mereu sulla lunga giornata dell'undicenne Cate, divisa tra il disagio per una famiglia disastrata e il sogno di evadere dallo squallore quotidiano." (Alessandra De Luca, 'Avvenire', 9 maggio 2013) 

"Sensibile dramma adolescenziale, gravata, col pretesto del cinema verità, da un linguaggio e da situazioni crude, leggi oscene. (...) Siamo a Cagliari, periferia di Sant'Elia, in agosto. Sono grandi amiche Cate e Luna, molto più smaliziate dei loro undici anni, che vivono in due famiglie disagiate. L'una (con l'apostrofo) è corteggiata dal timido Gigi, l'altra le sta a rimorchio nelle scorribande domenicali. Perché quell'inutile finale tragico, che fa a pugni con il resto?" (Massimo Bertarelli, 'Il Giornale', 30 maggio 2013)

"Applausi che si fanno ovazioni per un film duro, violento nel linguaggio, di complicato assorbimento, ancora una volta in sintonia con il tema caldo di questa Mostra: adolescenze difficili. Ma a fungere da ancora al film di Salvatore Mereu 'Bellas Mariposas', in concorso per orizzonti, è l'omonimo racconto di Sergio Atzeni, sessanta paginette scritte in stile cinematografico, compresa voce narrante e sguardo in macchina a cercare un alter ego immaginario dall'altra parte della cinepresa. Una ragazzina di 11 anni della periferia di Cagliari vive il giorno più lungo della sua vita, il 3 agosto, in compagnia della sua migliore amica, circondata da un piatto orrore quotidiano, routine avvilente che lei spezza sognando altro, nuotando come se non ci fosse fiato per altro e tentando di scongiurare un possibile omicidio che inchioda la storia ancor più a un livello di vita disperante. (...) Dal realismo più feroce alla fantasia all'odor di blasfemia, con una maga evocata come fosse dio, capace di scongiurare l'inferno e di rimettere le cose a posto." (Michela Tamburrino, 'La Stampa', 7 Settembre 2012)

"Attraverso un mix linguistico, dove prevale il sardo parlato dai ragazzi, e l'originale racconto in prima persona, assistiamo allo svolgersi del complicato quotidiano di Cate (l'esordiente Sara Podda), un'adolescente circondata da una numerosa famiglia, che tanto ricorda la tribù di Daniel Pennac, dove tutti vivono allegramente nel caos, e il mondo degli adulti è quello più preso di mira. (...) Tra molte risate, grottesco e atmosfere surreali, le tante storie ritroveranno il loro centro proprio sul finale (...)." (Gabriella Gallozzi, 'L'Unità', 7 Settembre 2012)

"Il volo leggero di due ragazzine 'farfalle' in un quartiere della periferia di Cagliari, cupo, disperato, laido come un girone dantesco. 'Bellas Mariposas' di Salvatore Mereu è una ballata neorealista e poetica che diverte e commuove, una conferma per il cinema italiano che quest'anno alla Mostra offre sguardi originali sulla contemporaneità italiana, storie non banali e personaggi capaci di scaldare il cuore del pubblico". (Arianna Finos, 'La Repubblica', 7 Settembre 2012)

"Ispirato al racconto di Sergio Atzeni, il terzo film di finzione del nuorese Mereu conferma il talento immaginifico, poetico e ironico di un autore dallo sguardo personalissimo, sia nella scelta delle storie che della loro rappresentazione". (Anna Maria Pasetti, 'Il Fatto Quotidiano', 7 Settembre 2012)

"Ci sono sacche di vita così impensabile, così inimmaginabile, nel nostro paese, che quando vedi certi film ti sembra di sognare. E invece, a occhio e croce è tutto vero, è tutto così. La periferia di un paesino del Campidano, in Sardegna, per esempio. Quando vedi un film come quello di Salvatore Mereu, 'Bellas mariposas', che vorrebbe dire «belle farfalle», di colpo ci pensi. Sei costretto a pensarci. L'unica cosa che assomiglia a quello che hai in mente come un paese qualunque è l'asfalto, in terra. Poi, nelle case, inizia l'inferno. Come se l'umanità fosse ancora al suo stato primordiale, selvaggio. Il film è bello, è stato accolto da un applauso convinto, anche se è un film «piccolo», senza attori di nome - solo una, Micaela Ramazzotti, in un cameo straordinario -. (Luca Vinci, 'Libero', 7 Settembre 2012)

Note 
- REALIZZATO CON IL SOSTEGNO DEL MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI.
- MENZIONE SPECIALE DEL PREMIO FEDIC ALLA 69. MOSTRA INTERNAZIONALE D'ARTE CINEMATOGRAFICA DI VENEZIA (2012) NELLA SEZIONE 'ORIZZONTI'.


Bellas Mariposas è una convinta sfida nel cinema italiano, e anche un audace azzardo produttivo (Gianluca Arcopinto tra i responsabili): per tutta la durata del film Mereu ha la convinzione di non volersi fermare davanti a nulla, e di voler mostrare e tirare in ballo apertamente ogni cosa, con una schiettezza e una benedetta sfrontatezza in quello che finisce letteralmente nell’inquadratura o nei dialoghi

Ha molto coraggio il nuovo film di Salvatore Mereu: Bellas Mariposas è una convinta sfida nel cinema italiano, e anche un audace azzardo produttivo (Gianluca Arcopinto tra i responsabili). Non sempre e non tutto funziona in questa sorta di ronde sarda con spruzzate di realismo magico (e con una fenomenale Micaela Ramazzotti veggente), ma quando va a segno Mereu si conferma uno degli sguardi più singolari e inediti nel nostro panorama, pur allontanandosi decisamente da forma e atmosfere della sua opera più fortunata, il magnifico Sonetàula. 
Una giornata nella vita di Cate e Luna, entrambe 11enni alla periferia di Cagliari, quasi una reincarnazione bambina delle Lilli Carati e Gloria Guida del perfido Avere vent’anni di Fernando Di Leo: provocatrici in erba, trascorrono le ore ad ammiccare e scherzare pesantemente e pericolosamente con i ragazzi e gli uomini più grandi del quartiere, dell’autobus che le porta in spiaggia, delle strade della città semideserta, e così via. D’altra parte l’intero loro immaginario è governato, quasi ossessionato dal sesso, che riempie i desideri e le azioni dei coetanei che abitano gli stessi palazzoni-alveare, e delle figure di famiglia, fratelli tossici e teppistelli e padri erotomani tra spogliarelli sulle reti private e palpeggiamenti su mezzo pubblico. Quando la massiccia tensione morbosa accumulata dal film sta per esplodere trasformandosi nell’inevitabile gesto inconsulto di violenza (però stavolta non indirizzato alle bambine, ma diretto a Gigi, “l’innamorato” di Cate), Mereu s’inventa una notte surreale dove succede di tutto, e tutte le traiettorie si ribaltano in qualche trovata bizzarra di troppo (si tratta senza dubbio della sezione dell’opera che “tiene” meno), nel tentativo di chiudere la dimensione allo stesso tempo corale e intima di Bellas Mariposas in una specie di allegoria conclusiva e “ferma”. 
Fortunatamente, per tutta la durata del film Mereu ha la convinzione di non volersi fermare davanti a nulla, e di voler mostrare e tirare in ballo apertamente ogni cosa, con una schiettezza e una benedetta sfrontatezza in quello che finisce letteralmente nell’inquadratura o nei dialoghi che al cinema avevamo potuto incontrare forse solo in alcune commedie messicane o spagnole di qualche anno fa. In questo il regista si dimostra miracoloso nel lavoro con gli attori bambini (come già si poteva riscontrare nel precedente Tajabone, realizzato proprio nel corso di un laboratorio scolastico tenuto da Mereu), più che nelle suggestioni che provengono dalla pagina scritta (di suo pugno), alla quale avrebbe forse giovato la sfrondata di qualche situazione (ad esempio la pessima scenetta con la signora del piano di sopra che defeca cantando a squarciagola nella vasca da bagno alle quattro di notte in compagnia del marito). 
Ma di Bellas Mariposas interessa in maniera decisamente maggiore tutto l’apparato espressivo, anche complesso con una arzigogolata stratificazione di incessante monologo “a incastro” fatto in faccia alla mdp dalla piccola protagonista, esplorazioni labirintiche del borgesiano microcosmo di periferia che sembra in costante mutamento ed espansione sia verticale che orizzontale, e un certo colorato bozzettismo grottesco di miniritratti in appartamento di famiglia sottosopra. 
Mereu cerca di stare dietro a questa grossa macchina narrativa che ha imbastito: i piccoli fallimenti dell’esperimento non inficiano l’assoluta e lodevole ambiziosità del tentativo.
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"Dopo tanti dinieghi dalle distribuzioni, ho fatto da solo", dice Salvatore Mereu. Che nel quartiere Sant'Elia di Cagliari trova la vita di due splendide adolescenti.

“Ho dovuto fare anche il distributore per cause di forza maggiore, e ho scoperto quanto sia difficile. Le distribuzioni sono state molto tiepide: dinieghi e offerte poco incoraggianti, per cui ho fatto da solo, con 6 copie in Sardegna a ridosso della Mostra di Venezia, e poi nel resto d’Italia grazie ad amici: a oggi abbiamo fatto 32mila spettatori e 200mila euro di incasso, cifre considerevoli in queste condizioni”. 
Così il regista Salvatore Mereu presenta Bellas Mariposas, che giovedì 9 maggio arriva all’Alcazar di Roma e riparte col tour “porta a porta” in altre città: budget di un milione e 600mila euro, produttori il regista e la moglie Elisabetta Soddu, ha ricevuto il premio Schermi di Qualità agli Orizzonti veneziani 2012, nonché un premio per la distribuzione (uscirà in Benelux il 24 maggio) al festival di Rotterdam. Tratto dall’omonimo racconto di Sergio Atzeni, Bellas Mariposas ha per protagonista Cate (Sara Podda), 11 anni, tanti fratelli e un padre balordo (Luciano Curreli): vive nel periferico quartiere Sant’Elia di Cagliari, ha in Luna (Maya Mulas) la migliore amica, vorrebbe fare la cantante, sposare l’impacciato Gigi e non finire incinta a 13 anni come la sorella Mandarina…
Perché un film bello, premiato e coraggioso come questo non ha trovato distribuzione? “L’esercizio ha subito una rivoluzione copernicana, molte sale di qualità hanno chiuso e le distribuzioni ne fanno le spese. Non solo, non essere finiti in Concorso ma in una sezione collaterale a Venezia, non ha facilitato le cose, anche perché la critica privilegia la competizione”, dice Mereu, già noto e apprezzato per Ballo a tre passi e Sonetaula, che ha iniziato a lavorare a Bellas Mariposas col precedente doc Tajabone, protagonisti i ragazzi a scuola del quartiere Sant’Elia: “Ero il loro maestro, e per questo ho potuto poi girare questo film: il cienma non aveva alcun fascino, viceversa, rappresentava un disturbo per alcune attività in loco non propriamente legali…”. 
“Io sono scappato da Cagliari, ma ho visto tanti come il mio personaggio attaccati al bancone, l’Ichnusa per punto di riferimento, la disoccupazione e l’essere “porcaccioni” per vanto”, dice Curreli, evidenziano una peculiarità di Bellas Mariposas: “Per la prima volta al cinema si parla di una città della Sardegna: non com’eravamo, ma come siamo”.
Da produttore, Mereu s’è concesso il lusso di girare in ordine cronologico, affinché le piccole protagoniste potessero “crescere con il film, giorno per giorno”, e s’è rapportato con fedeltà al racconto “dalla leggerezza calviniana” di Atzeni, “nonostante non avesse dialoghi, ma un lungo monologo, e una struttura per atti”. Viceversa, “la sceneggiatura è stata portata verso gli interpreti, affinché la vampirizzassero con i loro vissuti”, mentre per le piccole attrici “l’importante è stato far vivere tutto questo come fosse un gioco, perché quando non avevano voglia non si girava…”. Ma rispetto alla realtà variopinta e degradata del setting come s’è posto il regista? “Nessuna compassione per quel mondo, perché avrebbe implicato un giudizio. E’ un mondo vitale, si barcamena senza prendersi sul serio, e gli abitanti hanno dimostrato una naturale capacità a trarre vantaggio da questo film arrivato come un Ufo. Ma Bellas Mariposas ha creato qualche imbarazzo a Cagliari, dividendo e suscitando una bella discussione, come non accade più con il cinema”.
Federico Pontiggia

Pescatore 'e Posilleco - Giorgio Capitani (1954)

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TITULO ORIGINAL Pescatore 'e Posilleco
OTROS TITULOS Il pescatore di Posillipo, Piscatore 'e Posilleco
AÑO 1954
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 91 min.
DIRECCION Giorgio Capitani
GUION Luigi Capuano, Giuliana Misiano Pazielli
REPARTO Cristina Grado, Anna Arena, Beniamino Maggio, Maria Moahna, Silva Melandri, Sandro Pistolini, Tina Pica, Giacomo Rondinella, Otello Toso
FOTOGRAFIA Giuseppe La Torre
MONTAJE Rolando Benedetti, Jolanda Benvenuti
MUSICA Carlo Innocenzi
PRODUCCION Fortunato Misiano para Romana Film
GENERO Drama / Musical

SINOPSIS Un malvagio riccone rovina un povero pescatore di Posillipo. Questi, per fortuna, ha una bella voce e diventa cantante in un giro di spettacoli finanziato dal cattivone che gli offre questa opportunità solo per insidiargli la fidanzata. Poiché lei resiste, lui l'accusa falsamente e i giudici la condannano a un anno di prigione. Poi ritorna il pescatore e tutto s'accomoda. (My Movies)

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TRAMA: 
Salvatore è un giovane ed onesto pescatore, dotato di una voce gradevole. Quando il Comm. Morelli, per esigere un credito, fa sequestrare le barche dei pescatori, Salvatore rimasto senza lavoro, viene assunto da una compagnia di riviste, come cantante. Anche Maria, la fidanzata di Salvatore, che ha dovuto lasciare la casa della sorella per sottrarsi alle insidie di Walter, amante di quest'ultima, trova occupazione nella compagnia, come sarta. Il comm. Morelli, ai cui loschi traffici sono interessati Walter e la soubrette Redi Star, è il finanziatore della compagnia. Avendo messo gli occhi su Maria Morelli fa in modo che Salvatore partecipi ad una lunga tournée all'estero; ma anche sola ed indifesa, Maria resiste. Walter la fa accusare di furto e benché innocente, ella viene condannata ad un anno di carcere. Scontata la pena, Maria, che in carcere ha dato alla luce un bimbo, frutto della sua relazione con Salvatore torna a vivere con la sorella. Passa qualche anno, il bimbo di Maria cresce gracile ed avrebbe bisogno di cure. Per procurarsi il denaro necessario Maria è sul punto di cedere alle insistenze di Walter; ma si ferma in tempo. In un accesso di furore Walter si ferisce mortalmente: in conseguenza della sua morte, Maria e la sorella vengono fermate dalla polizia: Tornato a Napoli, Salvatore apprende da Redi Star quanto è accaduto. Vivamente commosso, corre ad abbracciare suo figlio e quando Maria torna a casa, libera da ogni accusa, l'accoglie tra le sue braccia. Ella sarà ben presto la sua legittima sposa.

CRITICA
"[...] Come nei fumetti la narrativa è impostata su capisaldi riuniti fra loro da frettolosi riassunti. Non mancano i soliti ingredienti... il tutto condito da mediocri canzoni". (Segnalazioni Cinematografiche).


Giorgio Capitani
Altri nomi: George Holloway 
29 Dicembre 1927 (Capricorno), Parigi (Francia)

Aiuto regista dal 1946, seguì per alcuni anni la direzione di un certo numero di film, prediligendo quelli del regista Vittorio Cottafavi. Nel 1953, decise di esordire egli stesso come regista, dirigendo la versione italiana di Delirio. Tuttavia, dopo alcune opere di scarso successo, si dedicò al doppiaggio fino al 1964, anno in cui realizzò alcuni film di carattere leggero e brillante, ottenendo un buon successo di pubblico. Fra questi possiamo ricordare La notte è fatta per rubare (1967), L'arcangelo (1969), Aragosta a colazione (1979) ed altri. Dalla seconda metà degli anni Ottanta si è dedicato soprattutto alla produzione di sceneggiati e film per la televisione, incontrando larghissimi consensi; fra le opere di questo periodo, ricordiamo ...E non se ne vogliono andare a cui, l'anno successivo fece seguito ...e poi se ne vanno?. Negli anni Novanta, Capitani è stato autore di alcuni dei più grandi successi televisivi: nel 1990, la trilogia Un cane sciolto, con Sergio Castellitto nel ruolo del magistrato De Santis; nel 1992, Il coraggio di Anna e Un figlio a metà, seguito nel 1994 da Un figlio a metà un anno dopo; nel 1994 ha lavorato alla sceneggiatura di Italian Restaurant e nel 1996 ha diretto alcuni episodi di una serie ancor più fortunata, Il maresciallo Rocca, con il popolarissimo Gigi Proietti nella parte del protagonista.

AAAAchille - Giovanni Albanese (2001)

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TITULO ORIGINAL AAAAchille
AÑO 2001
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español, italiano e inglés (Separados)
DURACION 88 min.
DIRECCION Giovanni Albanese
GUION Giovanni Albanese, Vincenzo Cerami
REPARTO Sergio Rubini, Helene Sevaux, Paolo Bonacelli, Loris Pazienza, Lucia Vasini, Patrizia Loreti, Franco Barbero, Antonio Fornari, Pino Ingrosso, Gualtiero Scola, Alessandro Larocca, Rossa Caputo, Elena Ursitti, Diego Verdegiglio, Michele Bandiera, Crescenza Guarnieri, Enrico De Finis, Guglielmo Ferraiola, Giusi Cataldo, Massimo Molea
FOTOGRAFIA Maurizio Calvesi
MONTAJE Simona Paggi
MUSICA Nicola Piovani
PRODUCCION Vittorio Cecchi Gori para C.G.G. FIN. MA. VI.
GENERO Comedia

SINOPSIS Achille è un bambino orfano di padre e affetto da balbuzie. La famiglia cerca di risolvere il problema linguistico del ragazzo, dotato di una grande intelligenza che si esprime nell'abilità manuale, nel costruire fantasti e bizzarri oggetti. (Film Up)

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TRAMA: 
Achille è un bambino pugliese afflitto da una grave forma di balbuzie. La famiglia tenta ogni strada per risolvere il fastidioso problema, senza alcun esito. Un giorno lo zio Ciro, medico e figura di spicco della famiglia, lo porta a 'Villa Agorà', una clinica estiva diretta dal dottor Aglieri, un furfante che, tuttavia, ha inventato un suo metodo che sembra avere successo: quello del canto-parlato che consiste nel far parlare i pazienti modulando la voce a mo' di cantilena. A 'Villa Agorà' si susseguono - tra situazioni comiche, poetiche, spiritose e sentimentali - le lezioni di canto parlato finchè i numerosi pazienti sono reintrodotti nella vita civile e lasciati da soli a dimostrare di aver superato il loro problema di comunicazione.

CRITICA: 
"'A.A.A. Achille' di Giovanni Albanese è l'esordio registico di uno scultore geniale (e come dimenticare il suo allestimento teatrale per 'Giù al Nord' dell'omonimo Antonio Albanese?) Dolcissima favola moderna scritta con Cerami, musicata da Piovani e sorretta da un mostruoso Rubini che evita la retorica e abbraccia la vita a ogni sguardo. Una delle sue prove più ironiche e belle". (Francesco Alò, 'Il Messaggero', 14 giugno 2003) 

"Aveva già sfiorato il cinema collaborando con Giovanni Veronesi per il film 'Silenzio si nasce'. Giovanni Albanese esordisce ora come regista di 'AAA Achille', umoristica ma anche malinconica autobiografia di un ex balbuziente. La piccola storia è delicata ma anche molto fragile di struttura (malgrado apporti di spicco, da Cerami sceneggiatore a Piovani musicista a Calvesi per la fotografia)". (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 21 giugno 2003)

NOTE: 
- OPERA PRIMA DELLO SCULTORE FOGGIANO, E' UNA STORIA AUTOBIOGRAFICA GIRATA INTERAMENTE A FOGGIA E PROVINCIA.
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Achille è un bambino sveglio, felice, a cui piace costruire un grande plastico con suo padre. C'è solo un problema: Achille è balbuziente e per questo motivo fatica a relazionarsi con i compagni di classe. Ad aggravare la situazione, arriva l'inaspettata morte del padre, che fa diventare Achille un bambino chiuso e propenso agli scatti d'ira. Una riunione di famiglia decide di mandarlo per l'estate a Villa Agorà, rinomato istituto diretto dal dottor Aglieri che ha sviluppato il metodo del cantoparlare per curare le balbuzie dei suoi pazienti. Achille si ritrova da un giorno all'altro in un luogo che non conosce, e i suoi compagni di corso, tutti adulti, di certo non l'aiutano ad integrarsi. Almeno questo fino a quando non conosce Remo, stralunato logopedista (ma ex-balbuziente) che fa divertire i pazienti grazie ai suoi giochi che mette loro a disposizione.
Già dal titolo "A.A.A. Achille", primo e finora unico film dello scultore Giovanni Albanese, ci fa capire il doppio e intricato percorso del piccolo protagonista. Un percorso parallelo che vede da una parte il rapporto con le sue balbuzie, e dall'altra la ricerca (A.A.A. come gli annunci sui giornali) di una propria identità, della presa di coscienza verso un futuro che lo spaventa. Ad aiutarlo in questo cammino c'è Remo, che se inizialmente sembra sotituirsi con la figura paterna, ben presto ci accorgiamo che in realtà l'uomo non nutre questa aspettativa, lui vuole solo far stare bene Achille, e tutti gli altri pazienti, soggiogati da un metodo che invece di curarli non fa altro che metterli ancora di più ai margini di una società sempre più veloce. "A.A.A. Achille"è un film sul piacere delle cose lente, sull'amore per la vita che si riflette nell'uomo e non nella macchina. Non è un caso che le macchine si trasformino in congegni meccanici meravigliosi, in giocattoli automatizzati, rinascendo dalle ceneri che la società dei consumi ha creato. E' per questo che il finale non prende posizioni sulla scelta da fare: mantenere la propria unicità rimanendo balbuzienti oppure guarire e confondersi per sempre nella folla vociante di un centro commerciale?
Decisamente originale questo film di Albanese (anche autore della sceneggiatura insieme a Vincenzo Cerami), che si ritrova a raccontare una storia delicata nei temi e nell'approccio, volutamente naif e spesso volto a scansare i canoni del cinema hollywodiano e della spettacolarizzazione della disgrazia che ne deriva. I climax ci sono, ma non sono mai ruffiani né inseriti quando ce lo si aspetta: tutto sembra giocato su una storia che si srotola da sé e che contiene già nelle vicende tutta l'emozione e la tesi che ci vuole proporre, senza avere bisogno di artifici tecnici per mostrarcela. Ad accompagnare il buon lavoro del cast, dove brillano un Sergio Rubini decisamente bravo e l'esordiente Loris Pazienza nei panni del protagonista, troviamo le musiche di Nicola Piovani, capaci di descrivere con piccoli tocchi l'atmosfera di favola adulta che la pellicola ci propone. Pur non privo di difetti (la voce narrante troppo pedante e il doppiaggio coatto della bella Helene Sevaux), "A.A.A. Achille" rimane un film fresco, divertente (ma senza puntare più di tanto sugli effetti comici delle balbuzie) che offre anche un interessante spunto di riflessione.
Matteo Contin


Sinossi
Achille, otto anni, foggiano, è rimasto da poco orfano di padre. La tremenda tragedia familiare ha accentuato un suo vecchio problema: la balbuzie. In casa, per combattere il tartagliamento del piccolo, madre e zii adottano ogni metodo, da quelli scientifici a quelli religiosi. Fallito ogni tentativo, non rimane che il ricovero in una clinica logopedica. Nonostante il suo dissenso, Achille viene portato in un centro specializzato, guidato dal prof. Aglieri, un luminare della logopedia, e sottoposto ad un particolare metodo terapeutico inventato dallo stesso professore: trattasi del “cantoparlare” che, in sintesi, richiede al paziente di comunicare cantando.
A guarire gli ospiti della clinica più dei metodi del dottore - che al contrario di quanto promette, rischia di emarginare definitivamente i balbuzienti - può la presenza di Remo, un ex balbuziente appassionato di costruzioni e di giocattoli. Nella stanza assegnatagli, l’uomo ha creato un vero e proprio laboratorio creativo nel quale i malati, Achille in primis, si rifugiano per divertirsi, giocare, sperimentare e, soprattutto, imparare a prendersi meno sul serio. Alla fine del periodo di cura, Achille non avrà soltanto attenuato significativamente il suo handicap, ma avrà terminato il necessario percorso di elaborazione del lutto per la morte del padre.

Introduzione al Film
Sporcarsi le mani per non sporcare le parole

Giovanni Albanese non è un regista cinematografico, ma un artista, un creatore, uno scenografo. Ha concepito e realizzato il mega-utero dentro al quale era ambientato uno stravagante film di Giovanni Veronesi con Sergio Castellitto e Paolo Rossi, Silenzio si nasce; è stato autore delle fantasiose installazioni di uno spettacolo teatrale di Antonio Albanese (Giù al nord); è un riconosciuto scultore che si ispira ai lavori di Duchamp e di altri artisti dell’avanguardia europea. Soprattutto, è un ex-balbuziente (“un balbuziente a riposo”, come lui stesso si definisce) che - come il giovane protagonista del film - ha conosciuto la balbuzie dopo la morte del padre, avvenuta quando aveva solo otto anni. A.A.A. Achille è quindi un’opera prima imbevuta - come spesso accade negli esordi cinematografici e letterari - di autobiografismo. Ciò che più incuriosisce di questa pellicola è il connubio tra la forza esplosiva della parola e la forza creatrice delle invenzioni (artistiche e non).
Infatti, la storia di Achille e Remo serve al regista per evidenziare il tipo di handicap che ogni balbuziente deve affrontare: l’impossibilità non tanto di comunicare con gli altri, ma di attrarre e accoppiare le parole tra di loro, di farle giocare insieme generando - in questo modo - significati che superano il singolo valore di un vocabolo. A chi esperisce la condizione di Achille non resta che sostituire alle parole le azioni: se non si possono fare “giochi di parole”, sfruttare fino in fondo le figure retoriche, affabulare gli altri come un “azzeccagarbugli”, allora bisogna costruire figure con gli oggetti, mischiare, accozzare, unire pezzi, sfruttare la propria manualità per trasmettere la complessità dell’animo umano. In estrema sintesi: sporcarsi le mani poiché non si possono sporcare le parole.

Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
Prendersi gioco degli altri, prendersi poco sul serio

Remo e Achille sono accomunati dalla stessa passione per il gioco, per l’invenzione, per la costruzione, tanto da poter essere considerati la fase infantile e matura della stessa persona. Lo chiarisce immediatamente il bambino quando, rivolgendosi per la prima volta a Remo, gli ricorda che non è suo padre. L’ex balbuziente, intelligentemente, non cerca di sostituire il genitore deceduto, ma di affiancare il piccolo amico scegliendosi un ruolo che si avvicina a quello dell’angelo custode: lo cerca quando scappa dalla clinica e lo accompagna a casa (un padre l’avrebbe costretto a restare in clinica), non lo rimprovera mai, lo lascia alle grinfie del dottor Alieri anche se sa benissimo che è un cialtrone, perché quello è l’unico modo per stargli vicino. La figura di Remo acquista ulteriore significato se accostata con l’altra figura maschile adulta che interagisce con Achille: il professore (imbroglione) Alieri. Il suo metodo del “cantoparlare” è il doppio, contrario e speculare, del metodo adottato da Remo.
Da una parte assistiamo alla canzonatura dei pazienti, alla trasformazione dei balbuzienti in oggetti da deridere (è questa l’inevitabile reazione di chi si sente interpellato con frasi “cantoparlate”, come conferma la scena del supermarket), dall’altra abbiamo invece un sistema educativo ludico, che concepisce il gioco come momento di formazione, ma anche come festa condivisa (la giornata al mare); da una parte quindi c’è una presa in giro che sancisce l’inevitabilità dell’esclusione del diverso dal convivio sociale, dall’altra c’è un prendersi poco sul serio che produce normalizzazione e integrazione nella comunità. La differenza appare sottile, ma è palesemente spropositata. Achille, almeno inizialmente, è in balia di entrambe le metodologie appena descritte. Con la testa segue le indicazioni del professore, con le mani (e il cuore) si fa affascinare dal laboratorio di creatività, continuando a frequentarlo appena terminate le sedute terapeutiche.
È, quindi, la voglia di costruire e di infondere una forza anarchica agli oggetti (si veda la meravigliosa trottola con cui gioca il bambino) a spostare il piatto della bilancia dalla parte di Remo. L’intuizione (autobiografica) di Albanese nobilita il film: forse meglio di altre pellicole, A.A.A. Achille mostra quanto possa essere decisivo, nelle società della comunicazione visiva e verbale, la manualità soprattutto per i bambini. È uno strumento unico di espressione del sé, consente di trasmettere le proprie paure, i propri desideri e i propri sentimenti agli altri, è la realizzazione pratica del lato fantastico della mente umana, è una risorsa che - come Albanese ha testimoniato costantemente nella sua vita- non dovrebbe mai essere lasciata in disparte o sfruttata solo per un breve periodo della vita.

Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici
AAA Achille è un film fruibile da ogni tipo di pubblico. Può rappresentare un ottimo spunto di riflessione sia sulla relazione tra handicap e società, sia per sottolineare l’importanza delle parole e dei suoni per il nostro stile di vita. Tra tutti i film che trattano tematiche legate all’handicap, segnaliamo la pellicola di Ken Russell, Tommy (1975), storia di un ragazzo che diventa cieco, muto e sordo per lo shock subito alla morte del padre, riuscendo a superare completamente il trauma solo dopo la morte della madre e del patrigno. Un’altra pellicola che sottolinea il bisogno e la forza di comunicare con il mondo è Gaby, una storia vera (1987) di Luis Mandoki, rievocazione della vicenda umana di Gaby Brimmer, una ragazza affetta da paralisi cerebrale capace di comunicare soltanto battendo con il piede su una tastiera.
Marco Dalla Gassa
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Risvolti psicologici del film A.A.A. Achille

Il film potrebbe sembrare la solita commedia all’italiana, ma esaminando  tutti i diversi contenuti psicologici del film,  il regista porta alla luce la complessità della balbuzie nei suoi risvolti psicologici, sociali ed esistenziali.

Il dramma del piccolo Achille, portato in scena da Giovanni Albanese , è la tragedia di ogni persona che balbetta, o di una famiglia che cerca disperatamente la comprensione e il trattamento di questo disturbo.

Il piccolo Achille,  nostro eroe, tenta ogni forma di terapia, per combattere il “non risolto”, la conflittualità interna, la vergogna, lo struggimento, e ciò che gli Altri , i normofluenti, non potrebbero mai capire.

La storia, anche se di primo acchito potrebbe sembrare il solito copione della commedia all’italiana tra fiction e comicità, dipinge il modo interno di chi balbetta: il senso dell’inadeguatezza, la dimostrazione di essere soggetti normali, l’ambizione frustrata, un’affettività non facilmente comunicabile, la sofferenza della famiglia e sopratutto un senso di preclusione al modo sociale.

All’interno di questo film, di fiction c’è ben poco, tutto è tremendamente reale.

Giovani Albanese è riuscito con questa storia a sviscerare  alcuni temi che sono il fulcro della balbuzie e del suo trattamento.

I temi psicologici di questo film sono racchiusi nei personaggi e in alcuni concetti  impliciti che di seguito vengono riportati:

1.-Il piccolo Achille  è un bambino meraviglioso; lui soffre, e il mondo degli adulti non lo capisce. Si sottomette ad ogni tipo di cura e, credendo al miracolo, o al consiglio proposto dallo zio medico, si avventura nella clinica del Dr. Aglieri. Qui si imbatte in ogni tipo di balbuzie e di sofferenza psicologica ed esistenziale. Qui il piccolo Achille comincia scoprire una nuova realtà: il suo mondo interno e le sue emozioni, grazie al logopedista Remo che è tutt’altro che “logopedista”.
Achille scopre che comunicare è possibile solo se riesce a “comunicare oltre le parole”, cioè a prendere contatto con i propri talenti e con la propria creatività, riuscendo a trovare un percorso esistenziale per la riscoperta dell’autostima.

2.-Il logopedista Remo contro gli “imperativi terapeutici” del dr. Aglieri, in realtà, negando qualsiasi  forma di terapia, predispone una  camera creativa dove i pazienti possono recuperare una propria individualità. Remo rappresenta la ricerca verso altri “lidi terapici” che recuperano la personalità, riconciliando l’individuo con le realtà psicologica e sociale.
Remo comprende perfettamente che la persona che balbetta deve essere aiutata a ricostruire la propria affettività, partendo proprio dal passato (in questo caso dal lutto paterno).
La parola inceppata è il risultato di una persona che si è bloccata non riuscendo trovare il filo delle sue emozioni, e qui Remo,  è la metafora di un trattamento psicoterapico proteso a sollecitare la personalità nella ricerca di ciò che ha determinato la balbuzie.
Il lavoro di Remo non è l’invito all’autocura mediante un semplice sforzo di volontà. Nel soggetto balbuziente esiste purtroppo lo stereotipo del “farcela da solo”  con un atto onnipotente e narcisistico: in realtà,  per comprendere la balbuzie bisogna avventurarsi nei suoi meandri per ritrovare il Vero-Sé che si è perso.
Remo ama il suo paziente, aspetta la sua evoluzione, aspetta la sua crescita e non impone alcunché di miracolistico. Egli conosce la natura umana che ha bisogno di fiducia, di vicinanza affettiva, di onestà, e soprattutto non sentirsi soli ed abbandonati dinanzi alla sofferenza e al tormento. Questo utente per ritrovarsi non ha bisogno di “corsi per la sopravvivenza”, questo destinatario deve imparare a porsi al di là della balbuzie per sentirsi adatto ed adeguato dinanzi al mondo degli adulti.

3.-Il dottor Aglieri è il “profeta” , che cerca di ammaestrare più che capire. . Egli è convinto che con una tecnica molto banale si possa con facilità superare il problema della balbuzie..
Secondo il dr.Aglieri   basta una tecnica fonica o comportamentistica per dare all’utente la sensazione di potersela “cavare” nella vita. Il dr. Aglieri non si preoccupa della fragilità insita nella persona che balbetta, per lui tutto è estremamente facile e lineare: basta una semplice tecnica, senza preoccuparsi della psiche,  per normalizzare la persona.

In realtà, il balbuziente deve anzitutto imparare a “cavarsela con se stesso”, riuscendo a capire i meccanismi che sottendono un sintomo molto complesso.

4.-Alessandra (Helene Sevaux), rappresenta la bellezza, l’estasi, il bisogno affettivo e sensualizzato: un modo al quale la persona che balbetta sente di non appartenere.
In realtà Alessandra è lo specchio dell’insicurezza affettiva  che riguarda i due sessi affetti da balbuzie: da una parte vi è il maschio che non si sente all’altezza di competere con gli altri maschi per la conquista della bellezza femminile, e dall’altra la donna che non riesce a vivere la sua femminilità.

Alessandra rappresenta il sogno, l’ambizione, la conquista, il desiderio e la passione. La bella Alessandra rappresenta il fascino della vita al quale ogni persona deve partecipare facendosi coinvolgere. Alessandra rappresenta l’incontro con il  corpo e con le pulsioni che lo muovono.
Alessandra rappresenta anche l’insicurezza femminile, che esprime paradossalmente attraverso la sua intraprendenza: questa donna desidera amare ma ha paura, desidera comunicare ma appare frenata, desidera essere donna seducendo, ma in realtà  non si accetta.

5.-Giovannone, un ragazzo grande e grosso, che per parlare ha bisogno di muovere i piedi al ritmo del tip – tap, rappresenta l’ “acme” della balbuzie . La disfluenza di Giovannone esiste veramente, non è una semplice metafora del nostro regista. Con Giovannone viene presentato il dramma reale che chiude l’individuo all’interno di una gabbia.
Giovannone contro i presupposti del dr. Aglieri, desidera essere amato, accettato e soprattutto desidera esprimere la sua personalità.

Nello stereotipo di chi balbetta spesso esiste la fantasia di poter guarire  miracolosamente al 100%, e in poco tempo. Purtroppo tale fantasia viene anche alimentata da alcune pubblicità che dichiarano di eliminare la balbuzie in 15 giorni con l’impegno e la volontà.
Altri stereotipi che si ritrovano in chi balbetta sono il credere di “farcela da soli” , o ancora  che “con il tempo tutto passerà”, …e intanto il tempo passa e tutto rimane nello status quo.
Con questo non si vuol affermare che la balbuzie sia incurabile, ma la guarigione deve essere intesa in un senso “dinamico” e non statico .
Come sottolinea Giovanni Albanese  la balbuzie  “è sempre lì in agguato pronta a venire fuori”; questo perché nei momenti di elevato stress o di situazioni altamente conflittuali, l’Io della persona risponde in modo regressivo: la balbuzie che ritorna segnala che qualcosa non procede in modo adulto.
A fronte dei nostri studi e delle nostre ricerche, un soggetto adulto, dopo un giusto lavoro psicodinamico e psicosomatico (che non dura qualche seduta), in base al suo sintomo, potrebbe recuperare in un buon 80\90 %, ma quel 10\20 % di balbuzie “sotto le ceneri” nei momenti di stress potrebbe ritornare.
In chiave di trattamento,  bisogna comunque imparare ad accettare che  il linguaggio, o meglio la funzione linguistica  che è stata colpita, è stata comunque  “riaggiustata”,  e  dunque rimarranno dei “fastidi”.
Un “linguaggio riaggiustato” avrà  sempre  una sua delicatezza e sensibilità rispetto agli stress emotivi e sociali, che un normofluente non conosce. Così ad esempio se ci fratturiamo un piede andiamo dall’ortopedico  che lo rimette a posto; dopo un po’ di tempo, pur recuperando appieno la deambulazione, quel piede riaggiustato darà comunque qualche fastidio.
Altro esempio  in chiave psicologica: un soggetto anoressico curato non diventerà mai obeso, manterrà sempre una linea filiforme.
Anche lo stesso  Paolo Bonolis, quale ex balbuziente  dotato di una grande capacità comunicativa, confessa in alcune interviste che in certi momenti, molto delicati della sua vita, la balbuzie ritorna a farsi risentire.

Limite del film: in A.A.A. Achille viene raccontata una storia profonda scarsamente recepita dalla stampa e dall’opinione pubblica, questo perché la balbuzie interessa un pubblico molto ristretto. Il limite più grosso del film è che è stato poco recensito e poco pubblicizzato, molto venne fatto invece nel 2001 quando si pensava che il film dovesse uscire in quella data.
La nostra speranza è che il film possa avere il suo meritato successo almeno come Home Video, al fine di instillare curiosità e conoscenza per un sintomo molto complesso e spesso “bistrattato”.
Ringraziamo Albanese per il suo coraggio e per la sua sensibilità, ringraziamo Cecchi Gori Medusa per aver creduto in questo film, e ringraziamo tutti coloro che hanno partecipato  sul set cinematografico offrendo un grande contributo all’utenza (circa un milione di soggetti che balbettano) e agli operatori del settore,  affinché il problema sia sempre valutato nella sua giusta dimensione.
Enrico Caruso (psicologo e psicoterapeuta)

Il medico della mutua - Luigi Zampa (1968)

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TITULO ORIGINAL Il medico della mutua
AÑO 1968
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACION 98 min.
DIRECCION Luigi Zampa
GUION Sergio Amidei, Alberto Sordi, Luigi Zampa (Novela de Giuseppe D’Agata)
MUSICA Piero Piccioni
FOTOGRAFIA Ennio Guarnieri
MONTAJE Eraldo Da Roma
REPARTO Alberto Sordi (Dr. Guido Tersilli), Sara Franchetti (Teresa), Ida Galli (Anna Maria), Nanda Primavera (Mamma Tersilli), Bice Valori (Amelia Bui), Leopoldo Trieste (Pietro)
PREMIOS  1968: Premios David di Donatello: Mejor actor (Alberto Sordi)
PRODUCTORA Euro Film / Explorer Film '58
GENERO Comedia | Medicina 

SINOPSIS El Doctor Guido Tersilli ha tenido que claudicar y solicitar el ingreso en la mutua. Una vez dentro, al no tener muchos medios económicos, le resulta muy duro conseguir pacientes mutualistas. Así se instala en la zona de la ciudad con menos médicos de la mutua y, gracias a la ayuda de su madre y su novia, poco a poco conseguirá hacerse con pacientes... Comedia en forma de ácida crítica sobre el funcionamiento de la Sanidad Pública italiana. Al año siguiente, Luciano Salce dirigió la secuela, titulada "Doctor Tersilli, médico de la clínica Villa Celeste, afiliada a la mutua". (FILMAFFINITY)

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Subtítulos (Español)


Siamo nel 1968, anno in cui l’Italia è teatro di grandi rivolgimenti socio-culturali che passano dalla manifestazioni in piazza e dalle contestazioni contro l’ordine prestabilito e il sistema economico e sociale dell’Italia.
Ed è inevitabile che tale contesto di fermento influisca anche sul cinema che a suo modo fa sue le istanze del popolo. Arriva così nel 1968 Il medico della mutua, film geniale diretto da Luigi Zampa, con la sceneggiatura scritta dallo stesso regista con il supporto di Sergio Amidei e di Alberto Sordi, il quale, ovviamente, ne è anche il protagonista.
A metà tra commedia e denuncia, Il medico della mutua fu un film che creò un grosso scalpore alla sua uscita, proprio perché per la prima volta un regista portava sui grandi schermi, in maniera così nitida, seppur fingendo di nascondersi dietro il velo della commedia, la verità dell’Italia del boom economico, dove ormai il denaro è divenuto principio unico e basilare al quale dedicare gli sforzi di un’intera esistenza.
Ne Il medico della mutua Alberto Sordi interpreta il Dott. Guido Tersilli. L’obiettivo del giovane medico è riuscire ad aprire un suo studio a Roma, unico mezzo possibile per ripagare la madre, e se stesso, dei tanti sacrifici fatti per guadagnarsi quella posizione. Per riuscire nel suo intento con il minor sforzo possibile la strada migliore è quella della convenzione con la
Una convenzione che vuol dire guadagnare sulla quantità di mutuati che si riesce ad ottenere e il dott. Tersilli, aiutato da madre e fidanzata, riescono ad ottenerne un buon numero. Ma non è ancora sufficiente e il dottore cerca una via ancora più comoda: sedurre l’anziana moglie del Dott. Bui, anch’egli ormai anziano, aspettando la sua dipartita per accaparrarsi anche questi altri mutuati. Obiettivo raggiunto anche questa volta, ma forse Tersilli ha esagerato.
Oltre 3000 mutuati sono una grande fonte di guadagno, ma anche di forte stress. Tersilli ha un collasso ma non può curarsi a dovere, dovendo difendere moglie e mutuati dall’attacco degli altri medici. Il finale de Il medico della Mutua è quantomai grottesco e rappresentativo delle brutture dell’Italia di quegli anni e anche dei successivi: Tersilli, comodamente seduta nel terrazzo di casa sua con in mano un drink, che visita i malati al telefono.
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La figura di Guido Tersilli è quella che ha tolto il velo di purezza dalla professione medica, quella che ha rivelato l’insana abitudine di istituire un mercato dei mutuati, quella che ha svelato la poco lusinghiera consuetudine del medico di base di ottenere percentuali economiche derivanti da richieste di visite o esami strumentali specialistici. All’origine il graffiante romanzo di Giuseppe D’Agata (conseguentemente espulso dalla professione medica) e i risultati di un’inchiesta sui medici della mutua e i loro pazienti svolta in quegli anni dal regista con lo sceneggiatore Sergio Amidei. Alberto Sordi in una memorabile interpretazione, intento a fare visite lampo, sgnaccare diagnosi all’ingrosso e piazzare terapie sconclusionate, imposte però ai mutuati come necessarie e insostituibili, “tanto quello che conta è l’effetto psicologico visto che ogni malattia dopotutto ha il suo corso”. Altro che stare a cavillare sui segni semeiologici e rompersi il capo con la diagnostica differenziale come in clinica universitaria. Dall’altra parte un implacabile ritratto dei mutuati italiani, assidui frequentatori di ambulatorio e incredibili divoratori di ricette, considerati alla stregua di una mandria di buoi, che obbedisce disciplinata al momento del cambio del medico, non prendendosi la briga di effettuare una scelta autonoma poiché questo comporterebbe un certo impegno mentale e l’intera responsabilità di un eventuale errore.
Numerose le battute esilaranti come quella che configura l’aspetto eroico della medicina del tempo: “resterà per me sempre un mistero come un ferito può sopravvivere ad un trasporto in ambulanza”. Altra intuizione geniale, ripresa dal libro, è quella in cui uno sciopero dei medici della mutua per questioni economiche determina la drastica riduzione dell’affluenza negli ambulatori e pone l’arcano dilemma: “o in questo periodo tutti hanno ritrovato una salute di ferro, o la mutua e i medici hanno davvero creato i malati”. Indimenticabile anche la figura della madre che batte incessantemente tutti i luoghi di ritrovo del quartiere per fare pubblicità alle virtù del suo figliolo neo-laureato.
Apparentemente il film viene a configurarsi come una farsa divertente e paradossale su un episodio marginale della sanità italiana dell’epoca, ma forse rappresenta qualcosa di più visto che negli anni Settanta la commissione parlamentare incaricata di preparare la legge istitutiva del futuro Sistema Sanitario Nazionale, acquisì il romanzo come un vero e proprio documento sullo situazione della Sanità in Italia. Il finale poi è profetico con Sordi intento a fare diagnosi e dettare la cura per telefono, dopo essere stato costretto a chiudere temporaneamente l’ambulatorio successivamente ad una sincope da burn-out, dovuto al raggiungimento della cifra record di 3115 mutuati, numero che determina 21000 visite all’anno cioè circa 7 visite per mutuato, suddivise in 70 visite ambulatoriali e 5 domiciliari al giorno per un totale di 13 ore di lavoro quotidiane.
Tali cifre difficili da spiegare razionalmente trovano forse una giustificazione in una frase che D’Agata scriveva nel suo romanzo: “non c’è alcuna convenienza ad essere completamente sani: qualche disturbo di tipo cronico rappresenta un ottimo antidoto contro l’angoscia e il suicidio”.
La figura di Guido Tersilli è quella che ha tolto il velo di purezza dalla professione medica, il film quello che ha rivelato l’insana abitudine di istituire un mercato dei mutuati, quello che ha svelato la poco lusinghiera consuetudine del medico di base di ottenere percentuali economiche derivanti da richieste di visite o esami strumentali specialistici. All’origine il graffiante romanzo di Giuseppe D’Agata (conseguentemente espulso dalla professione medica) e i risultati di un’inchiesta sui medici della mutua e i loro pazienti svolta in quegli anni dal regista con lo sceneggiatore Sergio Amidei. Alberto Sordi in una memorabile interpretazione, intento a fare visite lampo, sgnaccare diagnosi all’ingrosso e piazzare terapie sconclusionate, imposte però ai mutuati come necessarie e insostituibili, “tanto quello che conta è l’effetto psicologico visto che ogni malattia dopotutto ha il suo corso”. Altro che stare a cavillare sui segni semeiologici e rompersi il capo con la diagnostica differenziale come in clinica universitaria. Dall’altra parte un implacabile ritratto dei mutuati italiani, assidui frequentatori di ambulatorio e incredibili divoratori di ricette, considerati alla stregua di una mandria di buoi, che obbedisce disciplinata al momento del cambio del medico, non prendendosi la briga di effettuare una scelta autonoma poiché questo comporterebbe un certo impegno mentale e l’intera responsabilità di un eventuale errore.
Numerose le battute esilaranti come quella che configura l’aspetto eroico della medicina del tempo: “resterà per me sempre un mistero come un ferito può sopravvivere ad un trasporto in ambulanza”. Altra intuizione geniale, ripresa dal libro, è quella in cui uno sciopero dei medici della mutua per questioni economiche determina la drastica riduzione dell’affluenza negli ambulatori e pone l’arcano dilemma: “o in questo periodo tutti hanno ritrovato una salute di ferro, o la mutua e i medici hanno davvero creato i malati”. Indimenticabile anche la figura della madre che batte incessantemente tutti i luoghi di ritrovo del quartiere per fare pubblicità alle virtù del suo figliolo neo-laureato.
Apparentemente il film, coadiuvato dalla splendida colonna sonora di Piccioni, viene a configurarsi come una farsa divertente e paradossale su un episodio marginale della sanità italiana dell’epoca, ma forse rappresenta qualcosa di più visto che negli anni Settanta la commissione parlamentare incaricata di preparare la legge istitutiva del futuro Sistema Sanitario Nazionale, acquisì il romanzo come un vero e proprio documento sullo situazione della Sanità in Italia. Il finale poi è profetico con Sordi intento a fare diagnosi e dettare la cura per telefono, dopo essere stato costretto a chiudere temporaneamente l’ambulatorio successivamente ad una sincope da burn-out, dovuto al raggiungimento della cifra record di 3115 mutuati, numero che determina 21000 visite all’anno cioè circa 7 visite per mutuato, suddivise in 70 visite ambulatoriali e 5 domiciliari al giorno per un totale di 13 ore di lavoro quotidiane.
Tali cifre difficili da spiegare razionalmente trovano forse una giustificazione in una frase che D’Agata scriveva nel suo romanzo: “non c’è alcuna convenienza ad essere completamente sani: qualche disturbo di tipo cronico rappresenta un ottimo antidoto contro l’angoscia e il suicidio”.
«La mutua è una grande casa, alta e ben intonacata, con entrata principale e uscite secondarie. Davanti a questa grande casa il medico si sente meschino e smarrito. Una volta non c’era, la mutua, e i medici di una volta se la passavano bene: quasi tutti diventavano ricchi, alcuni ricchissimi. Tutti facevano i loro soldi, c’erano clienti a volontà, lavoro sempre garantito. Un giovane medico non aveva bisogno di aspettare tanto, di fare una trafila di burocrazia, di scrivere domande, di armarsi di una decorosa pazienza: gli bastava aprire un ambulatorio, e subito si faceva la sua affezionata clientela. Una laurea in medicina era una laurea come si deve. Oggi purtroppo c’è la mutua: succhia il sangue di noi medici, dei mutuati e dei padroni, e lo trasforma in corridoi, uffici, ascensori, uscieri, dattilografe, impiegati, capi e dirigenti amministrativi, direttori sanitari, medici funzionari, infermieri, e così via. Tutta roba che è fatta apposta per tarpare le ali alla nostra libera professione…» (Giuseppe D’Agata, Il medico della mutua, prima edizione Feltrinelli 1964)


L’ambizioso dr. Guido Tersilli (Alberto Sordi) ha deciso che la sua laurea in medicina debba essere monetizzata al più presto e nella maniera più lucrosa possibile, quindi alla faccia del giuramento di Ippocrate punta tutta la sua attenzione sul popolo dei mutuati, un esercito di malati da sfruttare per far cassa e carriera.
Ad aiutare Tersilli la fidanzata Federica e la madre vedova entrambe impegnate a sostenere l’uomo di casa nella sua scalata, così dopo aver aperto un ambulatorio, Tersilli presta servizio anche in una importante clinica, nella quale prosegue la sua caccia ai mutuati, ma non solo grazie alla sua faccia tosta e a una massiccia dose di servilismo riesce ad ingraziarsi sia il primario che le suore infermiere che diventeranno fonte vitale per la selezione dei pozienti più ambiti.
L’ambizione di Tersilli però non ha limiti e quindi, già odiato da tutti i colleghi della clinica, riesce a circuire la moglie di un medico in fin di vita con un grandioso portafoglio mutuati e a farseli assegnare tutti, scatenando l’ira e l’invidia di tutto il personale medico con cui collabora, arrivando ad appropriarsi anche del lussuoso studio medico del moribondo.
Neanche di fronte ad un collasso che lo porterà nella stessa clinica da lui saccheggiata di mutuati e in balia dall’esercito di colleghi avvoltoi pronti a spartirsi il suo portafoglio malati dopo una sua everntuale dipartita, fermerà Tersilli che scampato il pericolo deciderà di ottimizzare ulteriormente i tempi di visita dedicati ai suoi pazienti, così escogiterà delle visite telefoniche dalla terrazza del suo attico, dopotutto perchè scomodarsi ad incontrare tutti quei pazienti?
Il regista Luigi Zampa che aveva già diretto Sordi ne Il vigile e Ladro lui, ladra lei permette all’attore romano di ritrarre l’ennesimo personaggio cinico e brutalmente realistico che Sordi smussa ad arte e rende divertente, così che lo spettatore possa metabolizzarne tutta la negatività e la cialtroneria ben evidenti, aggiungendo un’efficace satira sulla sanità dell’epoca, siamo nel ’68, confezionando un film dalle tematiche scomode e purtroppo ancora oggi molto attuali.
L’istrionico Sordi lavora su alcuni tic consolidati in anni di personaggi e maschere che poi verranno successivamente saccheggiate da attori e comici nei decenni successivi, uno su tutti Christian De Sica, Il medico della mutua diventa un classico della commedia all’italiana e fruirà ad un anno di distanza di un sequel diretto da Luciano Salce, Il prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue.
Note di produzione: La colonna sonora di Piero Piccioni contiene Samba Fortuna, un brano rielaborato nel sequel di Salce e che diventerà un classico delle musiche da film, nel ricchissimo cast di questo primo episodio anche Bice Valori, Leopoldo Trieste, Pupella Maggio e Tano Cimarosa.
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Il medico della mutua è una satira dura e precisa del sistema sanitario italiano alla fine degli anni 60.
Sordi è Guido Tersilli, giovane medico neolaureato e arrivista che scova nella carriera di medico della mutua la strada più veloce per fare soldi. Il film racconta la sua scalata tramite trucchi e sotterfugi per accaparrarsi il maggior numero possibile di mutuati a scapito dei colleghi e naturalmente della qualità del suo lavoro.
Da ricordare la scena in cui Tersilli si lascia sopraffare dalla sua sete di successo e mette in piedi una specie di catena di montaggio rendendo sempre più brevi le visite. Al culmine della vicenda riuscirà ad avere 3000 mutuati ad ognuno dei quali toccano non più di 5 minuti di visita.
Il ritmo è naturalmente insostenibile e Tersilli collassa finendo nelle mani dei colleghi a quali si è reso odioso e che si rivelano suoi cloni perfetti.
Indimenticabile poi la colonna sonora con la traccia principale che diventerà talmente famosa da essere usata per anni come sigla di introduzione dello stesso Sordi nelle trasmissioni televisive.
Il film è divertente anche a quarant’anni di distanza, rapido, veloce, pieno di situazioni esagerate che rendono grottesco non solo il personaggio principale ma anche parecchi di quelli che gli ruotano intorno.
E l’Albertone nazionale è fantastico in un ruolo che Luigi Zampa sembra avergli cucito addosso (ma la stessa sensazione si ha con molti film di Sordi). Meschino, esagerato, arrivista, Guido Tersilli è quanto di peggio la professione medica poteva offrire nel 1968.
Curiosità: il personaggio ritornerà l’anno seguente in Il prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue, titolo wertmulleriano in cui si analizza una situazione parimente corrotta nel mondo delle cliniche private.
I due film sono quasi un’integrazione l’uno dell’altro pur non avendo alcun riferimento all’interno della trama.

Il fornaretto di Venezia - Duccio Tessari (1963)

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TITULO ORIGINAL Il fornaretto di Venezia 
AÑO 1963
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 100 min.
DIRECCION Duccio Tessari
GUION Duccio Tessari, Marcello Fondato (Novela: Francesco Dall'Ongaro)
MUSICA Armando Trovajoli
FOTOGRAFIA Carlo Carlini
MONTALE Franco Fraticelli
REPARTO Michèle Morgan, Enrico Maria Salerno, Sylva Koscina, Jacques Perrin, Stefania Sandrelli, Gastone Moschin, Fred Williams, Ugo Attanasio, Mario Brega, Fredrick Hall, Massimo Ceccato, Antonio Cremonese, Luciano Gerardelli, Lucio Rama, Rodolfo Lodi, Mario Lombardini, Jacques Stany, Antonio Segurini, Rosaria Tornatore, Nino Persello
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Lux Film / Ultra Film / Société des Établissements L. Gaumont
GENERO Drama | Siglo XVI 

SINOPSIS En la Venecia del siglo XVI, un joven panadero es condenado a muerte bajo la sospecha de haber asesinado a un noble... (FILMAFFINITY) 

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

Trama:
A Venezia un giovane fornaio viene accusato ingiustamente dell'omicidio del conte Alvise e giudicato dal Consiglio dei Dieci. Egli viene condannato a morte dopo un processo che assume ben presto connotati politici a causa delle innovazioni che il conte Barbo vorrebbe portare nella Serenissima: la partecipazione diretta del popolo al governo della cosa pubblica. Ed è proprio per respingere questa iniziativa che il Consiglio dei Dieci emette un verdetto di condanna, interpretando una sentenza assolutoria come una vittoria del popolo sulla nobiltà e sul patriziato veneto. Nemmeno quando il Conte Barbo, difensore del Fornaretto, si denuncerà come l'assassino di Alvise Guoro, il Consiglio dei Dieci e quello degli Avogadori riterranno decoroso per un nobile e per tutti gli aristocratici veneziani riconoscere in lui l'autore del delitto.
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Armando Trovaioli: Il Fornaretto di Venezia
(Aparecido en el nº 7 de Rosebud BSO, en junio de 1998)

Armando Trovaioli es conocido fundamentalmente por haber sido el músico habitual de las películas de Ettore Scola, realizador con el que ha mantenido una estrecha colaboración a lo largo de tres décadas. Pero, además, es uno de los pilares básicos de la música cinematográfica italiana, labor en la que viene trabajando desde comienzos de los cincuenta. En 1963 realizó la música para "Il fornaretto di Venezia", una película de corte dramático, dirigida por Duccio Tessari, que en nuestro país se llamó "El proceso de Venecia", y que musicalmente recoge algunos de los mejores momentos creados por Trovaioli. 
La música de cine italiana se ha caracterizado, entre otras cosas, por su gran capacidad para crear melodías. Las bandas sonoras de Armando Trovaioli son probablemente de las que más a menudo corroboran esta tesis, a pesar de que el músico se ha adentrado regularmente en otros estilos, como el jazz o el pop, que aún así no han conseguido eliminar de la mente de los aficionados la idea de que Trovaioli es uno de los grandes creadores melódicos de la música de cine italiana. 
  
EL MUSICO 
  
Armando Trovaioli nacio en Roma en 1917. Cursó estudios teóricos en el Conservatorio de Santa Cecilia, y comenzó a trabajar para el cine a principios de los años cincuenta, desarrollando una amplia y contínua labor compositiva desde entonces, en la que destacan sus colaboraciones con Ettore Scola. 
Pero también ha trabajado con Dino Risi, del que ha sido músico habitual en numerosos films, y puntualmente con Vittorio De Sica, Luigi Magni, Steno o Antonioni. 
Además es un consumado intérprete de piano, tal como pudimos comprobar en el concierto que hace unos años disfrutamos en Valencia, en el que dedicó toda la primera parte a una sucesión de temas adaptados al piano e interpretados por él, que nos dejo gratamente sorprendidos. 

LA PELICULA 
  
"El proceso de Venecia" cuenta la historia de un panadero que es acusado injustamente del asesinato de un conde, siendo condenado a muerte, tras un proceso manipulado. 
Posteriormente y a pesar de que el verdadero culpable se entrega a la justicia, el Consejo de los Diez de Venecia decide confirmar la sentencia del panadero, pues el asesino es un importante representante de la aristocracia local y debe quedar libre de todo cargo. 
La película está basada en un drama de F. Dell'Ongaro y, además de reflejar las intrigas de la Venecia del siglo dieciseis, cuenta la eterna historia de la diferente aplicación de la justicia, en 
función de la clase social del que es juzgado, e incluso, llegando más lejos, como los tribunales son capaces de establecer, a sabiendas, condenas injustas con tal de salvaguardar la posición social de los poderosos. 
  
LA MUSICA 
  
Trovaioli aborda musicalmente la obra desde dos líneas bien definidas: 
1.- La construcción de los temas tomando como referencia la música de la época, buscando un referente musical que pueda ser fácilmente asociado a los personajes y ambientes en los que se desarrolla el argumento. 
2.- La adecuación de la música a las escenas, pasando de una danza a un tema romántico, de un tema coral a otro incidental, buscando en cada momento el mejor acompañamiento para las imágenes. 
El disco se abre con una Cancione Veneziana, que comienza en un movido tono de marcha antes de que la incorporación de una voz solista ralentice el tempo y aporte solemnidad a la música, que adquiere así una belleza sobrecogedora, anunciando quizás el tono trágico que ha de adquirir la historia. 
Este va a ser uno de los temas principales de la banda sonora, que se va a ver modificado con variaciones y distintas combinaciones orquestales, que van extrayendo de él y mostrando al oyente toda la calidad de esta composición de Trovaioli, probablemente una de las más conseguidas de toda su carrera. 
La Marcia Turca que encontramos en el segundo corte del CD y que tiene su continuación natural en la Danza Cinquecentesta, o en el resto de temas de danza que iran apareciendo en otros cortes del disco, marcan parte de esa línea "histórica" que posee la música, para acompañar y volver a situar (junto al vestuario, los decorados, etc.) el referente temporal de la película. 
Por otra parte, temas como el Salotto Veneziano, que contiene una extraordinaria interpretación de guitarra, se inscriben en esa otra línea de la que hablabamos al comienzo, cuando nos referíamos a la labor de Trovaioli como creador de temas melódicos, muy gratos de escuchar y de fácil retención para el oyente desde la primera escucha. 
El tema de amor es en este caso extraordinariamente triste, y recoge en una variación mucho más pausada el tema de inicio del disco. De hecho es el anticipo de temas posteriores, como Condanna o Al Patibolo, que marcan el tono más dramático de la partitura, en consonancia con el desenlace trágico de la historia. 
Finalmente, podemos encontrar algunos cortes más incidentales, como Doppio Gioco o Consiglio dei Dieci, que reflejan la tensión debida al destino terrible e injusto que espera al protagonista, y la mala actuación de los que en teoría deben encargarse de administrar la justicia, pero que en realidad solo persiguen mantener el orden establecido y la jerarquía que beneficia a los más poderosos, que en realidad les controlan y determinan al final cual debe ser el resultado de sus acciones. 
  
CONCLUSION 
  
A pesar de ser menos conocida que otras bandas sonoras de Trovaioli, "El proceso de Venecia" es uno de sus grandes trabajos para el cine, tanto por la calidad melódica de los temas principales, como por el gran trabajo de recreación de una época y de búsqueda de la necesaria ambientación de las escenas más dramáticas de la película, y en justa correspondencia, de la partitura. 
Por todo ello, Il fornaretto di Venezia es un trabajo admirable y más que recomendable, pues resume como pocos, todo lo que es la esencia de la música cinematográfica.
Juan Angel Saiz


IL FORNARETTO NELLE VARIE FORME D'ARTE

Il fornaretto di Venezia resta a tutt'oggi la leggenda più popolare della storia della Serenissima poiché è riuscita ad oltrepassare la prova del tempo anche per merito delle varie forme divulgative con le quali ha interagito. Si passa dai dipinti e disegni (15) raffiguranti Pietro Tasca alle commedie musicali, opere e drammi teatrali, opere cinematografiche: tutti generi che hanno contribuito nel loro modo specifico affinché la storia del fornaretto non venisse dimenticata.
La forma di divulgazione più intensa e prolifica è la cinematografia, grazie alla quale la storia arriva a tutti indistintamente. Tre sono i film che il cinema italiano nel corso del ‘900 ha dedicato alla leggenda: Il fornaretto di Venezia (16) del 1939 (17) per la regia di Duilio Coletti (con lo pseudonimo di John Bard), La storia del fornaretto di Venezia (18) del 1952 per la regia di Giacinto Solito e Il fornaretto di Venezia (19) del 1963 per la regia di Duccio Tessari. Il primo e il terzo sono basati sul dramma storico di Francesco Dall'Ongaro, mentre il regista del secondo s'ispira al racconto storico di Cianchi Arduino riportando una storia sostanzialmente diversa dei fatti accaduti ai vari personaggi rispetto alle altre due versioni.
Questi tre lungometraggi trasportano la leggenda da esempio di grave errore giudiziario tipico dell'Ottocento a qualcosa di diverso: è passato ormai più di un secolo dalla comparsa dell'Histoire de la Rèpublique de Venise del Daru e la visione della Serenissima sembra cambiare. Già nella trama del primo film si denota uno spostamento  degli  obiettivi  della  leggenda:  non  si  trova  più  in  primo  piano  il processo al fornaretto e l'ingiusta condanna a morte, bensì la classica lotta tra il bene e il male dove, alla fine, a vincere è il bene: questa è la prima versione nella quale il fornaretto riesce a salvarsi da una morte ingiusta.
"Da una parte il mondo semplice e umile e i valori della fedeltà e del matrimonio, rappresentati dalla coppia Pietro e Annetta, onesti leali e coraggiosi, e dall'altra la sete di potere il senso di corruzione e di degrado morale che traspare dai rapporti della coppia Olimpia Zeno e Lorenzo, l'inquisitore" (Giuliani, 2003, 126).
Attraverso questa trasposizione del dramma di Dall'Ongaro, si capisce che in Italia il modo di interpretare e di far percepire al pubblico la leggenda è notevolmente cambiato: in questa nuova versione del racconto si intrecciano due tipi di vita diversi con la rappresentazione della coppia povera Pietro-Annetta in contrapposizione alla coppia ricca e potente Olimpia-Lorenzo.
"La semplicità del malinteso che, nel dramma di Dall'Ongaro fa emergere anco- ra più tragico l'errore finale, nel film, diventa un incrocio di tradimenti e di amanti in una lotta fra due coppie fedifraghe, animate da un senso di rivalsa e di vendetta nei confronti dei rivali in amore e in politica. Si perdono tutte le manifestazioni del l'ambiguità del dramma originario a partire dal personaggio mascherato che perse- guita la coscienza dell'assassino e la cui identità (nel dramma non rivelata) nel film viene assunta da Marco Mocenigo "Capo dei Dieci" e rappresentante della giustizia" (Giuliani, 2003, 126).
In questa breve descrizione si denota nella storia del fornaretto un cambiamento radicale nei valori e nelle idee trasmissibili con la leggenda, passando all'umanità dei personaggi sia come elemento emotivo sia come indicatore dei loro sentimenti. In que- sta versione del racconto il personaggio che interpreta l'uomo mascherato che perseguita Lorenzo è il Capo del Consiglio dei Dieci, capovolgendo così l'idea della giustizia corrotta. Se il capo di quel consiglio che deve giudicare il fornaretto sa che Pietro è innocente e la colpa è tutta di Lorenzo, la questione cambia prospettiva, perché la giustizia non è più da considerarsi corrotta, poiché c'è solo una mela marcia nell'albero, ed eliminata, la giustizia torna ad essere un baluardo della sincerità rimuovendo le ingiustizie. Altro elemento significativo del cambiamento delle idee e dei valori della storia ottocentesca si trova nell'happy end del lungometraggio: quando ormai la speranza per la salvezza del fornaretto dalla forca sembra venuta meno, Marco Mocenigo fa il suo ingresso nella sala del tribunale e annuncia a tutti i presenti che il vero colpevole dell'avvenuto omicidio è Lorenzo Loredano il quale decide di togliersi la vita per non sopportare l'onta del disonore; Pietro torna così in libertà e può sposare la sua fidanzata.
Passano alcuni anni dalla prima versione cinematografica del fornaretto e il cinema italiano cambia sempre più: quando l'Italia esce dall'era fascista, nel cinema inizia a farsi strada il neorealismo. (20) L'Italia, che da poco è stata liberata dai tedeschi, sente il bisogno di estendere queste emozioni attraverso il cinema. Negli anni cinquanta c'è la tendenza a ritornare al rapporto tra cinema, letteratura e storia, ed è proprio in questi anni che si stende e si gira la seconda versione della leggenda sul fornaretto. Con una sceneggiatura del tutto diversa rispetto alla trama proposta dal Dall'Ongaro, si pone in un filone nel quale la visione totalmente negativa tipica del secolo XIX della giustizia veneziana scompare lasciando però intravedere alcuni aspetti discutibili della giustizia non solo veneziana ma europea dell'età moderna quali la tortura che nel film diventa il momento più crudo e intenso di tutta la narrazione. Dopo aver subito le prove più dure che si possano infliggere ad una persona, Pietro riacquista la libertà e con questa la giustizia veneziana riacquista la sua integrità nel panorama italiano e non solo.
Con la versione del 1963, la storia del fornaretto ritorna ai suoi colori classici ottocenteschi: il dramma di Francesco Dall'Ongaro viene ripreso in mano e letto attentamente dal regista Duccio Tessari.
"Questa ultima versione del fornaretto ritorna al senso originario del dramma di Dall'Ongaro e si libera di molte invenzioni consolidate dalla tradizione cinematografica. Innanzi tutto sparisce la rivalità dovuta agli incroci fedifraghi fra le due coppie protagoniste del dramma. [...]
La vicenda, per come viene raccontata da Tessari, recupera un aspetto eminen- temente politico: la responsabilità di un popolano nell'omicidio del nobile Alvise Guoro sconfessa le ragioni che il "moderato" Lorenzo Balbo pone all'attenzione del Consiglio dei Dieci a favore di un allargamento dello stesso consiglio alle rappresentanze politiche del popolo. Il gesto di cui si accusa il fornaretto, rende troppo evidenti le ragioni di chi, all'interno del Consiglio, teme uno squilibrio di poteri e un danno per l'ordine pubblico" (Giuliani, 2003, 168–169). (21)
Quello che il Consiglio non sa ancora è che a commettere l'omicidio non è stato un popolano, bensì un patrizio, lo stesso Lorenzo Balbo, il quale solo quando ormai è troppo tardi ha il coraggio di confessare quello che ha fatto. Nel dramma di Dall'Ongaro non si trova un Lorenzo Balbo come viene sceneggiato da Tessari e Fondati: il personaggio ha molte sfumature contrastanti tra le due trasposizioni. Nella versione per il teatro del 1846, Lorenzo viene descritto come un uomo privo di scrupoli e senza sentire una certa colpevolezza per l'arresto ingiusto del fornaretto, è contento di non essere stato scoperto. Al contrario nella versione cinematografica di Tessari, Lorenzo è pervaso, lungo tutta la durata del film, da un senso di colpevolezza che lo attanaglia e non lo abbandona mai; cerca in tutti i modi di salvare Pietro da una fine ingiusta cercando nello stesso momento di salvare anche la sua reputazione e la sua famiglia da uno scandalo che potrebbe essergli fatale.
"Da una parte, Balbo, ormai sopraffatto dal rimorso, vuole confessare al Consiglio il suo crimine e dall'altra sua moglie e Sofia Zeno che lo sconsigliano dal confessare adducendo ragioni di rispettabilità famigliare e di convenienza politica. An- che gli Avogadori cui si rivolge Balbo optano per la ragion di stato, ma Balbo, non convinto ("Ciò che mi proponete è un compromesso, ma una mezza verità è peggio della menzogna"), corre in Consiglio per fermare il giudizio, arrivando però a cose fatte" (Giuliani, 2003, 169).
L'aspetto politico della vicenda prevale sulla verità dei fatti; per ragioni di sicurezza interna si lascia morire una persona innocente e si cerca di insabbiare le prove che portano alla colpevolezza di un patrizio che compone la magistratura del Consiglio dei Dieci. Al termine del film, quando finalmente il Balbo confessa ai suoi colleghi la sua colpa, lo fa invano, poiché nessuno batte ciglio: è stato giustiziato già qualcuno per quel reato e dunque non c'è più bisogno di altri colpevoli. Il fornaretto è stato ucciso se pur innocente, mentre il patrizio assassino, resta in libertà e non viene nemmeno processato.
Appena un anno dopo l'ultima trasposizione cinematografica della storia del fornaretto di Venezia, il regista Antonello Falqui decide di fare una commedia musicale della vicenda capitata a Pietro Tasca. Avente come protagonisti e co-sceneggiatori insieme a Falqui e Dino Verde, Tata Giacobetti, Lucia Mannucci, Felice Chiusano e Virgilio Savona (ovvero il Quartetto Cetra), il racconto fa parte di una serie di sce- neggiati tratti da altrettante opere letterarie.(22) Come dice il regista in una sua intervi- sta, lo scopo di queste commedie musicali era di: "Divertire e fare passare il tempo piacevolmente vedendo qualcosa di elegante." (Fornario, 2001).(23)
Il regista Falqui prende in mano il dramma del Dall'Ongaro e lo traspone fedel- mente nel piccolo schermo poiché assieme all'episodio della tortura, non manca il finale drammatico nel quale il fornaretto viene giustiziato anche se innocente. Significativa è la frase finale della commedia pronunciata da una popolana veneziana "Ricordeve del povero fornareto", poiché è la prima volta che, anche se presente nel dramma del Dall'Ongaro, viene pronunciata in un'opera audiovisiva portando in tal modo lo spettatore ad avvicinarsi maggiormente alla stesura più conosciuta della sto- ria.
Negli anni in cui è di moda trasporre al cinema e in televisione i grandi capolavori della letteratura, Il fornaretto di Venezia riesce a crearsi un posto tutto suo non solo attraverso il grande schermo ma anche ad appassionare le persone attraverso la televisione.

Note

15   Il dipinto più famoso che raffigura Pietro Tasca è Il fornaretto in carcere di Mosè Bianchi conservato a Ca' Pesaro a Venezia, mentre per quanto riguarda i disegni molto particolari appaiono quelli di Luigi Gardenal poiché rappresenta varie fasi della vicenda successa al fornaretto.

16   Il racconto prende spunto dal dramma del Dall'Ongaro per narrare la storia del fornaretto. Qui sono presenti molti dei fatti scritti nel dramma ma ci sono delle diversità in alcuni dettagli rilevanti per quanto riguarda lo svolgimento della storia. La figura centrale nel film diventa quella del Capo dei Dieci Marco Mocenigo, il quale svela, prima che sia troppo tardi, che il vero colpevole dell'omicidio altri non è che Lorenzo l'Inquisitore, riuscendo in tal modo a liberare il povero Pietro da ingiusta condanna. In questo lungometraggio traspare l'idea della visione mitica della Repubblica di Venezia nella quale i patrizi facenti parte della classe dominante sono giusti e leali e che solo alcuni possono, al contrario, essere avidi di potere tanto da far condannare ingiustamente un povero popolano.

17   In questi anni due registi italiani molto famosi, Blasetti e Camerini, cercando di trasporre l'opera let- teraria nel cinema danno il via ad un tipo di film che con il passare degli anni avrà molta fortuna. Mentre Camerini cerca di trasporre fedelmente da numerosi libri altrettanti film, Blasetti lascia spazio alla sua fantasia per trasformare libri in film (Guidorizzi, 1973, 22).

18   In questo film il tema centrale è la"vendetta di un umile padre che uccide un patrizio amante della fi- glia (Alvise Guoro), dopo che questi l'ha abbandonata non riconoscendo il figlio nato dalla loro relazione. Questo intreccio è sostenuto da quello originario della rivalità fra Marco Loredan e Alvise Guoro fomentata da Bianca, cortigiana molto ambiziosa, che una volta è stata amante del Guoro e ora lo è del Loredan. Spronato da Bianca, Loredan assolda un sicario per uccidere il Guoro, reo di aver sottratto a Bianca alcune lettere, prova della loro relazione fedifraga. In realtà, il sicario Barnaba, insolita figura di cantastorie che assolve al compito di Bravo e di spia, trova Alvise Guoro già morto, colpito da Nane il padre della popolana disonorata. Loredan, una volta veduto il fornaretto ingiustamente accusato dell'omicidio, si pente di quello che crede essere stato un delitto su sua commissione. Dopo aver abbandonato Bianca che fugge da Venezia, Loredan confessa al Doge il proprio delitto nel tentativo di salvare la vita al fornaretto, riconosciuto colpevole, ma il Doge antepone la ragione di stato alla verità, per "non creare disorientamento nel popolo e mancanza di credibilità sull'onorabilità di un patrizio destinato, con le sue azioni e le sue decisioni a reggere le sorti della Repubblica". A questo punto padre Fulgenzio, figura centrale dell'intreccio, colui che aiuta sin dall'inizio Arminia e cerca di convincere Alvise a riconoscere il figlio, e che aiuta da subito Lisa a dimostrare l'innocenza del suo amato fornaretto, raccoglie in punto di morte la confessione di Nane che scagiona il forna- retto." Alla fine tutto si sistema: Loredan torna a casa con sua moglie e il fornaretto si ricongiunge con la sua amata (Giuliani, 2003, 154–155).

19   Questa terza versione cinematografica del fornaretto è la più conosciuta e ha a sua disposizione tutti attori molto famosi nell'ambito della cinematografia italiana. "Questa ultima versione del fornaretto ritorna al senso originario del dramma di Dall'Ongaro e si libera di molte invenzioni consolidate dalla tradizione cinematografica. Innanzitutto sparisce la rivalità dovuta agli incroci fedifraghi fra le due coppie protagoniste del dramma. Anzi è lo stesso Lorenzo Balbo che chiede ad Alvise Guoro di corteggiare la sua amante, Sofia Zeno, in modo da tacitare le illazioni sulla loro reciproca frequentazione. In secondo luogo l'intreccio viene sgombrato da qualsiasi possibilità di variante che contrasti con il finale tragico dell'opera originaria. Le vicende seguono lo svolgimento del dramma, si vede da subito che il fornaretto è innocente anche se le lotte politiche che si creano attorno al caso non lasciano mai intravedere il lieto fine. L'incertezza invece riguarda il nome del vero assassino, Lorenzo Balbo, che viene scoperto solo nel finale, dopo un lungo lavoro investigativo di Sofia Zeno, la quale crede di giovare alla causa del suo amante" (Giuliani, 2003, 168).

20   I registi più famosi (Rossellini – Visconti – De Sica) propongono le fasi della guerra e della realtà del dopoguerra. I film vengono girati per strada con la gente che passa normalmente. Il dramma della guerra nei film non viene rappresentato da attori famosi, ma da persone comuni che vivono in quei luoghi e che sono propri dei mestieri che vengono interpretati. Con questo si vuole rappresentare uno spaccato di realtà e guardando al verismo il regista cerca di farsi vedere al minimo nell'opera cinematografica. Gli attori rappresentano loro stessi e soprattutto attraverso La terra trema si può vedere che l'italiano non è lingua dei poveri; per questo nella maggior parte dei film si parla in dialetto (Guidorizzi, 1973, 31–37).

21   Giuliani afferma che Lorenzo Balbo desidera allargare il Consiglio dei Dieci alle rappresentanze politiche del popolo, cosa che sicuramente a quel tempo non poteva avvenire e non poteva nemmeno essere stata proposta. Questa aggiunta da parte di Tessari e Fondati, da una parte vuole dare allo spet- tatore una visione più bella della figura del patrizio Balbo mentre dall'altra c'è una mescolanza del fatto come è stato tramandato con le idee che erano diffuse durante gli anni '60 del ‘900.

22   Della serie delle opere letterarie sceneggiate fanno parte 8 puntate: Il conte di Montecristo, I tre mos- chettieri, Via col vento – La storia di Rossella O'Hara, Il dottor Jekyll e mister Hyde, Il fornaretto di Venezia, La primula rossa, Al Grand Hotel e Odissea.

23   Di questi anni sono gli sceneggiati televisivi che la Rai propone al pubblico italiano e che sono tratti da opere letterarie e da scrittori molto conosciuti e molto importanti tra cui La freccia nera tratto dal libro omonimo di Robert Stevenson, I promessi sposi tratto dal romanzo di Manzoni, ... E le stelle stanno a guardare tratto dal libro avente lo stesso titolo di A. J. Cronin e David Copperfield di Charles Dickens. Tutte queste trasposizioni sono costruite in più puntate e molte hanno contribuito ad af- fermare la fama del regista e sceneggiatore Anton Giulio Majano. Questo è stato un modo per far "leggere" a tutti, anche alle persone meno acculturate, alcuni grandi capolavori italiani e stranieri facendo divertire, coinvolgere e immedesimare gli spettatori nei personaggi delle varie storie.
Sonia RADI

Mi manda Picone - Nanni Loy (1983)

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TITULO ORIGINAL Mi manda Picone
AÑO 1984
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 122 min.
DIRECCION Nanni Loy
GUION Nanni Loy, Elvio Porta
MUSICA Tullio De Piscopo
FOTOGRAFIA Claudio Cirillo
PREMIOS 1983: Premios David di Donatello: Mejor actor (Giannini), actriz (Sastri) y productor
REPARTO Giancarlo Giannini, Lina Sastri, Aldo Giuffrè, Clelia Rondinella, Carlo Croccolo, Gerardo Scala, Marzio Honorato, Armando Marra, Leo Gullotta, Mario Santella, Carlo Taranto
PRODUCTORA A.M.A. Film / Medusa Films / Radiotelevisione Italiana / SACIS
GENERO Comedia | Mafia

SINOPSIS Narra las correrías de un ladrón de poca monta que se ve envuelto en todas las actividades ilegales del submundo de la mafia napolitana. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)


Pasquale Picone è, all’apparrenza, un operaio che lavora all’Italsider di Bagnoli. Un giorno si dà fuoco durante una seduta del consiglio comunale di Napoli. Viene soccorso e prelevato da un’ambulanza, ma non arriverà mai in ospedale e di lui sembra perdersi ogni traccia. Sua moglie Lucia (Lina Sastri), dopo alcuni vani tentativi, decide di affidarsi a Salvatore (Giancarlo Giannini), traffichino con due scarpe spaiate che vive di espedienti. Questi ritrova l’agenda di Pasquale con una lista di nominativi che dovevano a Picone dei soldi. Presentandosi con la frase “mi manda Picone”, Salvatore intraprenderà un viaggio nel ventre di Napoli, scoprendo un realtà ben diversa, fatta di estorsioni, scommesse illegali, camorra e prostituzione.
Il sardo Nanni Loy ha sempre avuto interesse per Napoli, il suo mondo e i suoi abitanti, parimenti alla romana Lina Wertmüller, e lo si può vedere dalla sua filmografia, con ben cinque pellicole ambientate nel capoluogo campano. Con Mi manda Picone, titolo diventato quasi proverbiale, Loy realizza un’opera straordinaria per diversi motivi. Il film si presta, grazie alla sua struttura, a molteplici chiavi di lettura e definirla una commedia drammatica o grottesca sarebbe riduttivo. V’è infatti una componente molto forte di grottesco e di umorismo nero, ma anche una dose non secondaria di critica sociale che si muove, con grande agilità, tra il realismo e la macchietta. Il lavoro che ne esce fuori ha, come nota anche Morando Morandini, le cadenze di una farsa che sfocia nel fantastico sociale e nel film di investigazione, di cui sfrutta, pienamente, le tecniche. Ma, a ben guardare, Mi manda Picone è anche un film altamente pirandelliano. Nella figura di Pasquale, il marito suicidatosi e che possiamo vedere solo di spalle ad inizio vicenda e, di sfuggita, in alcune fotografie, sembra manifestarsi davvero “l’uno, nessuno e centomila” dello scrittore siciliano. Picone è, infatti, un operaio dell’Italsider, almeno così appare, ma scopriamo, insieme al protagonista Salvatore, che potrebbe non esserlo, ma anzi avere diverse e inaspettate attività. Ma Picone è anche nessuno, perché di lui pare non esserci davvero nessuna traccia.
Loy ci mostra una Napoli viscerale e surreale allo stesso tempo. È un pozzo che inghiotte prima Picone e poi Salvatore nei suoi meandri. Tutto ha una doppia faccia, nella Napoli di Loy, una legale e un’altra ben più profonda e inquietante. La camorra fa da sfondo alle investigazioni di Salvatore, interpretato benissimo da Giannini, anche se essa viene nominata apertamente solo in un’occasione, a metà pellicola, in un’aula di tribunale. Ma è chiaro che la camorra è presente e rappresenta un vero e proprio sistema in cui Picone, una volta persona onesta, si deve muovere e a cui, sparendo, cerca di sfuggire. Lo stesso sitema che ingloba, o cerca di inglobare, Salvatore. Il discorso di Loy appare ancora più interessante, poiché, a ben guardare, il mondo criminale non fa nulla per far sì che Salvatore ne diventi parte, ma sembra quasi una cosa naturale che questi se ne ritrovi coinvolto.
Giannini, come detto, dà un’interpretazione splendida del povero diavolo Salvatore, uomo che vive di espedienti ma che ha, in fin dei conti, un buon cuore. Davvero efficace infine la prova di Lina Sastri, che disegna una Lucia ambigua e dalle diverse sfaccettature.
Armando Rotondi


Durante un processo, l'operaio Picone per protesta si dà fuoco. L'arrivo di un'ambulanza provvidenziale lo raccoglie e lo porta via. Da quel momento di Picone non vi è più traccia. Che fine ha fatto allora?

Un mocassino color perla al piede destro, una specie di polacchina fin troppo usurata al sinistro, un abito di fortuna e una sigaretta penzolante tra le labbra. Così si presenta Salvatore Cannavacciuolo (Giancarlo Giannini), unità annoverata tra gli esperti dell'arte di arrangiarsi nell'atrio del tribunale di Napoli, in un improbabile ufficio informazioni. Con i capelli raccolti, una spiccata tendenza materna, fascino da vendere e ancora una sigaretta stavolta accarezzata, si presenta invece, Luciella coniugata Picone (Lina Sastri), in un momento di leggera agitazione nel raggiungere in tempo una riunione del Comitato dei lavoratori e contemporaneamente stare attenta ai tre figli non ancora autonomi. Dietro un comizio apparentemente tranquillo, avanza un operaio, visibile solo da tergo che infiamma (è proprio il caso di dirlo) la mattinata cospargendosi di benzina per protesta, imitando, quindi uno di quei falò che si accendono con sterpaglie di fortuna davanti ad una chitarra su una spiaggia in notturna. Una ambulanza fin troppo provvidenziale recupera il presunto carbonizzato e scompare tra i tentacoli del traffico veicolare partenopeo.
Inizia qui, in una Napoli ancora godibile ma in avanzato degrado, la rocambolesca e misteriosa storia de "Mi manda Picone", ennesima opera in napoletano del rimpianto regista sardo, fautore delle candid camera nazionali. Addò stà Picone? Addò 'ann purtat'? Ma è muort'?, sono le domande che Luciella pone al trasandato Salvatore nel suo "esercizio" per sole mille lire. All'ospedale nessuno sa niente, all'obitorio solo morti causati da arma da fuoco, carbonizzati neanche a parlarne a meno che non siano stati preventivamente sparati per sicurezza. All'Italsider, dove lavorava, lo conosceva quello alla pressa, no anzi, quello all'altoforno, anzi no, quell'altro... e tra un pacco di pastina, qualche fetta di mortadella e un panino a due stadi di farcitura, compare la misteriosa agenda dello scomparso Picone.
Si scopre così, che lo stesso Salvatore risulta tra i suoi debitori e si ritroverà, quindi, costretto a recuperare i crediti in sospeso, in compagnia di Luciella, povera moglie dello scomparso e all'oscuro di tutto. "Mi manda Picone" diventerà la chiave vocale di alcune porte ma anche il lucchetto di alcuni antri oscuri che sarebbe meglio si potessero evitare. Così in maniera grottesca e sottilmente inquietante, si svela la vita occulta dell'operaio incendiato, tra mazzette, camorristi, estorsioni, prostitute e altre attività illecite appartenenti, purtroppo, alla quotidianità della capitale del sud, anche se appaiono, in questa pellicola, raccontate con un pizzico di ironia e con una sapiente tendenza al tragicomico. Tra macellerie poco raccomandabili, interrati nascosti per la fabbricazione di esplosivi, ippodromi truccati e cunicoli fognari per una migliore riuscita di baratti nevralgici (luoghi di cui non mi meraviglierei se esistessero sul serio), si viene a sapere che la tuta indossata da Picone, al momento della sceneggiata incendiaria, aveva un substrato di amianto. Embè? Che fin' ha fatt' Picone?
Ottima prova di Nanni Loy, coadiuvato da un geniale Giancarlo Giannini ed una bellissima/bravissima Lina Sastri tra i protagonisti. Partecipazioni amichevoli eccellenti tipo, Leo Gullotta, Carlo Croccolo, Aldo Giuffrè e Marzio Honorato, nonchè una sanguigna Clelia Rondinella, nel ruolo della conturbante Teresa, infarciscono, di sfaccettature impareggiabilmente eseguibili, questa coloratissima commedia adatta ad ogni ordine di spettatore.
Enzo Barbato

Amici miei - Mario Monicelli (1975)

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TITULO ORIGINAL Amici miei
AÑO 1975
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACION 109 min.
DIRECCION Mario Monicelli
GUION Tullio Pinelli, Pietro Germi, Piero De Bernardi, Leo Benvenuti
MUSICA Carlo Rustichelli
FOTOGRAFIA Luigi Kuveiller
PREMIOS 1975: Premios David di Donatello: Mejor película y actor (Ugo Tognazzi)
REPARTO Ugo Tognazzi, Philippe Noiret, Gastone Moschin, Adolfo Celi, Duilio del Prete, Renzo Montagnani, Paolo Stoppa, Milena Vukotic
PRODUCTORA Rizzoli Films
GENERO Comedia | Amistad

SINOPSIS Cuatro amigos cincuentones, que llevan toda la vida juntos, se pasan el día organizando bromas pesadas para burlarse de los demás. Son el periodista Giorgio Perozzi, perseguido por la reprobación de su hijo y su ex-mujer; el arquitecto Rambaldo Melandri, sensible a los asuntos del corazón; el barman Guido Necchi, propietario del bar en el que el grupo se reúne cada noche; y el conde Mascetti, un noble venido a menos, obligado a vivir en un sótano, que no tiene ningún escrúpulo a la hora de alejar a su mujer y su hija para disfrutar de una relación clandestina con su joven amante, Titti. Todos ellos, conscientes de que les ayuda a seguir unidos, recurren a las bromas para prolongar su juventud y defenderse de las penas de la vida. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

Subtítulos (Español)


TRAMA: 
Perozzi, Melandri, Mascetti, Necchi e Sassaroli: cinque amici con la mentalità di altri tempi. Ormai cinquantenni, ma rimasti ragazzi, sono pronti a improvvisare situazioni burlesche a Firenze e nei dintorni. All'inizio erano quattro e il Sassaroli, primario di una clinica, li conobbe quando - ricoverati per un incidente - misero a soqquadro l'ospedale. Cominciò a trattare con loro quando il Melandri si innamorò di Donatella, moglie del clinico, fraternizzò con tutti dopo che lo stesso Melandri dovette cedere davanti all'irruenza della Donatella, del cane Birillo e del resto della famiglia appioppatogli. Eccoli, i cinque ragazzi, schiaffeggiare dalla pensilina i viaggiatori di un treno, oppure seminare il panico in un paesino camuffandosi da tecnici stradali e decretando l'abbattimento delle case nonché della chiesa per far spazio a un'autostrada, eccoli trasformarsi in spacciatori di droga per punire l'ingordo pensionato Righi. Quando il Perozzi muore, la loro goliardia viene messa a dura prova, ma nel corso del funerale trovano il modo di improvvisare un ennesimo feroce scherzo per il Righi.

CRITICA: 
"Campione d'incassi oltre ogni previsione, il film, pensato da Germi (poi deceduto) e preso in consegna da Monicelli, vorrebbe essere un'amara riflessione (con il sorriso sulle labbra) sul fatale scorrere del tempo. Ma la volgarità supera il livello di guardia; essere fiorentini è tutt'altra cosa. Germi avrebbe lavorato diversamente". (Francesco Mininni, "Magazine italiano tv")

"Intrisa del gusto toscano per la beffa e l'irrisione, venata di misantropia (e di misoginia in particolare), è una commedia di costume che ha grinta, scatto e invenzioni comiche soprattutto nella prima parte. Gran quintetto". (Laura e Morando Morandini, "Telesette")

NOTE: 
- AIUTO REGIA: CARLO VANZINA.
- GIRATO NEGLI STUDI INCIR-DE PAOLIS, ESTERNI A FIRENZE E ALTRE LOCALITA' DELLA TOSCANA.
- DAVID DI DONATELLO (1976) COME MIGLIOR FILM E MIGLIOR ATTORE (UGO TOGNAZZI).
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Un film dall’atmosfera impregnata di comicità. Ambientato nella Firenze degli anni 70 e dintorni, narra degli episodi che vivono quattro amici (a cui poi se ne accoderà un altro) e dello stile di vita che questi conducono, il quale è basato sullo scherzo e sul riso.
Le scene rimaste nella storia del cinema italiano sono molteplici: gli schiaffi ai passeggeri affacciati ai finestrini di un treno in partenza, i bizzarri discorsi dal fantasioso lessico che si inventa Lello (Ugo Tognazzi), i cori intonati dal magnifico quartetto, specie quello in ospedale che manda in bestia il personale. Ma anche il fittizio scenario di sparatorie (con tanto di fuochi d’artificio) messo su dai protagonisti, per far credere a un personaggio chiamato il Righi (Bernanrd Blier) che fossero coinvolti in un giro d’affari con la malavita organizzata, al fine di tirarlo dentro quelle situazioni che ai suoi occhi appaiono tanto losche da farlo spaventare.
Il tutto gira intorno allo spirito di superficialità e lo schietto umorismo che dai personaggi stessi scaturisce. E nonostante il fatto che il loro modo di scherzare sia per l’appunto schietto, e quindi palese, il ‘povero’ Righi non riesce lo stesso a comprendere quanto sia in realtà deriso dai protagonisti.
Resta da evidenziare comunque quanto i quattro amici siano stati bravi nel giro di pochi secondi (mentre giocavano a carte) a mettere su la scena che erano dei gangster con della droga da smerciare quando invece nella scatola c’era scritto in grande ‘ZUCCHERO’. Ovviamente quello scherzo, e tutta la seguente fila di montature che ne consegue, sono state rese possibili dall’estrema ingenuità del Righi, ma anche dalla prontezza d’ingegno dei quattro e dall’intesa micidiale che li legava. Gli attori principali recitano con una tale spontaneità da far sembrare agli spettatori che anche loro si stiano divertendo ‘da matti’ durante le riprese.
Tra tutti i personaggi il vero protagonista è il Perozzi (Philippe Noiret), che funge da narratore e che racconta all’inizio del film della sua incontenibile voglia di trascorrere un po’ di tempo con i suoi amici, dopo una nottata di lavoro alla sede di una testata giornalistica. Essendo lui che fa da intermediario tra gli spettatori e la commedia, ci dice con un pizzico di riflessività, che cosa sia la ‘zingarata’, ovvero nient’ altro che un viaggio “senza meta e senza scopi, un’evasione senza programmi che può durare un giorno, due o una settimana”.
Riflessività che notiamo anche quando, nel cantare in auto con gli amici, si sofferma un attimo a realizzare quello che stava accadendo, come per immortalare il momento che a lui sembrava così magico, e ci parla di quanto i quattro adulti siano legati tra loro fin dai tempi della scuola e del servizio di leva militare.
Il quinto elemento del gruppo, il dottor Sassaroli (Adolfo Celi), entra in azione quando, per far rispettare le regole che vigono nel suo ospedale, punisce i quattro scalmanati con metodi piuttosto singolari.
Così facendo  si dimostra più scaltro di loro, ma a farlo entrare in simpatia al Perozzi, a Lello, e al Necchi (Duilio Del Prete), è il modo in cui riesce psicologicamente a prevalere sul Melandri (Gastone Moschin), il quale si era innamorato di sua moglie.
Questa pellicola è il prototipo della nuova commedia all’italiana. Perché riproduce una realtà così vicina alla nostra generazione, come mai nessun precedente. I tempi dei “Soliti ignoti”, dove la miseria impera e ci si deve arrabattare per rimediare un po’ di denaro, sono finiti. Così come lo sono quelli di “Pane e cioccolata”, dove la realtà di un emigrato italiano in Svizzera, un po’ci rattrista. Dalla pubblicazione di Amici Miei è iniziata l’epoca del cinema che mostra il piacere provato nello sguazzare nel, perdonatemi la parolaccia, fancazzismo.
E il gusto della ‘zingarata’ è così saporito, che vengono rimandati gli impegni di lavoro (vedi il Melandri che delega il lavoro al geometra e non si occupa delle commissioni, oppure il Sassaroli che, quando sente i colpi di clacson degli amici fuori della clinica, rimanda un’operazione chirurgica che stava per avere inizio) e la famiglia viene trascurata (è il caso di Lello che lascia la moglie e la figlia con solo due cipolle da mangiare per tutto il giorno).
Forse un ventennio prima nel capolavoro felliniano “I Vitelloni” quest’aspetto venne già proposto al pubblico italiano; ma in maniera diversa.
Mentre Lello è l’unico personaggio povero del racconto (ma rimembriamo bene, povero ma fiero, poiché non vuole prestiti finanziari dagli amici) gli altri vivono nel piacere di chi ha un lavoro e una condizione economica non cattiva, e che quindi, da questo punto di vista, si può anche permettere di vivere in tal modo.
Del resto Mario Monicelli si rende ancora una volta maestro nel farci immergere completamente nelle atmosfere da lui create; anzi in tal caso risulta più corretto dire: ricreate, visto che egli, per elaborare un costrutto cinematografico così marcato, attinge da un patrimonio unico e assoluto, quello della realtà contemporanea. 
Il realismo infatti è uno dei marchi di fabbrica del regista toscano.
Stefano Salinas
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Perozzi, Melandri, Mascetti, Necchi e Sassaroli: cinque amici con la mentalità di altri tempi. Ormai cinquantenni, ma rimasti ragazzi, sono pronti a improvvisare situazioni burlesche a Firenze e nei dintorni. All'inizio erano quattro e il Sassaroli, primario di una clinica, li conobbe quando - ricoverati per un incidente - misero a soqquadro l'ospedale. Cominciò a trattare con loro quando il Melandri si innamorò di Donatella, moglie del clinico, fraternizzò con tutti dopo che lo stesso Melandri dovette cedere davanti all'irruenza della Donatella, del cane Birillo e del resto della famiglia appioppatogli. Eccoli, i cinque ragazzi, schiaffeggiare dalla pensilina i viaggiatori di un treno, oppure seminare il panico in un paesino camuffandosi da tecnici stradali e decretando l'abbattimento delle case nonché della chiesa per far spazio a un'autostrada, eccoli trasformarsi in spacciatori di droga per punire l'ingordo pensionato Righi. Quando il Perozzi muore, la loro goliardia viene messa a dura prova, ma nel corso del funerale trovano il modo di improvvisare un ennesimo feroce scherzo per il Righi.

Critica
È la storia di quattro amici, vitelloni cinquantenni che poi diventano cinque che coltivano l'antico gusto toscano delle burle ora estrose, ora crudeli. Li tiene insieme la voglia di giocare e di non prendere nulla sul serio, nemmeno sé stessi. Venata di misantropia (e di misoginia, in particolare), è una commedia di costume che, soprattutto nella 1a parte, ha grinta, scatto e ricchezza di trovate comiche. Qua e là poco attendibile sociologicamente e una premeditata vaghezza nell'ambientazione, ma un ottimo quintetto d'interpreti. Sette milioni di spettatori nella stagione 1975-76. Un film di Pietro Germi, si legge nei titoli di testa. Benvenuti, Pinelli e De Bernardi l'avevano scritto per lui.
Il Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli

«Tu muori e chi ti ricorda più? Certo, sarebbe bello se qualcuno di noi potesse durare. Ma io non ci spero, cioè... ci spero poco». Così Pietro Germi in una delle sue ultime interviste prima di morire. E l’applauso grande con cui il pubblico di Taormina, chiudendosi il Festival delle Nazioni, ha salutato il film Amici miei, da Germi avviato e da Monicelli condotto in porto, è stata la risposta a quella speranza: Germi durerà. Almeno fin tanto che qualcuno, interrogandosi sulla vita, troverà anche nel cinema, dietro la facciata d’un film burlesco, non dico le ultime risposte, ma nuove amare domande, e cercherà di difendersi dalla paura buttandola in ridere. Amici miei, alla cui sceneggiatura hanno messo mano anche De Bernardi, Benvenuti e Pinelli, è infatti una opera crudelissima e scanzonata, cattiva come una beffa del Lasca e cupa come il racconto d’un filosofo pessimista. E' una girandola di baie e una pagina di Masoch, la ghirlanda di un delirante Piovano-Arlotto e il gioco d’un becero Gianni Schicchi. È anche il singhiozzo d’una generazione di empi. E il più bel film sulla maledizione di essere toscani che l’Italia sinora abbia fatto.
Quattro amici, oggi a Firenze, tutti sui cinquanta. Il Perozzi, capocronista, è diviso dalla moglie: vive con un figlio adulto, ma i due non hanno nulla da dirsi. Il Melandri fa l’architetto, e si vanta d’avere una bella voce. Il Necchi fa il barista: gli è morto un bambino ma non ha perso l’allegria. Il più scalcinato è il Mascetti, un nobile decaduto che pur avendo moglie e figlia da sfamare se la fa con una studentessa minorenne, un tipo che vi raccomando. Quattro amici, di scuola e di caserma, che si comportano da ragazzacci, da goliardi, e da fiorentini di buona razza. Dunque da buffoni, ma anche da eredi di Buffalmacco. La loro massima gioia è stare insieme, andar vagabondi fra città e collina, prendere per il bavero la gente e sfottere se stessi. Traguardo estremo: distruggere i minchioni. A qualcuno le loro avventure sembreranno cretine, ma un toscano di sangue sano troverà sublime il correre alla stazione a schiaffeggiare gli indifesi viaggiatori;- in partenza affacciati ai finestrini mentre il treno si muove e non possono reagire, o piombare in un paesotto e spargere il terrore fingendosi mandati a scegliere le case da abbattere subito per una nuova autostrada. Gianburrasca faceva qualcosa del genere. Viviamo in un mondo dove la cattiveria è l’unica forma rimastaci di libertà.
I quattro cavalieri dello scherno, che ridotti malconci da un incidente d’auto hanno messo a soqquadro un ospedale, a un certo momento divengono cinque. È quando, per essersi il Melandri faticosamente liberato d’una signora che gli aveva fatto girare non soltanto la testa, al gruppo si aggiunge il marito di lei, un chirurgo illustre meritatosi fiducia proprio accanendosi contro di loro. Scroccare un pranzo facendosi passare per invitati a un ricevimento di snob, e giocare uno scherzo stercorario ai genitori patrizi d’una bimbetta, sarà il meno: il capolavoro verrà quando, adocchiato il Righi, un poveraccio disposto a tutto pur di arrotondare la pensione, gli fanno credere di essere criminali incalliti, dentro il giro della droga, e il chirurgo il loro boss, e lo coinvolgono in una falsa sparatoria con una supposta banda di marsigliesi. Per liberarsene, gli daranno a intendere che il boss è morto, e lo spediranno a Reggio Calabria camuffato da frate. Ma lo rivedremo, e sarà nel momento che è la chiave del film. Mentre ai funerali del Perozzi (burlatosi anche del prete venuto a benedirlo), i quattro amici superstiti, per un momento smarriti, non sapranno soffocare la risata: felici d’aver preso a gabbo, col povero Righi, anche la morte. L’ultima cosa di cui aver paura, quando nemmeno la vita merita d’essere presa sul serio se non è una continua, disperata e se occorre malvagia sfida dell’intelligenza alla meschinità quotidiana.
Film molto più elaborato di quanto sulle prime possa sembrare, Amici miei è l’analisi di un modo di esistere a cui concorrono opposti elementi: l’oltranza del ferire e la ferocia autodistruttiva; l’elogio della vita come gioco, che quando uno esce di scena gli altri continuano il girotondo, e la condanna dell’infantilismo, socialmente improduttivo e politicamente reazionario; la lode dell’amicizia ma anche la sconsacrazione del suo mito; la gelosia degli intellettuali verso i semplici che si divertono gratis e lo sdegno per il loro disimpegno. In Amici miei c’è tutto questo, un po’ alla rinfusa, senza la compattezza d’ispirazione che avrebbe potuto mettervi uno scrittore alla Malaparte e la coerenza ideologica che aveva per esempio La grande abbuffata (un film cui per molti versi somiglia, mancando invece qualsiasi rapporto con I vitelloni, tanto sognatori quanto i fiorentini si tengono al sodo), e con sbalzi di corrente nella tensione narrativa. Ma con una varietà di prospettive, e un divertito sgomento nella perfidia, che conferiscono mordente a quasi tutte le situazioni. E, anche grazie alla fotografia di Kuweiller, con lividi riflessi nella gran baldoria, che la dilata ad affresco di città.
Chiamato dalla fiducia di Germi a realizzare il progetto, Mario Monicelli deve essere contento di sé. Ha reso un omaggio intelligente alla memoria di un amico, e ampliando gli schemi della commedia all’italiana col custodire la polivalenza di significati del soggetto ha saputo raccogliere intorno al film le simpatie di spettatori molto diversi: dei meno esigenti, che rideranno vedendo quante forme possa prendere la virtù fantastica della canzonatura (il Mascetti, che aggiunge un tocco di follia verbale agli sberleffi degli amici, è col Melandri il personaggio meglio riuscito), e di quelli più pensosi e più colti, che riconosceranno in queste cronache sarcastiche l’eco d’una lunga tradizione letteraria, il piacere del cinema della naturalezza, l’assillo d’una scelta esistenziale. Gli uni e gli altri faranno festa a Tognazzi e a Philippe Noiret, tornati a dire insieme la loro grande ricchezza espressiva, ma saluteranno con simpatia anche Gastone Moschin, Adolfo Celi e Duilio Del Prete (le donne, belle e/o brave, sono Olga Karlatos, Silvia Dionisio, Milena Vukotic e Angela Goodwin). Una partecipazione coi fiocchi dà Bernard Blier. Nel ruolo attonito del Righi egli è il Calandrino d’un film che forse, con una punta in più di tragico, sarebbe piaciuto persino al Boccaccio. Certamente a Germi, che dunque aveva ragione di spera.
Giovanni Grazzini, Corriere della Sera (27/07/1975)


Dal 1975 ad oggi, "Amici miei"è entrato nelle case e nel cuore di tutti. E' una commedia estremamente divertente, in cui una riflessione dolceamara sulla vita fa da sottofondo ad una serie di gag strepitose e geniali.
"Amici miei"è la storia di quattro amici di mezza età, che non hanno mai perso il loro spirito allegro con cui affrontare la vita. Irresistibilmente attratti dalla celia, approfittano di ogni occasione per mettere in atto qualche fantasiosa goliardata: una battuta brillante, una frecciata ironica o una burla geniale, che può essere improvvisata ma anche architettata durante una gita fuori porta (la famosa "zingarata", termine entrato nel linguaggio comune soprattutto proprio grazie al film).
In conseguenza di un'intricata storia d'amore, al quartetto si aggiunge un quinto elemento, che in breve tempo si integra perfettamente al resto del gruppo, diventando anch'egli pedina essenziale nell'ordire scherzi elaborati ed indimenticabili.
La filosofia del non prendere nulla sul serio viene applicata con estrema coerenza. Ogni persona può essere vittima (studentesse e paesani, vigili e pensionati). Ogni luogo può essere lo scenario ideale (un ospedale o una villa, un paese o una stazione). E ogni momento può essere sdrammatizzato, persino la morte di uno degli amici.
"Amici miei"è una pietra miliare del cinema, l'apoteosi della commedia italiana.
Su una colonna sonora vagamente malinconica, che diverse volte ritorna su un notissimo tema verdiano tratto dal "Rigoletto" (chi non ha mai canticchiato "Bella figlia dell'amore" dopo aver visto il film?), si susseguono scene memorabili: il ricovero in ospedale e il corteggiamento di Donatella; l'imbucata alla festa; l'ossessione del Mascetti che chiede sempre "un gettone" per chiamare la sua Titti; lo scherzo a Nicolò Righi, "pensionato delle poste". Ma ci sono soprattutto due trovate che sono divenute le più conosciute, indimenticabili e copiatissime: la supercàzzola e gli schiaffi alla stazione.
Nei suoi toni scanzonati e nelle sue riflessioni esistenziali, "Amici miei" potrebbe essere la storia di ogni amicizia. Un sempreverde adatto per ogni generazione, perché cambiano le città, il vestiario, il modo di vivere e il tempo in cui si vive; ma il piacere cameratesco, goliardico, spensierato dello stare insieme è una sensazione che ogni uomo è destinato a sperimentare nella sua vita. Chiunque potrebbe far proprie le riflessioni del Perozzi:
"Cari amici miei. Mentre me li guardo a uno a uno mi domando, con improvvisa tenerezza, come mai quest'amicizia è durata tanto. Un'amicizia con regole precise anche se non ce le siamo mai dette. (...) E poi il diritto al reciproco sfottimento e alla canzonatura. E la totale e tacita solidarietà appena si tratta di giocare con l'esistenza. Ma più che altro la voglia di ridere e il gusto difficile di non prendersi mai sul serio".
"Amici miei"è celebrazione dell'amicizia sincera e spensierata, un unico linguaggio che accomuna persone radicalmente differenti. Basti pensare ai protagonisti: uomini dai caratteri diversi, che appartengono alle più disparate classi sociali e che vivono vicende amorose e familiari totalmente differenti.
Il Perozzi, voce narrante, è redattore presso un giornale. Un burlone, ma calmo e riflessivo. Ha un figlio ed è separato dalla moglie.
Il Melandri è un architetto. Un single estremamente facile all'innamoramento, passionale, a tratti isterico.
Il Mascetti è un conte decaduto. Povero ma orgoglioso, cerca sempre espedienti con cui mantenere moglie e figlia, ma nel frattempo impazzisce per la sua giovane amante.
Il Necchi, brillante e sereno, è proprietario di un bar e sembra felicemente sposato.
Il Sassaroli è un uomo di carattere. Medico stimato e benestante, abbandona la moglie, viziata e instabile, e il resto della famiglia in mano al Melandri, che se n'era innamorato.
Questi uomini non potrebbero essere più diversi tra loro. Eppure, la loro amicizia azzera le differenze. Non più "io", ma "noi": si passa alla dinamica del gruppo, assurto a valore tanto importante da entrare in competizione con altri valori primari, come la famiglia. Un legame così stretto che nulla (forse la morte, o forse nemmeno quella) è in grado di comprometterne la solidità.
Il gruppo è allora espressione di amicizia parificatrice e salvifica, vissuta in uno spirito divertito che esalta l'umanità dei protagonisti. Ecco perché si può dire che questo film, parlando di ogni uomo, parla ad ogni uomo.
Se in "Amici miei" si dovesse individuare una filosofia di vita, sarebbe senz'altro il non prendere mai nulla sul serio. Nemmeno sé stessi.
Si pensi al Perozzi. Un geniale burlone che vive solo. Come se avesse preferito perdere moglie e figlio, piuttosto che la capacità di sorridere. Una capacità che i musi lunghi non sanno perdonare: nell'ipocrisia sociale, è frequente l'accostamento della "risata" alla "immaturità". Il rimprovero del figlio è per il giornalista occasione di una riflessione esistenziale semplice, lineare, ma significativa:
"Io restai lì a chiedermi se l'imbecille ero io, che la vita la pigliavo tutta come un gioco, o se invece era lui, che la pigliava come una condanna ai lavori forzati, o se lo eravamo tutti e due. Lui è un leopardiano. E io no. Leopardi, seduto dietro la siepe, in cima alla collina, pensando all'infinito si metteva a piangere a dirotto. Io invece dopo un po' mi metterei a ridere. E trovo questa mia posizione altrettanto rispettabile e degna di considerazione."
Questo spirito monicelliano non è assolutamente superficiale.
Da una parte, i pessimisti potrebbero definirlo "fuga dalla realtà": una zingarata è una dolce parentesi che allevia il mal di vivere; una risata allevia l'uomo dal pesante pensiero della vecchiaia e della morte. E' un dubbio che per un attimo si affaccia anche alla mente del Perozzi: "Notti, giorni, amori, avvenimenti. Ho già sulle spalle un bel fardello di cose passate. Che sia per questo, per non pensarci, per non sentire il peso di tutto questo, che mi ostino a non prendere nulla sul serio?".
Dall'altra parte, gli ottimisti potrebbero definirlo "stile di vita": la vita merita di essere vissuta perché in ogni attimo se ne può ricavare un sorriso. Si pensi al Mascetti, dalla vita misera e miserevole. Eppure...
"Era felice. Questa è la sua forza e la sua bellezza. Gli basta una farfalla, nel buio più nero, per dimenticare sciagure e difficoltà; gli basta un estro di gioco o di scherzo, o una commozione che lo prenda all'improvviso, e tutta la vita gli ridiventa gioco, o scherzo, o commossa partecipazione".
Evidentemente ogni uomo ha diritto di decidere come leggere la propria vita. Entrambe queste riflessioni, come direbbe il Perozzi, sono rispettabili e degne di considerazione.
L'uomo dovrebbe solo ricordare che è molto più facile piangere su tutto che ridere di tutto.
I nomi che lavorano ad "Amici miei" sono essi stessi garanzia di qualità.
Il cast è stellare: i cinque amici sono interpretati da Philippe Noiret, Ugo Tognazzi, Adolfo Celi, Gastone Moschin e Duilio Del Prete.
L'idea originale risale a Pietro Germi (1914-1974), importante sceneggiatore e regista (tra gli altri lavori "Divorzio all'italiana", "Sedotta e abbandonata" e "Serafino") che, a causa della malattia, dovette cedere il progetto all'amico Monicelli.
Mario Monicelli è stato un gigante del cinema italiano.
La sua lunga vita (1915-2010) si spegne tragicamente nel nuovo millennio dopo aver attraversato l'intero "secolo breve". Monicelli è l'italiano novecentesco per eccellenza: spettatore di tutti i tragici eventi storici del secolo scorso e delle evoluzioni sociali del Paese, egli ne vive la drammaticità riproponendola nei suoi lavori ("La grande guerra", "I compagni", "Un borghese piccolo piccolo"). Anche la commedia monicelliana è sempre calata in un contesto storico e sociale ben definito, che funge da sottofondo agli eventi vissuti da protagonisti che fanno ridere e piangere, sorridere e riflettere ("Vogliamo i colonnelli", "I soliti ignoti").
Nelle opere del Maestro vengono immortalati i tratti peculiari dell'italianità. Monicelli ritrae l'italiano come il cittadino di un Paese inquieto e difficile, un uomo che può essere mammone, pavido e farfallone, ma che nel momento della prova sa dimostrarsi estremamente risoluto, generoso ed ottimista. Una nobile macchietta, un perdente dal grande cuore ("Un eroe dei nostri tempi", "Il Marchese del Grillo"). Questi sono i tratti che caratterizzano la commedia di Monicelli: un'ironia mai fine a sé stessa, che non scade mai nel demenziale, ma che è sempre percorsa da una leggera venatura drammatica. O forse al contrario: una drammaticità che non scade mai nel patetico, ma che viene sempre stemperata nelle tragicomiche vicende dei piccoli grandi eroi nostrani. Personaggi che diventano icone del cinema, resi indimenticabili dalle interpretazioni dei più grandi attori del "gotha" cinematografico italiano: tra gli altri, Totò, Vittorio De Sica, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi e Alberto Sordi.
Monicelli è da annoverare tra i padri della migliore commedia italiana, un genere a cui il Maestro ha saputo dare un rinnovato lustro, tanto da rendere le commedie italiane note in tutto il mondo. Il suo indiscusso talento e la sua creativa genialità, premiati con numerosi riconoscimenti a livello internazionale, hanno fruttato al regista ben sei nomination agli Oscar. Un livello impensabile per le commedie nostrane d'oggigiorno.
Se il lascito artistico di Monicelli consiste in un'enorme produzione cinematografica (regista di oltre sessanta film, sceneggiatore di un centinaio), il suo lascito morale risiede nello spirito sagace, intelligente ed ottimista con cui abilmente sdrammatizzava ogni situazione. Sul suo sito ufficiale campeggia tutt'oggi una significativa citazione di Sant'Agostino: "Nutre la mente soltanto ciò che la rallegra".
ilSimo81

Un sorriso, uno schiaffo, un bacio in bocca - Mario Morra (1975)

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TITULO ORIGINAL Un sorriso, uno schiaffo, un bacio in bocca
AÑO 1975
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACION 105 min.
DIRECCION Mario Morra
REPARTO Renato Pozzetto, Alberto Sordi, Claudia Cardinale, Vittorio De Sica, Alain Delon, Vittorio Gassman, Gina Lollobrigida, Anna Magnani, Ugo Tognazzi, Totò, Marcello Mastroianni, Sophia Loren, Nino Manfredi
MONTAJE Paolo Wohicievich
MUSICA Lelio Luttazzi
PRODUCCION Merope Film
GENERO Comedia
FORMATO: B/N-Color

SINOPSIS Un sorriso, uno schiaffo, un bacio in bocca è un film antologico del 1976 diretto dal regista Mario Morra. Presenta spezzoni di film italiani prodotti dalla Titanus dal 1947 al 1962, commentati ironicamente dalla voce di Oreste Lionello e presentati da un giovane Renato Pozzetto, all'epoca star emergente. (Wikipedia)

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Subtítulos (Español)


TRAMA
Il film, tratto esclusivamente dal materiale delle pellicole Titanus 1946/1964 (con qualche inserto documentaristico dell'Istituto Luce) è un "collage" di scene in prevalenza umoristiche o di commedie-varietà. L'antologia è presentata da Renato Pozzetto che appare all'inizio dello spettacolo, a metà e alla fine, in una sorta di scontro pugilistico con i divi e le dive che lo hanno preceduto nella carriera cinematografica. Alcuni dei film sfruttati appaiono più volte (es. "I due gondolieri", "Pane amore e fantasia", "L'armata Brancaleone", ecc.), ma la preferenza è stata data al chilometrico ballo de "Il Gattopardo" che in un certo qual modo dovrebbe fungere da leitmotiv. Numerosi sono gli attori e le attrici che vengono così menzionati insieme ad alcuni dei loro film.

CRITICA: 
"Renato Pozzetto presenta un'antologia delle commedie prodotte dalla Titanus dal 1946 al 1964. Una rassegna del neorealismo rosa e dell'Italietta di Scelba in un come eravamo che non manca di spunti satirici. Fa sempre piacere rivedere la Magnani, Sordi e Totò: però l'operazione resta una furbata per fare un film praticamente con niente." (P.Mereghetti - Dizionario dei film).

NOTE: 
- Testi del commento: R. Pozzetto, A. Parenzo
- Totò e' presente con episodi tratti da:
Totò diabolicus
Totò lascia o raddoppia?
Risate di gioia
Totò contro i quattro
I due colonnelli



La Titanus compie un secolo. Sono cent’anni di cinema e di televisione che ci prepariamo a celebrare, in questo 2004, soprattutto per onorare il lavoro di tanti uomini e donne, famosi o sconosciuti, la cui professionalità e la cui passione ci hanno consentito di arrivare fin qui. 
Io di anni ne ho qualcuno di meno della Titanus. Ho comunque l’età giusta per poter dire con orgoglio di aver vissuto con il cinema italiano, continuando una tradizione di famiglia che, nata con mia madre Leda Gys e con mio padre Gustavo, prosegue ora con mio figlio Guido. La nostra è una storia di spettacolo (ieri il cinema, oggi la fiction tv), dunque è la storia di un magico mondo di sogni, di emozioni, di gratificazioni e di entusiasmi; ma anche di scelte impegnative, di costosi sacrifici, di audaci scommesse.
Centinaia e centinaia di film, centinaia di storie raccontate per immagini nell’arco di un secolo. Prima immagini mute e tremolanti, proiettate in bianco e nero, col pianista nel buio che, tenendo d’occhio il lenzuolo dello schermo, batteva sui tasti per ricavarne un commento musicale. Poi il sonoro, il colore, lo smalto del cinemascope, le suggestioni del surrounding. E gli attori più amati, i registi più celebrati, i premi più prestigiosi, i titoli delle opere che resteranno per sempre nell’albo d’oro della settima arte. 
Nel frattempo, con cent’anni sulle spalle (ma un uomo, ha scritto Vitaliano Brancati, può avere due volte vent’anni senza sentire il peso dei quaranta), la Titanus si proietta in avanti, costruisce giorno dopo giorno il suo futuro. E se prima si occupava di cinema, ora si dedica soprattutto alla tv, produce le fiction, i grandi serial televisivi. Insomma investe la sua esperienza e la sua passione per fabbricare nuove storie e nuove immagini destinate a farci compagnia scorrendo ogni sera sul piccolo schermo di quell’elettrodomestico che a volte molti dicono di odiare come le noccioline americane (lo diceva il grande Orson Welles). E tuttavia non riescono a smettere di mangiare le noccioline americane.
Goffredo Lombardo

Napoli terra d'amore - Camillo Mastrocinque (1954)

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TITULO ORIGINAL Napoli terra d'amore
AÑO 1954
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 95 min.
DIRECCION Camillo Mastrocinque
GUION Camillo Mastrocinque, Mario Brancacci, Gianni Puccini
REPARTO Franco Caruso, Bruna Corrà, Enzo Donzelli, Maria Fiore, Luciano Fatur, Lucien Gallas, Violetta Gragnani, Manlio Grau, Maria Pia Giordani, Carlo Giuffré, Nino Imparato, Renato Navarrini, Giovanni Onorato, Piero Palermini, Mario Passante, Amelia Perrella, Luciano Paoli, Andrea Petricca, Anna Pretalani, Beniamino Maggio
FOTOGRAFIA Alvaro Mancori
MONTAJE Gabriele Varriale
MUSICA Tarcisio Fusco
PRODUCCION Giovanni Addessi pata Trionfalcine
GENERO Drama  / Musical

SINOPSIS Vittorio e Margherita si amano ma lui, per debolezza, viene coinvolto in giri di camorra e nell'omicidio di una bella canzonettista. Melodramma povero al servizio di Rondinella per sciorinare qualche canzone alla maniera di "chiagnazzaro" per la sua modulazione un po' troppo accorata. All'epoca l'Italia di Sanremo delirava per lui. (Il Morandini)

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TRAMA: 
Vittorio Spasiani, proprietario di un'oreficeria, è promesso a Margherita: i due si vogliono bene, ma Vittorio non dimostra molta fretta di sposarsi. Egli ha occasione di fare la conoscenza di Lidia Florette, bella canzonettista, amica del barone De Lise, e per assistere allo spettacolo, cui partecipa l'artista, trascura Margherita. Con un pretesto Lidia invita Vittorio a casa sua, dicendo di dovergli rivelare dei fatti importanti. Recatosi da lei, scopre che è stata uccisa: sorpreso nella casa, Vittorio è accusato d'assassinio ed arrestato. Margherita è certa dell'innocenza del fidanzato e il suo arresto la getta nella disperazione. La polizia ha dei sospetti sul barone De Lise, capo della camorra, ma non ha prove, né indizi sufficienti per poterlo incriminare. Col consenso del commissario di polizia, Margherita accetta le galanti premure del barone, del quale ha preso a frequentare la casa. Scoperto il gioco della ragazza, il barone sta per sopprimerla; ma viene ucciso egli stesso da un camorrista, che vede in lui un traditore. Accertata la responsabilità del barone nell'assassinio di Lidia, Vittorio viene liberato. Egli crede d'esser stato tradito da Margherita; ma quando apprende che essa non solo gli è stata fedele, ma ha rischiato la vita per poter provare la sua innocenza, corre ad abbracciarla.


CRITICA: 
"E' un lavoro modesto: la vicenda, i tipi, l'ambiente, tutto è convenzionale e mediocre". (Anonimo, "Segnalazioni Cinematografiche", Vol. XXXVI, 1954).

NOTE: 
AUGUSTO GENINA NEL 1937, IN FRANCIA, AVEVA DIRETTO UN FILM CON UNA TRAMA PRESSOCHE' IDENTICA DAL TITOLO ORIGINALE "NAPLES AU BAISER DE FEU" DISTRIBUITO COME "NAPOLI TERRA D'AMORE".

Amici miei (Atto II) - Mario Monicelli (1982)

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TITULO ORIGINAL Amici miei atto II
AÑO 1982
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACION 104 min.
DIRECCION Mario Monicelli
GUION Tullio Pinelli, Mario Monicelli, Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi
MUSICA Carlo Rustichelli
FOTOGRAFIA Sergio D'Offizi
REPARTO Ugo Tognazzi, Philippe Noiret, Gastone Moschin, Adolfo Celi, Renzo Montagnani, Paolo Stoppa, Milena Vukotic, Franca Tamantini, Angela Goodwin, Domiziana Giordano, Alessandro Haber
PRODUCTORA Filmauro
GENERO Comedia | Secuela

SINOPSIS Continuación de Amici miei (Habitación para cuatro), también dirigida por Monicelli.(FILMAFFINITY)

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Subtítulos (Español)


TRAMA: 
Il conte Mascetti, nobile decaduto, il geometra Melandri, impiegato al Comune, il chirurgo Sassaroli, illustre primario, l'oste Necchi, proprietario di un bar/trattoria, si ritrovano davanti alla tomba del giornalista Perozzi, il "quinto uomo" di quella brigata allegra e burlona, le cui gesta ci erano state descritte in "Amici miei" e al termine delle quali il Perozzi stesso era beatamente passato nel regno dei più. Sono trascorsi sette anni, ma i reduci, pur più vicini ai 60 che ai 50, non hanno troppa voglia di perdere tempo in commemorazioni: il prendersi beffe di un povero diavolo che su una tomba vicina piange la scomparsa della giovane moglie serve ad introdurre il clima giusto e a preparare il lungo flash-back che permette al cronista Perozzi di riunirsi agli altri e di ripresentare così per intero al pubblico il gruppo che a suo tempro aveva incontrato un favore quasi unanime. Tra avventure passate (al cui centro si colloca l'evento dell'alluvione di Firenze nel 1966) e altre presenti, il gioco continua e per oltre 2 ore va avanti senza pause: ci sono scherzi individuali che i burloni fanno subire alle consorti, scherzi architettati con sottile strategia comune (la canzonaccia al concorso per coristi, la torre di Pisa da far reggere ai turisti, la contorsionista chiusa in una valigia, le foto oscene scattate con le macchine dei visitatori stranieri, la presa in giro dell'usuraio), scherzi che i cinque si scambiano fra di loro (ai danni del Melandri infatuatosi della sorella di un prete, del Mascetti che si ritrova la figlia ingravidata da ignoti, del Necchi che si scopre tradito dalla moglie...). Insomma la girandola continua, finché una trombosi non colpisce all'improvviso Mascetti e ai tre rimasti tocca ingegnarsi per consolare l'invalido. Che non se lo fa ripetere due volte e anche da infermo continua il suo ruolo di impunito sbeffeggiatore.

CRITICA: 
"Si ride meno che per "amici miei" (1975) forse. Ma si ride più verde, anzi più nero; il gioco più crudele, più empio, i quattro si fanno beffe di tutto e di tutti. Anche di sé stessi." 
(Laura e Morando Morandini, 'Telesette')

"Il peggior film della trilogia: su certe cose non c'è proprio bisogno di scherzare. Questi amici che mollano tutto e partono per le 'zingarate' starebbero meglio in un film di fantascienza. Che tristezza." (Francesco Mininni, 'Magazine italiano tv')
---
Citazione "Che cos'è il genio? È fantasia, intuizione, colpo d'occhio e velocità d'esecuzione."

E' sempre il maestro Mario Monicelli a firmare, a distanza di 7 anni dal primo capolavoro, il secondo episodio del film.
I protagonisti sono sempre i cinque amici fiorentini amanti dello scherzo e della goliardia.
Se il primo film era contraddistinto da amarezza e malinconia il secondo episodio viene percorso da una vera e propria vena pessimistica.
I cinque amici sono animati da rimpianti fino a condurre la storia cucendo un finale triste quanto il primo film, se non di più.
Anche se Giorgio Perozzi è defunto in realtà è molto presente e assolutamente vivo nel ricordo degli amici.
Amici miei atto II sia al botteghino che da un punto di vista di critica riesce a bissare il successo ottenuto dal fratello più grande del 1975. E anzi, riesce a offrire nuove idee, nuove trovate umoristiche decisamente esilaranti che ancora oggi vengono ricordate e riprese, anche nel linguaggio comune e quotidiano.

LOCATION
Firenze
- Basilica di San Miniato al Monte
- Cimitero Porte Sante
- Giardino Orticoltura
- Piazza Santo Spirito
- Porta San Miniato, via dei Bastioni
- Quotidiano La Nazione

Montecatini Terme
- Grand Hotel & La Pace (scena del "rigatino")

Pescia
- Viale Garibaldi

Pisa
- Piazza dei Miracoli - Torre di Pisa

Pistoia
- Palazzo della Prefettura (scena de "I cinque madrigalisti moderni")

Prato
- Via di Galceti ang. Via Pistoiese (scena "defecatio isterica")

CURIOSITA'
In Amici miei la voce di Giorgio Perozzi è di Renzo Montagnani, mentre in Amici miei atto II la voce è di Pino Locchi (visto che Montagnani recita nella parte del barista Necchi). Nella scena iniziale (intitolata "Ieri", che poi è la scena finale del primo episodio), quando gli amici prendono a schiaffi i passeggeri del treno in partenza, Giorgio Perozzi tira uno schiaffo al figlio (che reagisce gridando "Mah babbo!") Perozzi risponde con attraverso la voce di Renzo Montagnani. Nel resto del film Perozzi avrà la voce di Pino Locchi (che ha doppiato ad esempio Terence Hill, Tony Curtis, Jean-Paul Belmondo e Sean Connery).
La voce fuori campo (con la voce di Gastone Moschin) "Che cos'è il genio? È fantasia, intuizione, colpo d'occhio e velocità d'esecuzione."è presente anche nel primo film, ma qui è con la voce di Renzo Montagnani ed è leggermente differente (infatti al posto di "colpo d'occhio" c'è "decisione").
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Sette anni dopo, Mario Monicelli rimette assieme la vecchia banda di scapestrati e dà un seguito alle loro avventure. Visto che la prima parte terminava con la dipartita del Perozzi (Philippe Noiret) è gioco forza alternare zingarate nel presente storico del film con flash back che lo riportino in vita, anche se c'è da dire che l'attendibilità dei fatti narrati, e soprattutto della loro cronologia, sembra essere l'ultima delle preoccupazioni della sceneggiatura. Del resto abbiamo anche che il Necchi cambia misteriosamente la figura, mutando da Duilio Del Prete in Renzo Montagnani, e riprendendosi la voce che il Montagnani aveva prestato al Noiret nel doppiaggio italiano. Ma visto che le vicende sono narrate in prima persona dai protagonisti, e questi non brillano certo per affidabilità, aspettarsi un racconto coerente sarebbe veramente fuori luogo.
Sin dall'incipit si mette bene in chiaro che il pubblico di riferimento è quello che ha già conosce la storia (viene riproposta la mitica sessione di schiaffoni in stazione) e vuole qualche dettaglio aggiuntivo. E così viene mostrata un'altra disastrosa avventura sentimentale dell'architetto Melandri (Gastone Moschin), che questa volta cerca di circuire una prosperosa attivista cattolica (Domiziana Giordano al primo film), fallendo nell'opera a causa dell'alluvione di Firenze, nientemeno. Alluvione che causa anche la definitiva separazione del Perozzi dalla moglie, e nell'occasione ci viene spiegato anche il motivo del caratteraccio del Perozzino. Tra le zingarate più citate c'è quella in cui la brigata si presenta ad un serissimo concorso canoro con una canzonaccia da osteria (Nota ai cultori come "Ma vaffanzum"). Tra le guest star appaiono Alessandro Haber, nei panni di un vedovo inconsolabile che subisce uno scherzo atroce da parte del primario Sassaroli (Adolfo Celi) e Paolo Stoppa (in finale di carriera) che interpeta un antipaticissimo usuraio che ha preso di mira il conte Mascetti (Ugo Tognazzi). Solito spazio striminzito riservato alle donne, il Mascetti ha una moglie (Milena Vukotic) e una figlia che ricordano stranamente la famiglia di Fantozzi dall'episodio dell'80 ("contro tutti) in avanti. Ma d'altronde gli sceneggiatori sono sono quelli (a mettere la firma in entrambe le serie sono Leonardo Benvenuti e Piero De Bernardi) e la Vukotic ha il dono dell'ubiquità.


BLOOPERS!
Errori nei film 

Amici Miei Atto II (1982)

ND: [N°755] La scena della zingarata presso la Torre di Pisa, quando la Torre è legata con funi che vengono fatte tirare ai turisti perché la stessa non cada, è stata girata di mattina. Quando iprotagonisti lasciano Piazza dei Miracoli, si dirigono sui Lungarni. Quando viene girata la scena sui Lungarni è però pomeriggio inoltrato e secondo quanto accaduto nel film sarebberoinvece trascorsi pochi minuti. Ovviamente, solo chi conosce Pisa, in base alle ombre e alla posizione del sole, si rende conto di questo sfasamento temporale.

ND: [N°756] Un'auto (una seicento, mi pare) travolta dalle acque dell'alluvione a Firenze (1966) ha sul retro un disco adesivo di velocità massima (cifra bianca su fondo rosso) entrato in uso all'inizio degli anni ottanta.

ND: [N°757] I cinque partecipano a una famosa manifestazione coristica, che la voce fuori campo dice avvenire ad Arezzo. In realtà, però, quando "I cinque madrigalisti moderni" (che poi son loro) si recano al concorso, sul cartellone alle loro spalle si legge chiaramente che l'azione si svolge a Pistoia.

ND: [N°758] Il Dott. Sassaroli riceve una telefonata alle 2 e 30 di mattina, ma già c'è molta luce fuori.

ND: [N°759] Nel primo episodio della saga i quattro amici (Perozzi, Necchi, Mascetti e Melandri) incontrano il prof. Sassaroli, per la prima volta, in ospedale dopo l'incidente. Dopodiché i cinque si affiatano solo al momento della fuga del Melandri dalla (ex) moglie del Sassaroli, in seguito a una crisi di coppia (v. scena della cena). Nel secondo episodio, invece, nel flash-back, insieme ai quattro (visibilmente più giovani) appare anche il Sassaroli, anche lui più giovane rispetto al primo film, e con tanto di baffetti. E' vero che i due film sono pieni di riferimenti al passato, ma nel primo l'episodio dell'incontro col Sassaroli appartiene senz'altro ad un passato prossimo. Quindi effettivamente c'è un accavallamento temporale nella storia.

ND: [N°761] Nella scena in cui i quattro sono appena scappati dalla Torre di Pisa e arrivano nella piazza in cui cambiano l'aspetto del camion (cioè Piazza Carrara), al nuovo arrivo delle volanti Tognazzi e co. si dirigono verso la parte di piazza che dà sulla vicina Piazza Dante; nella scena immediatamente successiva però il camion svolta a sinistra in una via che non è per niente quella che porterebbe da Piazza Carrara a Piazza Dante, bensì quella da cui sono arrivati in precedenza nella stessa Piazza Carrara! In pratica è come se fossero entrati nella piazza, e poi avessero imboccato una via che li faceva rientrare direttamente nella stessa piazza dalla parte dov'erano entrati la prima volta! A fare il giro per tornare lì almeno 10 minuti sarebbero serviti, mentre sembra ce le due scene siano immediatamente successive !

ND: [N°11964] Nel film "Amici Miei" quando il Perozzi finge di essere gobbo davanti al figlio già adulto, è stato appena dimesso dall'ospedale, per cui il Sassaroli non è ancora parte integrante del gruppo. In Amici Miei Atto II invece si vede il Sassaroli giocare a carte con altri tre del gruppo a casa del Perozzi, il cui figlio è adolescente. L'incongruenza temporale è evidente. 

ND: [N°12186] La Via Crucis avviene 2 o 3 giorni prima dell'alluvione di Firenze, quindi siamo ai primi di Novembre: 1)Se fate caso ai partecipanti alla Via Crucis, sono tutti in maniche corte, un po' anomalo per la stagione ... 2)Non ho mai visto una Via Crucis i primi di Novembre, mi sbaglio o si fa nella settimana di Quaresima ?

Doppiaggio/Cartelli: [N°12927] Mentre Lucianino fa i compiti a casa del Mascetti, dialoga con il padrone di casa. Dopo l'ultima domanda, Lucianino risponde a Mascetti con un "AH.", ma non muove assolutamente la bocca!

Storico: [N°14965] Nella celebre scena della inondazione di Firenze, l'architetto Rambaldo Melandri si getta dalla finestra dell'amante in acqua perchè, grida, deve mettere in salvo i suoi pregiati pezzi di antiquariato, tra i quali "due trumoncini del Quattrocento". Ma il mobile detto trumeau (o anche bureau-trumeau) non venne ideato prima del Seicento, quindi non potevano esistere "trumoncini quattrocenteschi"!!

ND: [N°16785] La moglie del Necchi si aggira nel suo bar all'ora di pranzo, quand'ecco che vede seduto a un tavolo in fondo alla sala Augusto Verderame, l'uomo con cui ha tradito il marito pochi giorni prima (è ancora ben visibile l'occhio pesto per il cazzotto del Necchi...). Subito sgattaiola spaventata nella sala del biliardo per evvertire il marito, il quale sta giocando con gli amici. Il Necchi le chiede cos'abbia ordinato Verderame e lei afferma: "Minestrina". Ma come fa a saperlo se non glielo ha nemmeno chiesto?

ND: [N°18280] Quando Luciano, figlio del Perozzi, giunge nello "scantinato alla gapponese" del Mascetti, egli ha un'età compresa tra i sei e gli undici anni (lui dice: "La signora maestra..."). Siamo nel 1966 (riconoscibile dall' alluvione di Firenze). Quando il Perozzi muore, nel 1975 (riconoscibile dalla lapide sulla tomba all' inizio del II atto), sono trascorsi nove anni e Luciano è gia professore (lo dice il Perozzi narrando: "non so mai qando viene qui o quando va a insegnare a Milano").... Ma è impossibile!!!! Luciano, al massimo, dovrebbe avere 20 anni circa, dove, anche essendo promossi ogni anno, non si riuscirebbe a compiere gli studi, compresa l' università ,e, di conseguenza, non si potrebbe di certo insegnare!!!!!!!

Anacronismo: [N°19435] Nella scena, ambientata nel 1966, in cui i cinque amici osservano desolati da una terrazza lo squallore di Firenze devastata dall'alluvione, Ugo Tognazzi ha un paio di scarpe da ginnastica bianche con il marchio Diadora: un modello tipico dei primi anni '80, non certo esistente nel 1966.

Continuità: [N°19619] Il bicchiere di vino e il cartoccio che Sabino Capogreco (Paolo Stoppa) appoggia sul suo tavolo, all'arrivo degli "zingari" cambiano di posto in diverse inquadrature differenti.

Continuità: [N°19620] Scena a Pisa con l'involontario scambio di patante del Necchi, il vigile dopo averlo "perdonato" se ne va in pieno sole, cambio d'inquadratua e il vigile e in ombra.

Incongruenza: [N°19621] Nella prima inquadratura del furgone "servizio torri" mancano i lunghi pali che useranno poi nello scherzo della torre di Pisa e che si vedono in tutte le altre inquadrature.

Continuità: [N°19622] Quando interrompono la partita a biliardo perche il figlio del Perozzi ha sonno, in due inquadrature diverse si possono vedere le biglie e un panno adagiato sul biliardo che cambiano posizione in diverse inquadrature.

ND: [N°19623] Ad inizio film al cimitero quando puliscono la tomba del Perozzi, le ombre sono alternativamente a destra o a sinistra della tomba. Scene girate in momenti diversi.

ND: [N°19879] Il Mascetti, sulla soglia del bar-ristorante del Necchi, assiste piuttosto contrariato alla scena dei quattro amici che infilano nel rimorchio di un'auto la valigia con dentro la contorsionista spagnola. Si tratta di una scena ambientabile al massimo nel 1975, poichè il Perozzi è ancora in vita. Sulla porta del locale si vede un adesivo della Sprite: a parte il fatto che a me sembra che nel 1975 la Sprite non fosse ancora arrivata in Italia, c'è da dire che il locale è completamente diverso rispetto al primo film. Infatti, in questo film l'insegna del locale è bianca e recita "Bar ristorante biliardo Necchi", mentre quella nel primo film era scura e vi era scritto solo "Bar Necchi"; in questo film il locale dispone di biliardo e di sala ristorante, mentre nel locale del primo film vi era solo la sala biliardo.

ND: [N°21599] Nel primo film Luciano, il figlio del Perozzi è già professore (e infatti il Perozzi dice: "Non ricordo mai se i giorni dispari insegna a Milano e quelli pari qui a Firenze o viceversa"). Il film è del 1975, ma la scena si riferisce almeno ad un paio d'anni prima, perchè il Perozzi soffre ancora dei postumi dell'incidente. Nel secondo film, invece, Luciano è un ragazzino perchè il flashback riporta al 1966, e si presume frequenti le elementari perchè parla di "signora maestra": quindi potrebbe avere al massimo 10 anni perchè la scena è ambientata il 5 ottobre 1966 (come legge il Mascetti), quindi all'inizio dell'anno scolastico. Errore per errore, resta da stabilirne la fonte: se di incongruenza temporale, perchè nel 1975 Luciano poteva avere al massimo 19 anni, e a quell'età non si può essere già professori (soprattutto, poi, quando la scena è antecedente al 1975 e Luciano sarebbe addirittura minorenne), oppure se di doppiaggio: se Luciano, anzichè di "signora maestra", avesse parlato di "professoressa", si sarebbe potuto pensare che frequentava le medie, e quindi attribuirgli anche 13 anni di età. In questo caso i conti sarebbero quadrati un pochino di più, giusto?

Doppiaggio/Cartelli: [N°21890] Il Perozzi, esasperato dal figlio Luciano, vorrebbe affidarlo a qualche istituto per levarselo di mezzo, ma non è disposto a spendere più di 150.000 lire al mese, cifra per la quale se lo aggiudica il Mascetti... ma la scena è ambientata nel 1966, periodo in cui 150.000 lire erano praticamente uno stipendio! Domanda: ma quanto guadagnava il Perozzi per permettersi una cifra di questo genere? Mi sa che aveva ragione Luciano: vitto e alloggio nello scantinato del Mascetti per 150.000 lire sembravano proprio una rapina... soprattutto nel 1966!

Continuità: [N°27161] Siamo al cimitero all'inizio del film: il Sassaroli (Adolfo Celi) ruba dei fiori da un vaso per portarli ad Adelina, la moglie di Paolo (Alessandro Haber) che piange sulla sua tomba (e al quale il Sassaroli giocherà uno scherzo a dir poco mitico). Appena Sassaroli si volta verso gli altri tre, si vedono inquadrati in primo piano, da sinistra a destra, il Melandri (Gastone Moschin), il Necchi (Renzo Montagnani) e il Mascetti (Ugo Tognazzi). Il Melandri e il Mascetti hanno le mani dietro la schiena, mentre il Necchi le ha in corrispondenza dei fianchi. Nell'inquadratura immediatamente successiva, in campo lungo con i tre inquadrati di spalle, anche il Necchi le ha dietro la schiena, senza che si sia visto il suo movimento. Scene girate in momenti diversi.

Doppiaggio/Cartelli: [N°27162] Siamo alla fine del film, alla gara di velocità sulle sedie a rotelle dove il Mascetti arriva malinconicamente ultimo. Prima che la gara cominci, viene inquadrato lo striscione su cui campeggia la scritta "CAMPIONATO INTEREGIONALE HANDICAPPATI F.I.S.". Si scrive "INTERREGIONALE", con due "R"!

Continuità: [N°28391] Nella scena in cui il Perozzi gioca a biliardo mentre suo figlio si lamenta perchè vuole andare a letto, al giornalista appare e scompare il grembiule da gioco.

Anacronismo: [N°28392] Quando Adolfo Celi suggerisce a Noiret la possibilità di mettere il bambino in collegio, Montagnani comincia a sfogliare le pagine gialle che appaiono dissimili da quelle del 1966 ancora senza pubblicità esterne.

ND: [N°28393] Dopo il "colpo" alla torre di Pisa, i quattro vengono inseguiti dai carabinieri che montano su delle Fiat Ritmo che non mi risultano essere state mai in dotazione ai carabinieri.

ND: [N°28394] Nel momento in cui Montagnani si rende conto di avere una patente non sua, vediamo che la dicitura sul documento recita "Augusto Verderame" etc. etc. ma le scritte sono apposte con il pennarello e non con la macchina da scrivere come succede(va) in realtà.

Continuità: [N°33835] Nella scena del parco...subito dopo la scenetta che annuncia il trapianto di ano...Tognazzi si trova sulla locomotiva e "gioca" a fare il macchinista...quando simula di tirare la corda per lo sfiato del vapore nell'inquadratura piu lontana lo sportello è aperto e, sullo zoom del gesto, lo sportello invece è chiuso...per poi tornare poi magicamente ad aprirsi nella scena piu lontana.

ND: [N°35927] Siamo alla scena in cui il Melandri, folgorato dalla fede, lava i piedi ai barboni che frequentano la "pia confraternita" .... guardate il barbone sulla destra, con la coppola ed il bastone... per un istante alza gli occhi in direzione della troupe come per chiedere "è adesso che mi devo muovere?" difatti appena riabbassa lo sguardo porge il piede da lavare a Rambaldo !

Microf./CastTecnico: [N°41434] Nella scena immediatamente dopo che "i Zingari" sono stati fermati dal vigile, mentre avviene la consegna della famosa patente sbagliata, si vede riflessa nella portiera aperta del furgone utilizzato per lo scherzo, una lampada di quelle utilizzate sul set con tanto di struttura ad ombrello!

Doppiaggio/Cartelli: [N°42156] Il fornaio marito dell'amante segreta del Pierozzi parla un limpido toscano nella prima scena in cui appare (quella dei cornetti, per intenderci). Nella scena dell'alluvione, il fornaio parla con fortissimo accento siciliano.

Storico: [N°45626] Nel film i protagonisti vengono sorpresi dalle acque dell'Arno in pieno giorno: in realtà il fiume ruppe le spallette intorno alle sei del mattino, almeno in centro a Firenze: questo particolare viene spesso ricordato perchè l'alluvione non fece una strage dato che il 4/11 allora era festivo ed i fiorentini erano a letto.

Incongruenza: [N°48205] All'inizio, mente il conte Mascetti spolvera la tomba del Perozzi, lo stesso Mascetti dice al Melandri che il Prof. Sassaroli l'ha chiamato al telefono; questo non è possibile in quanto il conte Mascetti vive in un seminterrato caratterizzato, tra le altre cose, dall'assenza del telefono (come si evince dalla lettura dei compiti del figlioletto del Perozzi).

Continuità: [N°49422] Al cimitero all'inizio del film: il Mascetti (Tognazzi) ruba dei fiori, si vede chiaramente che la "calla"è rovesciata rispetto agli altri fiori. Al cambio di scena quando chiama Sassaroli (Celi) la "calla" si è magicamente messa a posto.

Incongruenza: [N°49447] Quando il Mascetti riceve gli altri amici nella hall dell'albergo dove sta facendo il rigatino, dice "C'ho 55 anni" e siamo nel 1975, come detto precedentemente ("Era ancora vivo il Perozzi"). Nel primo film, ambientato anch'esso nel 1975, il Mascetti diceva all'amante Titti "Io ho 52 anni, tu 18".

ND: [N°49448] Quando la ragazza con la valigia va a cercare il Mascetti al bar, le viene proposto di esibirsi. Allora il Necchi va a metterle un sottofondo musicale e, guarda caso, aveva pronto nel giradischi lo stesso brano sul quale la ragazza aveva ballato a teatro!

Incongruenza: [N°49450] Tra le tante incongruenze temporali, nell'episodio in cui il Mascetti intrattiene una breve relazione con la contorsionista, e che viene ambientata nel 1975, ci si dimentica che in quel periodo, com'è evidente dal primo film, il Mascetti aveva una relazione con la Titti, che non tronca che in vicinanza alla morte del Perozzi. La relazione con la Titti era anzi molto accesa ed è piuttosto difficile farci entrare questa fuga romantica con la contorsionista spagnola.

FraseFamosa: [N°49609] Donna nana tutta tana.

FraseFamosa: [N°49659] "Sii astuto come un cervo!""Che bischerate tu dici il cervo non è astuto semmai astuto comeuna volpe.""Si ma la volpe un c'ha mica le corna!!!".

Trucco: [N°50064] Durante le evoluzioni sessuali del Mascetti con Carmencita, si vede che Tognazzi indossa una tuta colore giallo.

Anacronismo: [N°50333] Quando il Perozzi andava a letto con la moglie del fornaio erano gli anni sessanta, tuttavia oltre ad esserci delle sicento, compaiono anche delle auto degli anni ottanta.

Incongruenza: [N°50761] Quando Perozzi è nella stanza da letta di Anita (la moglie del fornaio), si copre le nudità con una copia della Nazione (Paolo VI parla agli africani); se si nota bene, per un attimo sul suo fianco destro è possibile intravedere un lembo delle sue mutande (bianche, per la precisione).

Continuità: [N°52359] Mascetti, appena finita la misera cena, chiede a Lucianino di fargli vedere i compiti. Trasferiti nello studiolo, il conte legge il resoconto della giornata, compresa una minuziosa elencazione del “rinforzino”. E’ da notare che oltre a questo particolare, Luciano usa i verbi al "passato" per descrivere la cena, eppure hanno finito di mangiare solo pochi secondi prima e non c’era il tempo materiale per scrivere anche questi dettagli sul quaderno.

Incongruenza: [N°52371] Uno dei marinai allo spettacolo della contorsionista ha i capelli troppo lunghi per essere un militare.

Incongruenza: [N°55453] L'auto del Mascetti nel secondo film è diversa del tutto a quella del primo film, nel primo film era a 2 porte mentre nel secondo film è a 4 porte, e si nota sopratutto quando si vedono i flashback che fanno lo scherzo allo strozzino che c'era ancora il Perozzi.

Incongruenza: [N°55781] Alla fine del film si vede il Mascetti sulla sedia a rotelle che partecipa a una specie di paraolimpiadi... ma come faceva a manovrare la sedia a rotelle con tutte e 2 le braccia se aveva un'emiparesi? tantopiù che poi nel terzo film il braccio è quasi completamente paralizzato...

Continuità: [N°63749] Quando i quattro amici lasciano il cimitero e salgono in macchina, si nota un taglio piuttosto grossolano. La telecamera inquadra l'auto del Mascetti dalla parte del guidatore; sono già saliti a bordo lo stesso Mascetti e Melandri, mentre dalla parte opposta Necchi e Sassaroli hanno aperto le portiere e stanno salendo. Di colpo sono tutti in macchina, con le portiere chiuse e l'auto, per il peso degli occupanti, è decisamente più bassa sugli ammortizzatori rispetto ad un istante prima.

Incongruenza: [N°73107] Nelle prime battute del film i 4 amici si trovano al cimitero a commemorare il Perozzi, in occasione dell'anniversario della sua morte. Com'è possibile che siano tutti vestiti in maniera molto leggera, quasi primaverile, se il Perozzi è morto il 20 novembre....periodo non certamente caldo e soleggiato!!!

Incongruenza: [N°73698] Mentre stanno terminando la cena a casa del Mascetti, questi dice che vuole controllare i compiti del figlio del Perozzi. Si reca quindi subito nello studiolo e legge il tema: esso è talmente preciso e ben fatto che descrive, con termini poco lusinghieri, non solo la casa i componenti della famiglia, ma anche ciò che hanno appena mangiato. Ma se hanno appena finito il pasto, come poteva il ragazzino inserire questo dettaglio a metà del tema?

Continuità: [N°80792] Quando entra il panettiere in casa (alluvionata) si vede Perozzi che si nasconde in acqua e davanti a lui c'e una poltrona che galleggia, ma subito dopo non c'e piu!

Continuità: [N°86852] L'alluvione di Firenze successe a novembre 1966 , e allora come e' possibile che il giorno prima Melandri fa Gesu' nella rappresentazione della via crucis (che notoriamente avviene il venerdi' santo) ???

Continuità: [N°86853] All'inizio i fiori sulla tomba del Perozzi cambiano forma colore e quantita'!

Doppiaggio/Cartelli: [N°86871] Nella scena della Via Crucis il Melandri interpreta Gesù linciato dai suoi amici dice: "Brutti finocchi!" ma senza muovere le labbra!!

ND: [N°87506] L'esilarante scena in cui la contorsionista si presenta al bar Necchi alla ricerca dell'amante fedifrago è singolarmente piena di incongruenze. Anzitutto, il fatto che nella tasca del Mascetti vi fosse un conto del bar non implica certo che egli sia un avventore abituale del locale, né tanto meno un amico stretto del gestore. Eppure Carmencita entra nel bar, in orario di chiusura, con la certezza di trovarlo: " Rafaelo, donde esta?". La ragazza afferma poi di avere "caminado, molto caminado": possibile che si sia fatta a piedi tutta la strada da Montecatini a Firenze (più di 50 km)?

Continuità: [N°93722] Quando la signora Necchi riceve le rose , le appoggia sul letto ,ma nello stacco successivo il mazzo si e' spostato da solo!

Luci: [N°93749] Quando Lucianino arriva a casa del Mascetti , si parla di preparare la cena con il famoso "rinforzino" , quindi dovremmo essere in ore serali , ma come mai c'e un luce da pieno giorno che spunta dalle finestre??

Continuità: [N°93772] Quando Verdirame mangia il famoso "Brodino" sul tavolo c'e un portafiori con un garofano che cambia di posizione senza che nessuno lo tocchi!

Continuità: [N°93773] Quando arrivano alla torre di Pisa , parcheggiano il camion in prossimita' della porta della torre, ma subito dopo il camion e' parcheggiato in un modo differente!

Continuità: [N°93774] Poco prima di fare il "Souvenir d'Italie" si scorge dalla finestrella che sul biliardo ci sono della palle , ma subito dopo non ci sono piu'!

Continuità: [N°93779] Quando il Necchi va a portare il brodino a Verdirame , si vede che c'e una tazzina sul bordo del biliardo , ma quando ritornano la tazzina si e' spostata da sola .

Trucco: [N°93780] Il viottolo dove il Mascetti dice "l'acqua non puo' venire , siamo su un dosso" , dove Il Melandri si tuffa, dove il Perozzi e' a letto con la moglie del fornaio , e' sempre quello , evidentemente e' una piscina o un canale utilizzato per tutte e 3 le riprese!

Doppiaggio/Cartelli: [N°94196] Non so se considerarlo un errore ma... Nei primi secondi del film , Perozzi parla con la voce di Montagnani, ma qualche secondo dopo Montagnani ha la sua voce ,e Perozzi ha un'altra voce ( Pino Locchi). Lo so' che e' flashback di un'altro film , ma forse sarebbe stato meglio raddoppiare i primi secondi del film .

Continuità: [N°94229] All'inizio del film, Mascetti parcheggia la sua auto nelle vicinanze di una panchina , ma quando escono dal cimitero tutti insieme , l'auto e' notevolmente spostata più indietro.

Continuità: [N°94230] Quando Sassaroli e gli altri discutono con Mela dell'eventuale aborto nella clinica, si vede il colletto del cappotto di Mela a volte aperto e a volte e' chiuso!

ND: [N°99578] La scena dell'esibizione dei cinque amici a teatro (i cinque madrigalisti moderni) fu ripetuta diverse volte, perchè uno dei prelati presenti in prima fila continuava a ridere anzichè rimanere impassibile fino al momento nel quale avrebbe dovuto alzarsi indignato e lasciare la sala. Anche nel "ciak" buono lo si può notare: l'attore che interpreta il presule (il primo, a fianco del corridoio centrale del teatro) tiene quasi costantemente la testa bassa e quando la alza si nota chiaramente dal ghigno che sta trattenendo a stento le risa.

Anacronismo: [N°101291] All'inizio della storia del Perozzi con la fornaia ambientata circa nel 1966 si notano quando consegna il giornale allo spazzino delle auto come la Fiat 600 che allora esisteva, ma anche una Fiat 500 l, la Renault 6, la Fiat 127 che all'epoca non erano ancora in produzione. 

Amici miei (Atto III) - Nanni Loy (1985)

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TITULO ORIGINAL Amici miei atto III
AÑO 1985
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACION 110 min.
DIRECCION Nanni Loy
GUION Tullio Pinelli, Nanni Loy, Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi
MUSICA Carlo Rustichelli
FOTOGRAFIA Claudio Cirillo
MONTAJE Franco Fraticelli
REPARTO Ugo Tognazzi, Renzo Montagnani, Gastone Moschin, Adolfo Celi, Bernard Blier, Franca Tamantini, Enzo Cannavale, Caterina Boratto, Franca Tamantini
PRODUCTORA Luigi e Aurelio di Laurentiis
GENERO Comedia | Amistad. Secuela

SINOPSISÚltima parte de la serie iniciada por Mario Monicelli diez años antes con "Habitación para cuatro". Los amigos de siempre retoman su habitual costumbre de poner una chispa en su vida a base de bromas pesadas, esta vez instalados en una casa de reposo de lujo. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

Subtítulos (Español)


TRAMA: 
Quattro amici, Melandri, Sassaroli, Necchi e Mascetti, mattacchioni in gioventù, ma ora attempati e acciaccati, con un ritorno di spregiudicata e anacronistica goliardia ritentano le bravate del passato. Lo scherzo più cattivo viene fatto al quarto, il conte Mascetti, vedovo e ridotto sulla sedia a rotelle da una trombosi, che i tre sistemano in una fastosa "Villa Serena", casa di riposo per vecchi danarosi. Più avanti, essi stessi non resistono e finiranno di propria iniziativa alla Villa, ma per continuarvi i loro scherzi rivoltanti e le loro volgari bravate, e per organizzare una gita finale al polo Nord (al fine di eternarvi - surgelata - la loro incontinente senilità?). Ma gli anni sono passati e a volte ci rimettono, nel perpetuo scherzo fatto per allontanare l'idea della morte.

CRITICA: 
"Loy subentra a Monicelli e, non essendo toscano, azzecca qualche frecciata in più. Ma, a parer nostro, non c'è molto da ridere." (Magazine tv)

"Un appuntamento piuttosto debole, perché la serie risente di una eccessiva usura. Ma si fa ugualmente vedere." (Teletutto)

"Sono passati dieci anni dal primo, tre dal secondo: qui, lo scarto con gli altri due è assai netto, i risultati sono sconsolanti, qua e là deplorevoli e il difetto è nel manico, cioè nella sceneggiatura. Niente di buono, solo bravi gli attori." (Telesette)


Solita allegrìa ma decolla poco.Ottimo finale.

Evidentemente non convinto della necessità di un terzo seguito, Mario Monicelli rifiuta di dirigere la terza avventura sugli amiconi toscani zingari e viene sostituito da Nanni Loy. Il film non è debole rispetto ai primi due, ma va da alti a bassi: la prima parte è la migliore, soprattutto perché, data l’età avanzata dei quattro amici, la malinconia che caratterizzava i primi due lavori qui può essere un po’ più accentuata. Quindi ecco l’ospizio: la nuova dimora del Mascetti ormai paralitico; a ciò, si aggiunge il fatto che gli altri tre zingari lo seguono a raffica; si prosegue con gli scherzi feroci che i protagonisti costruiscono abilmente per prendere in giro ferocemente gli altri ospiti della casa di riposo, canzonando tutti i problemi legati alla vecchiaia, in particolar modo l’incontinenza. Grande la scena nella quale i quattro fanno finta di levarsi le dentiere e le mettono in bicchieri e piatti. Ma non tutti gli scherzi ideati nella terza sceneggiatura di questa trilogia di film fa centro: la beffa ai danni di Bernard Blier, ad esempio, riesce in parte, ma risulta divertente; la parentesi sentimentale del Melandri ricalca in qualche punto quella del primo film. La seconda parte diventa invece molto debole:il viaggio al Polo Nord è davvero una cosa inutile, una mezza cretinata giusto per allungare un po’ la storia(divertente però lo scherzo disgustoso sul vomito); ancor di più la zingarata che loro organizzano per convincere tutti gli anziani che l’ospizio nel quale si trovano non è gestito in buone condizioni(le rane nei piatti; le simulazioni delle voci dei fantasmi; gli effetti horror), salvo farlo acquistare al Sassaroli. Insomma si tratta di trovate sciapite che non fanno decollare il secondo tempo del film. Buchi comunque coperti dalla bravura dei protagonisti. Sottolineerei invece due momenti del film davvero toccanti: la vendita del bar Necchi e la scena conclusiva, nella quale gli zingari toscani decidono di rimettere in atto uno dei loro scherzi più riusciti: lo schiaffeggio dei passeggeri sui treni in partenza. Nanni Loy ha fatto benissimo a far chiudere così il film: è una conclusione degna che di nuovo rimette in piedi una sceneggiatura in tono minore. Ormai il Mascetti, il Necchi, il Melandri ed il Sassaroli sono troppo vecchi e appesantiti per schiaffeggiare i passeggeri affacciati ai finestrini dei treni. Quasi stavolta sono loro a ritrovarsi con le facce piene di sberle, tranne il Mascetti che, paralitico, spruzza inchiostro ai viaggiatori con una peretta. Ma eccoli sempre pronti a divertirsi, come ai bei tempi. L’ultima inquadratura li mostra mentre insieme corrono verso altri binari tentando, seppur goffamente, di tornare alle allegrie spensierate di una volta. Un bel finale che quasi ti fa dispiacere che non si sia fatto anche un quarto seguito.
Daniele, 26 anni, Napoli (NA) - (25 Novembre 2006)

Amici miei - Come tutto ebbe inizio - Neri Parenti (2011)

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TITULO ORIGINAL Amici miei - Come tutto ebbe inizio
AÑO 2011
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Italiano (Separados)
DURACION 108 min.
DIRECCION Neri Parenti
GUION Fausto Brizzi, Marco Martani
FOTOGRAFIA Luciano Tovoli
MONTAJE Luca Montanari
PREMIOS 2010: Premios David di Donatello: 5 nominaciones
REPARTO Christian De Sica, Michele Placido, Pamela Villoresi, Massimo Ghini, Giorgio Panariello, Chiara Francini, Massimo Ceccherini, Barbara Enrichi, Alessandro Benvenuti, Paolo Hendel, Alessandra Acciai
PRODUCTORA Filmauro
GENERO Comedia | Precuela

SINOPSIS Precuela y homenaje del realizador Neri Parenti a las dos películas firmadas por Mario Monicelli (fallecido en 2010) en 1975 y 1982: "Amici miei" y "Amici miei atto II". (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)
CD 1

Subtítulos (Italiano)

CD 2

Subtítulos (Italiano)


Amici miei - Come tutto ebbe inizio [+], del maestro de las comedias navideñas Neri Parenti (Natale in Sudafrica [+]), precuela de la legendaria Amici miei, de Mario Monicelli, sigue ºdesencadenado las protestas de los incondicionales del gran director toscano fallecido en noviembre del año pasado y de su película de culto de 1975 (y de la secuela de 1982). El número de internautas se multiplica vertiginosamente en la página de Facebook que critica la película "Giù le mani da Amici miei" ["No toquen a Mis amigos"]: ya cuenta con casi 60.000 miembros unidos contra la “profanación de una obra de arte” y decididos a “boicotearla”.
El director, defendiéndose de las acusaciones, habla de un acto de amor “hacia la película original de Monicelli, hacia mi ciudad, Florencia, y hacia los guionistas de aquella época, Piero De Bernardi, Leo Benvenuti y Tullio Pinelli, que también escribieron el guión de esta nueva cinta”. Ambientada en la Florencia del siglo XIV, reconstruida en los estudios de Cinecittà en una superficie de más de 20.000 metros cuadrados, la película cuenta con un reparto encabezado por Michele Placido, Giorgio Panariello, Christian De Sica, Massimo Ghini y Paolo Hendel, que interpretan a un grupo de amigos de mediana edad que, entre bromas, intentan prologar su juventud.
“Cené muchas veces con Monicelli durante el rodaje la película, pero nunca me dijo nada al respecto. Respetaba demasiado el trabajo de los otros como para criticarlo”, ha destacado Michele Placido. Paolo Hendel agregó que el mismo Monicelli le sugería no tomarse las cosas demasiado en serio y cuando le habló del proyecto, el inolvidable director opinó: “Es suficiente si la historia funciona y hace reír”.
Es posible que eso baste, pero el nombre de Monicelli no aparece ni siquiera en las dedicatorias: Parenti afirma que “conocía muy bien a Mario y estoy seguro de que no habría aceptado una dedicatoria sin antes haberla autorizado”.
Amici miei - Come tutto ebbe inizio es una producción de Aurelio y Luigi de Laurentiis, distribuida por Filmauro.
Vittoria Scarpa (15/03/2011)
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Più un'operazione sbagliata che un film inguardabile. È questa la prima impressione di fronte al film scritto e diretto da Neri Parenti, solido artigiano di tanto cinema medio-basso, dai seguiti più o meno apocrifi di Fantozzi alla stagione dei cinepanettoni. Un regista non nuovo ad operazioni di questo tipo: Parenti, diresse con esiti altalenanti parecchi capitoli di Fantozzi, dopo i primi due leggendari Fantozzi e Il secondo tragico di Fantozzi di Luciano Salce. Non tradì nel complesso il personaggio, semmai lo semplificò riducendolo, col passare del tempo, a macchietta comica e slegandolo dal contesto sociale, persino di lotta di classe, che aveva caratterizzato i film di Salce. E lo stesso si può dire dei tanto vituperati cinepanettoni, “inventati” dai Vanzina con la serie di Vacanze di Natale all'inizio degli anni 80 e trasformati poi da Parenti con esiti a volte non malvagi nella serie delle vacanze esotiche. Parenti sembra quasi uno specialista nel dar vita a un filone che sembrava esaurirsi e la sua esperienza è certa: è un regista in grado di intrattenere e divertire senza troppi pensieri; conosce, e anche bene, i tempi comici della commedia all'italiana e sa sfruttare al meglio gli attori. Il che, soprattutto in questi tempi, non è poco. Tutte qualità che si ritrovano, anche se solo in parte, in Amici miei - Come tutto ebbe inizio, prequel, pure questo apocrifo, di uno dei titoli più noti e amari della tarda commedia all'italiana, e che Parenti cerca di recuperare non tanto come operazione filologica, impossibile anche perché gran parte del cast è passata a miglior vita, compreso il regista Mario Monicelli, ma come omaggio, un po' tardivo, allo spirito acre che dominava quella pellicola.
Ma l'operazione lascia perplessi: data per scontata la professionalità di chi sta davanti alla macchina da presa, gli attori, gente capace e navigata nel genere, dalla coppia De Sica - Ghini, già rodata in molti film natalizi, a Giorgio Panariello, Michele Placido, allo stesso, sprecatissimo nel film, Massimo Ceccherini, e fatta salva la mano dello stesso Parenti che sa come e quando far ridere, Amici miei si presenta allo spettatore come un film poverissimo dal punto di vista produttivo, con una fotografia sgranatissima dai colori opachi e ambientazioni solo accennate e poco credibili. Non solo: il film soffre anche da un punto di vista narrativo con una voce fuori campo impegnata a raccontare piattamente la vicenda e a fare da collante a storie slegate tra di loro. Storie e gag che, ahinoi, non fanno né ridere, né sorridere e nemmeno riflettere. Gli ingredienti del film di Monicelli, si intravvedono, seppur a distanza. I tipi fissi della commedia classica - De Sica sciupafemmine, Ghini l'ingenuo, etc – dovrebbero essere funzionali a un racconto morale dai toni sarcastici che lasci spazio a un riso amaro e a una riflessione cinica e disincantata sulla vita. Parenti cita più volte Monicelli, compresa l'entrata in scena del personaggio della Morte, presenza insolita per una commedia tradizionale e saccheggia a mani basse la commedia pecoreccia degli anni 70, quella dei vari Decamerotici, Una cavalla tutta nuda, Fratello Homo sorella Bona, E si salvò solo l'Aretino Pietro con una mano avanti e l'altra dietro e via con titoli di questo tipo, ma il suo omaggio alla commedia popolare di un tempo è tanto superficiale quanto deludente da un punto di vista strettamente cinematografico. Come film comico in sé, Amici miei è infinitamente meno divertente di qualsiasi cinepanettone; come omaggio alla serie di film di Monicelli, il film è assolutamente inadeguato e sta all'Amici miei originale come Il Decameroticus di Pier Giorgio Ferretti o I racconti di Viterbury di Mario Caiano al Decameron e a I racconti di Canterbury di Pasolini. Da ultimo, come operazione squisitamente commerciale, il film è ancora più scentrato. Vecchio e datato nella confezione e nell'impianto narrativo, privo di vera verve comica, inviso ai fan della commedia monicelliana che lo considerano come un affronto ad un capolavoro, difficilmente potrà conquistarsi una fetta, anche esigua, di autentici affezionati.
Simone Fortunato
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Il popolo non è grullo (anche se nel palazzo dei Priori ad inizio film si afferma il contrario). Secondo me è d'accordo anche Neri Parenti che ha realizzato Amici miei - come tutto ebbe inizio. Allora perché ha voluto fare una cosa diversa (tornando nel passato), con attori diversi (i vecchi non ci sono più) ma che mantenesse lo spirito (il titolo) del film di Monicelli del 1975? 
In quanto fan della seconda ora (forse anche della terza) di Amici miei l'originale, ho trovato quantomeno azzardato il tentativo di Parenti, un po' esagerati i 50.000 oppositori del gruppo facebook "Giù le mani da..", comprensibile chi per affetto o per culto non voleva sentir paragoni col "genio" di Monicelli. 
Come tutto ebbe inizio è un film del quale si devono palesare le intenzioni, anche se questo non sposta necessariamente l'ago della bilancia su un giudizio positivo o negativo. Il problema è che con i film di Neri Parenti non siamo abituati alle intenzioni (siamo invece molto più avvezzi a sparare a zero). I 5 amici (Placido, Panariello, De Sica, Hendel, Ghini) nella Firenze del 1400 ci finiscono perché l'idea di un prequel era venuta agli stessi sceneggiatori (De Bernardi, Benvenuti e Pinelli) di Amici miei. Neri Parenti, a cui l'idea piaceva già allora, ha tenuto fede (a se stesso soprattutto) all'impegno, omaggiando loro e la sua città (non Monicelli che non avrebbe amato una dedica senza previa richiesta). Adesso lo sapete. 
C'è un cambio di epoca, uno strano (per Parenti) e apprezzabile cambio di registro (comico), un'elaborazione maggiore; si è cercato di non "inquinare" il soggetto originario (pensato in un contesto diverso) ma gli sceneggiatori sono del nostro contesto. Nelle pesanti e adorne vesti rinascimentali, la nuova brigata cerca di combattere "la calamità della noia" facendo scherzi, partendo senza meta alla ricerca di sfortunate vittime di cui prendersi gioco: le suore timorate, il corteo papale, il legnaiolo un po' tordo (Massimo Ceccherini). Nessuno degli interpreti è sopra le righe, la parlata, anche di chi non è toscano, è credibile, l'impegno (l'onore) di stare al centro di una Firenze/Cinecittà così ben affrescata è sentito. 
Amici miei - come tutto ebbe inizio si compone di battute (di ingenuità quattrocentesca) e qualche punta di nero (non dovuto solo alla peste). Il lessico sempre colorito e le situazioni (qualcuna di rimando al film di Monicelli) tuttavia non possono, e forse non vogliono, ricercare l'ironia e lo spensierato/disperato cinismo del quartetto di un tempo, anche quando la vittima della beffa diventa uno di loro. 
Neri Parenti ha esaudito un suo desiderio, gli attori anche; tutti (probabilmente) hanno proseguito le "zingarate" fuori dal set, Lorenzo il Magnifico ha trovato il suo verso più significativo "chi vuol esser lieto sia, del doman non v'è certezza". Il punto è che lo si può considerare un altro film, con altre intenzioni, ma spiegare la "supercazzola" (anche se nella Firenze del 1400) equivale a perdere il significato della "supercazzola". Chi non la conosce capirà come se fosse antani vedendo Ugo Tognazzi fuori dal bar del Necchi che discute amabilmente col vigile. 
Giulia Pietrantoni (15/03/2011)


Noi non abbiamo visto Amici Miei Come tutto ebbe inizio ma siamo decisamente curiosi di sapere cosa ne pensano i critici cinematografici. Ecco alcuni stralci. Decisamente positiva è la recensione di Rondi de Il Tempo. Che ne pensate voi che avete visto il film?

Alessandra De Luca - Avvenire: (…) Convince davvero poco l’operazione revival di Neri Parenti che in “Amici miei… come tutto ebbe inizio” (costato - secondo il regista – “oltre 15 milioni di euro”) mette in scena gli antenati dei protagonisti del film di Monicelli (…)

Gian Luigi Rondi - Il Tempo: Aurelio De Laurentiis ancora una volta fa centro. Con il sostegno sempre più felice di Neri Parenti regista e sceneggiatore che, volendo rendere omaggio al mitico “Amici miei” del caro e compianto Mario Monicelli, ha ritenuto giusto non dargli un seguito, anche perché non era semplice sostituire in quelle parti quei magnifici interpreti di allora, e così, chiamato nuovamente in campo Piero De Bernardi, aggiungendovi Fausto Brizzi e Marco Martani, ha preferito anticipare le zingarate dei cinque burloni addirittura nella Firenze del Quattrocento, regnante Lorenzo il Magnifico. […]

Valerio Caprara - Il Mattino: Neri Parenti, punching ball dei cinéfili in servizio permanente effettivo, ritorna nella sua Firenze (dove il padre fu rettore) con una certa accuratezza e il fermo principio di non prendersi troppo sul serio. È ovvio, dunque, che girando il prequel di «Amici miei» non ha commesso sacrilegio e non merita anatema; anche perché il culto delle zingarate - cioè gli scherzacci intrapresi da goliardi fuori età - venne spesso fustigato al tempo dell’uscita come espressione dell’edonismo maschilista che stava seppellendo il ’68 («il mestiere infame di Germi, Risi e altri Monicelli» scrivevano i papà degli odierni integralisti). […]

Alessandra Levantesi - La Stampa: Tutto nel mondo è burla» canta il Falstaff di Verdi, riallacciandosi a una tradizione dello sberleffo usato per esorcizzare i mali della vita e i terrore della morte che ha lontane radici nella nostra cultura. Essendosi ispirati per la trilogia di Amici miei a quell’antico modello, gli indimenticati sceneggiatori Benvenuti, De Bernardi e Pinelli ebbero qualche anno fa l’idea di un numero quattro ambientato nella Firenze medioevale in cui «tutto ebbe inizio». […]

Paola Casella - Europa: Poiché questa settimana siamo in vena di profanazione delle icone pop italiane, ecco il prequel di Amici miei: al fine di non sentirsi torcere le budella bisogna dimenticare il capolavoro di Monicelli e fare finta che quello girato da Neri Parenti sia un film ex novo. In tutta onestà, non si tratta di un cinepanettone, nonostante la presenza di De Sica e Ghini: c’è lo sforzo di costruire una commedia con un inizio, un centro e una fine, anche perché fra gli sceneggiatori c’è quel Piero De Bernardi che firma anche il soggetto con Leo Benvenuti e Tullio Pinelli (gli autori dell’originale, cui è dedicato il film); ma l’aggiunta della coppia cinepanettonica Fausto Brizzi e Marco Martani e il tocco letale di Neri Parenti rendono questa storia ambientata a fine ’400 un pateracchio colossale ricco solo di occasioni mancate. […]

Fabio Ferzetti - Il Messaggero: Il primo Amici miei, diretto da Monicelli, è del 1975. Gli altri due, di Nanni Loy, sono del 1982 e del 1985 e sono sempre più fiacchi e funerei. All’epoca la voglia di scherzare su tutto, morte compresa, fu presa giustamente come canto funebre per la commedia italiana al tramonto. […]

Alessio Guzzano - City: Vacanze a Firenze, tra brutte facce da Natale in crociata medievale, al tempo di Lorenzo il Magnifico, Savonarola e – grazie al Cielo – non più di Monicelli. Panariello fa l’oste svogliato, Michele Placido il politico assenteista, Massimo Ghini il fannullone con troppa prole, Paolo Hendel il medico col vizietto sodomita, Christian De Sica – incredibile a dirsi – il nobile cornuto e cornificatore. Gli antichi neri parenti di “Amici miei” sprecano ogni eco boccaccesca lanciando nani superdotati tra le suore come nei film per yankee brufolosi e si guardano bene dal pungere papati e potentati, al massimo tormentano il legnaiolo Ceccherini, l’unico con la faccia e i tempi comici giusti. Qui non si tratta di voler fare gli integralisti della ’supercazzola prematurata’, o i vedovi dell’immortale gag del vedovo; qui il punto è che non si ride punto: ovvero mai, detto alla toscana. Un’operuccia indegna come prequel, sciatta come commediola, volgare proprio perché incapace persino di inventarsela, una parolaccia. Noiosa senza ritegno, ma così boriosa da iniziare dichiarandosi un antidoto alla noia. Il (sigh) fiorentino Hendel ha osato dire: “Anche i primi Amici miei – (sottinteso: come noi) – non erano capolavori, ma facevano ridere”. Mai sentite tante bischerate in così poche parole.

Maurizio Acerbi - Il Giornale: Altro che prequel di una delle saghe più innovative, ciniche, intelligenti ed aggressive mai prodotte sul nostro grande schermo. “Amici miei… come tutto ebbe inizio” è un cinepanettone fatto e finito, con pregi (pochissimi) e difetti (tanti). Manca la solita sfilza di parolacce e la Belen di turno ma, per il resto, il tono delle scenette, leggi scherzi, è identico a quello flebile di un qualsiasi “Natale a vattelapesca”. Non azzardiamoci a paragoni offensivi con gli “Amici miei” di Germi (il progetto originale era suo), Monicelli e Loy. Va bene la nostalgia, va bene l’atto d’amore, va bene l’omaggio, ma non scherziamo. Qui, dell’essenza dei cinque amici che non si rassegnavano al sapore amaro della vita, esorcizzando la morte e fuggendo dalle responsabilità della vita adulta prolungando, alla loro maniera, la giovinezza spensierata, non vi è la minima traccia. È mutato il contesto storico per un film del genere, sono cambiati i volti e, soprattutto, lo spessore di trama e zingarate, qui tendenti al debole. (…) Si ride poco, quasi per nulla. Un film così può decollare solo per l’inventiva dei raggiri o delle beffe che, invece, scorrono sullo schermo senza lasciare traccia, prevedibili anche nell’esito. Non vi è una sola idea, come i famosi schiaffi alla stazione, per la quale vi ricorderete di questa pellicola. E se fosse proprio questo lo scherzo più riuscito? VOTO 4,5.

Alessandra Levantesi - La Stampa: “Tutto nel mondo è burla” canta il Falstaff di Verdi, riallacciandosi a una tradizione dello sberleffo usato per esorcizzare i mali della vita e il terrore della morte (…) Essendosi ispirati per la trilogia di “Amici miei” a quell’antico modello, gli indimenticati sceneggiatori Benvenuti, De Bernardi e Pinelli ebbero qualche anno fa l’idea di un numero quattro ambientato nella Firenze medioevale in cui “tutto ebbe inizio”. Scomparsi loro, il soggetto è stato ripreso in spirito di affettuoso omaggio da Neri Parenti, con la sola infedeltà di trasporre l’azione (su bella scenografia di Frigeri) nella Firenze Medicea. Dove cinque mariuoli - impersonati da una complice, giocosa squadra di attori ben calati negli splendidi costumi d’epoca della sartoria Tirelli - sfidano noia, corna, il flagello della peste e gli anatemi di Savonarola a suon di bravate che a volte si traducono in atroci scherzi del destino. D’altronde, che fare? Tanto tutto passa e del doman non v’è certezza.

Paolo Mereghetti - Corriere della sera: Cast da cinepanettone e ambientazione senza forza … Ma (purtroppo) questi scherzi non fanno ridere … I loro scherzi sono troppo innocui per graffiare e troppo poco inventivi per colpire la fantasia … Qui di colpi di genio simili, non c’è nemmeno l’ombra.

Simon Fortuna - La Repubblica (Firenze): Che cos’è il genio? È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità di esecuzione” recitava il vecchio Amici miei. Ecco, nel nuovo non c’è traccia di tutto questo … Il fatto è che “Come tutto ebbe inizio” non funziona proprio. Non fa ridere. Gli scherzi descritti sono arzigogolati e poco credibili, il ritmo spezzettato, le invenzioni sanno di cose già viste in tanti titoli più o meno gloriosi della commedia italica in costume.

Federico Pontiggia - Il Fatto Quotidiano: Il vero problema del sequel-prequel Filmauro è l’opposto: gli mancano le gambe per reggersi in piedi e provare a camminare da solo.

Roberto Nepoti - La Repubblica: Si sente la marca del cinepanettone; e non solo per la presenza del suo team abituale di attori più o meno comici, ma per una tendenza a volare basso che è tutta contemporanea.

Maria Pezzi - Libero: Il nuovo Amici miei si boicotta da solo. Delude il rifacimento del capolavoro di Monicelli (…) proteste sul web, ma più che sacrilegio è un filmetto.
Carla Cigognini

Cattivi pensieri - Ugo Tognazzi (1976)

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TITULO ORIGINAL Cattivi pensieri 
AÑO 1976
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 105 min.
DIRECCION Ugo Tognazzi
GUION Antonio Leonviola, Ugo Tognazzi, Giuseppe Viola, Enzo Jannacci
REPARTO Ugo Tognazzi, Edwige Fenech, Orazio Orlando, Paolo Bonacelli, Massimo Serato, Luc Merenda, Veruschka von Lehndorff, Piero Mazzarella, Mircha Carven, Pietro Brambilla, Yanti Somer, Mara Venier, Laura Bonaparte
FOTOGRAFIA Alfio Contini
MONTAJE Nino Baragli
MUSICA Armando Trovajoli
PRODUCCION Edmondo Amati para Fida Cin.Ca, Maurizio Aamati para New Film Production
GENERO Comedia

SINOPSIS L'avvocato Marani, tornato a casa improvvisamente, trova la moglie addormentata, ma vede nel ripostiglio i piedi di un uomo. Lo chiude dentro e parte con la consorte. Chi glielo ha fatto fare un film così in linea con il becero erotismo in voga nella commedia italiana degli anni '70? 4ª regia in decrescendo di U. Tognazzi. (Il Morandini)

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TRAMA: 
La chiusura dell'aeroporto causata dalla nebbia costringe l'avvocato milanese Mario Marani, marito della bella Francesca, a tornarsene a casa nel cuore della notte. Sua moglie sembra profondamente addormentata, senonché, in uno sgabuzzino, egli vede spuntare, da sotto a certi abiti, i piedi nudi di un uomo. L'avvocato fa finta di nulla, chiude il ripostiglio, ne intasca la chiave e il giorno dopo parte con Francesca per un viaggio d'affari e di svago, che li conduce prima a una partita di caccia e, poi, a Torino e a Cervinia. I due stanno una decina di giorni lontano da casa e Marani continua per tutto il tempo a cercare di indovinare quale, dei possibili amanti di sua moglie, sia quello chiuso a chiave: un giovane riccone venezuelano? un maestro di sci? l'avvocato Borderò? o, addirittura, il fratello scioperato dello stesso Marani? La verità è che, nello sgabuzzino, è rimasto chiuso il figlio del portinaio, penetrato nell'abitazione del Marani all'insaputa di Francesca per ammirare certi fucili da caccia. Sarà la polizia a liberare il giovane, per condurlo in galera, ma l'avvocato, che un'amante ce l'ha davvero, continuerà a dubitare della fedeltà di sua moglie.

CRITICA: 
"Originale sì, però anche sboccata e noiosa commedia erotica del regista part-time Ugo Tognazzi, un pigmeo al cospetto del Tognazzi attore. Il suo ambizioso film, sceneggiato con Enzo Jannacci e Beppe Viola, è soltanto una satira velleitaria dei licenziosi trastulli della buona borghesia". (Massimo Bertarelli, 'Il Giornale', 1 luglio 2002)

NOTE: 
- ESTERNI GIRATI A MILANO, TORINO, MADONNA DI CAMPIGLIO, CERVINIA, VALICO PLIN MAISON (AOSTA), MONCALIERI.
- GIOIELLI: HELIETTA CARACCIOLO.
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Un banale contrattempo costringe l’avvocato milanese Mario Marani a rientrare a casa; sull’aeroporto nel quale attende il suo volo si è addensata una fittissima nebbia e come conseguenza il volo sul quale Mario doveva imbarcarsi viene cancellato.
Rientrato in casa, trova sua moglie, la bellissima Francesca, che dorme il sonno del giusto.
Mario si dirige verso uno stanzino e al suo interno ha la disgrazia di vedere un paio di piedi nudi.
Convinto che nel piccolo ripostiglio si nasconda l’amante di sua moglie, Mario porta con se Francesca in un lungo giro di lavoro durante il quale spera di scoprire chi sia in realtà la figura da lui vista nello stanzino.
I vari indiziati sono, di volta in volta, le persone della cerchia frequentate dalla coppia, ma la verità è che nello stanzino era rimasto chiuso il figlio del portinaio che si era nascosto nella casa per ammirare i fucili da caccia di Mario.
Quest’ultimo ha un’amante, ma nonostante tutto rimarrà con il dubbio che anche Francesca gli restituisca la pariglia.
Ugo Tognazzi è stato indiscutibilmente un grande attore; molto differente invece il discorso sulla sua capacità di mettersi dietro la macchina da presa.
E Cattivi pensieri, il penultimo film da lui diretto prima della eccellente prova offerta con I viaggiatori della notte, mostra proprio queste sue vistose lacune, ovvero mancanza di ritmo e mancanza del guizzo che distingue il purosangue dal cavallo normale.
Siamo nel 1976, Ugo Tognazzi è ormai considerato uno dei quattro grandi del cinema italiano ed è contemporaneamente impegnato nella direzione di questo film come regista mentre come attore compare in Al piacere di rivederla, in Telefoni bianchi, in  Signore e signori, buonanotte e infine come attore anche in Cattivi pensieri.
La storia è abbastanza banale, una storia di corna come tante altre ne abbiamo visto sullo schermo; l’unica variazione di rilievo al clichè classico del marito geloso che alla fine sembra ossessionato dal fatto di essere becco (mentre a lui è concesso avere un’amante, come da italico copione) è l’introduzione di sequenze abbastanza osè anche per un’attrice come la Fenech, generalmente ben disposta nel mostrare abbondantemente il suo magnifico corpo.
Ma a Tognazzi non riesce nessuna delle intenzioni iniziali; il film non solo si dimostra lentissimo e banale, ma alla fine riesce nella difficile impresa di trasformarsi in un letale sonnifero e contemporaneamente in una palude melmosa dalla quale si riemerge con l’impressione di aver sprecato davvero male il proprio tempo.
Imbarazzante anche la recitazione dei protagonisti, quasi fossero consapevoli di partecipare ad un film di bassa lega.
Il che se vogliamo è il naturale sbocco di cento e passa minuti di tedio assoluto, infarcito di inutili volgarità e sopratutto con la spocchiosa pretesa di girare un film con non nascoste velleità di satira di costume.
La realtà è  diversa in maniera desolante.
La storia è un deja vu continuo; lo stereotipo dell’italiano infedele ma intransigente quando si tratta di corna personali e sopratutto dialoghi rozzi e tagliati con l’accetta sono un calcestruzzo impossibile da digerire.
Un peccato per Tognazzi, che qualche cosa di buono (come regista, off course) riuscì a mostrarla nel film successivo, quel già citato I viaggiatori della sera che rimane opera di gran valore ampiamente sottovalutata.
Il che, alla luce dell’opacissima prestazione fornita con Cattivi pensieri, rimane dilemma amletico da sciogliere, ovvero: Tognazzi avrebbe potuto fare di meglio perchè aveva finalmente imparato a stare dietro la MDP oppure il tutto fu casuale, un po come il concerto perfetto che riesce una volta sola?
Poichè l’Ugo nazionale non girò più nulla, questo è davvero un dilemma insolubile.
Va detto che se il film è davvero poca, pochissima roba, lo si può ricordare per alcune chicche rappresentate dal curioso cast; la presenza per esempio della cosidetta signora della tv Mara Venier, della top model Veruschka, del bravo e sfortunato giornalista sportivo Beppe Viola (che aveva lavorato già con Tognazzi in Romanzo popolare) e dal nudo di Luc Merenda (bissato poi in Action di Tinto Brass) oltre che dalle eleganti presenze di Massimo Serato e Orazio Orlando.
Paultemplar


Dichiarazioni
«Se nel film c’è un difetto è proprio che non è comico, considerando che lo dirigo e lo interpreto io. Quello che volevo era di creare dei personaggi facilmente identificabili, dare loro una fisionomia definendone l’ambiente (quello del jet set milanese), le simpatie politiche (di destra), i rapporti sociali (fatti di ipocrisia e arrivismo). La mia ambizione, insomma, era di fare un prodotto che si discostasse dalla convenzione; curando prevalentemente il tirante giallo e con l’occhio  attento alla commedia all’italiana, per dare contorni convenzionalmente riconoscibili al personaggio e alla vicenda» (U. Tognazzi,”la Repubblica”, 23.10.1976)

«Per quello che riguarda Cattivi pensieri, avrei dovuto fare le musiche o qualche altra parte tecnica, ma non mi sono trovato in accordo con Ugo. All’epoca io ero in voga, avevo avuto la nomination all’Oscar, una serie di riconoscimenti, guadagnavo parecchio, forse ero anche un po’ montato e non sopportai che Tognazzi volesse impormi cosa fare. Così gli dissi che come colonna sono per il suo film poteva usare dei dischi e me ne andai. Come amici, comunque, abbiamo mantenuto un  ottimo rapporto. Tognazzi soprattutto come attore era straordinario. [...] Aveva una capacità naturale di dare spessore ai personaggi» (E. Jannacci, in F. Francione e L. Pellizzari, a cura, Ugo Tognazzi regista, Falsopiano, Alessandria, 2002).

«Tognazzi attore, la cui presenza soddisfa sempre per estri spiritosi e sapienza di pausa, si  fa preferire a Tognazzi regista che non sembra essersi accorto come il film, partito bene, da una gustosa trovata, si vada via via afflosciando e appesantendo in una faticosa e alla fine confusionaria monotonia di sviluppi, aggravata da un linguaggio da trivio e da crude situazioni priapesche. Anche  come satira di certo costume e di certo linguaggio, il film pecca di troppo facile contentatura, adottando soluzioni ormai abusate sino alla maniera. Piacevole da principio e poi soltanto a sprazzi, forte nell’attore, il film  coinvolge la bella Edwige Fenech» (L. Pestelli, “La Stampa”, 29.10.1976).

«[Cattivi pensieri] ha una buona partenza: divertente, con le gags che esplodono al momento giusto, grazie a un meccanismo ben congegnato. Ma via via che si inoltra nella vicenda, questa pare per quella che è: un  pretesto per spogliare la  Fenech  e farle vivere situazioni canoniche della commedia erotica all’italiana. [...] Bisogna però dare atto a Tognazzi di aver saputo spogliare la sua partner con eleganza» (C. Cosulich, “Paese Sera”, 29.10.1976).

«[...] Cattivi pensieri  è un’altra prova del basso livello professionale che è ormai la media del cinema italiano digestivo. Tolte rare eccezioni, non si sa più scrivere una  sceneggiatura decente, oggi in Italia. Le responsabilità maggiori, infatti, sono di sceneggiatura. So con sicurezza che Bernardino Zapponi  è una persona colta, uno scrittore accorto, uno sceneggiatore  che non manca né di ingegno né di esperienza: perché mai, altrimenti, Fellini l’avrebbe scelto come collaboratore di Satyricon e Roma? Coma fa, dunque uno Zapponi a scrivere un testo comico sulla gelosia (con pretese di satira sociale anticapitalista per giunta) così vecchio e anacronistico, così  prebellico come Cattivi pensieri? Come fa un attore come Tognazzi, che pure è amico di Marco Ferreri, a non rendersi conto  - a parte i grevi e pecorecci lazzi di cui infiora la sua farsa giallo-rosa – che quel finale (il  ladro nello sgabuzzino che, forse, è un extraparlamentare) non è soltanto reazionario ma contraddice le sia pur goffe intenzioni satiriche del resto? La protagonista è Edwige Fenech, attrice, per definizione, di là dal bene e dal male» (M. Morandini, “Il  Giorno”, 2.1.1976).
Scheda a cura di Davide Larocca 
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Non commedia all’Italiana né commedia sexy (come Morandini, al solito superficiale, intende annoverare l’opera in questione), la penultima regia dell’immenso Tognazzi è al contrario un ottimo thriller sentimentale, caustico e graffiante come solo il grande cremonese sapeva essere.
“La chiusura dell’aeroporto causata dalla nebbia costringe l’avvocato milanese Mario Marani, marito della bella Francesca, a tornarsene a casa nel cuore della notte. Sua moglie sembra profondamente addormentata, senonché, in uno sgabuzzino, egli vede spuntare, da sotto a certi abiti, i piedi nudi di un uomo. L’avvocato fa finta di nulla, chiude il ripostiglio, ne intasca la chiave e il giorno dopo parte con Francesca per un viaggio d’affari e di svago, che li conduce prima a una partita di caccia e, poi, a Torino e a Cervinia.
I due stanno una decina di giorni lontano da casa e Marani continua per tutto il tempo a cercare di indovinare quale, dei possibili amanti di sua moglie, sia quello chiuso a chiave: un giovane riccone venezuelano? un maestro di sci? l’avvocato Borderò? o, addirittura, il fratello scioperato dello stesso Marani?”
Prodotto davvero anomalo Cattivi Pensieri. Girato da una colonna portante della grande stagione del cinema Italiano, si getta senza troppi indugi nel limbo insolito della satira di costume, inficiata dai volti e dai corpi di tanta commedia commerciale del tempo: Edwige Fenech in primis – bellissima come non mai -, Luc Merenda, Mara Venier e persino Guido Nicheli non accreditato. Un film che ritrae un quadro devastante, paranoico e tuttavia veritiero della ricca borhesia del periodo, volgare e cinica (la scena della fucilazione è puro colpo di genio), figlia del sospetto più basso e fragile, logorata dalla stessa natura sociale profondamente incerta.
L’incubo e la realtà viaggiano a braccetto e delineando corde surreali nella poetica di Tognazzi davvero inedite: i pallidi piedi dell’amante nell’armadio rappresentano una concessione visionaria fulminante, evoluzione inarrestabile e naturale del capolavoro assoluto dell’attore-regista Il fischio al naso (1967), parabola inquietante del sistema sanitario del Belpaese. Prendendo le distanze da una considerazione assolutista dell’opera (non parliamo di un film perfetto, sia chiaro), è certamente necessario ed importante ridiscuterne il valore storico e filmico affatto banale, dove il disincanto sembra prendere il sopravvento sulla sbrigativa critica sociale di tanti film coevi e dove la la messa in scena decide di farsi innegabilmente da parte, quasi ad agognare un’impossibile venatura neorealista.
Opera personale e fieramente controcorrente, che conferma ampiamente le grandi capacità registiche dell’immortale Tognazzi.

Voltati Eugenio - Luigi Comencini (1980)

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TITULO ORIGINAL Voltati Eugenio
AÑO 1980
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACION 105 min.
DIRECCION Luigi Comencini
GUION Luigi Comencini, Massimo Patrizi
MUSICA Romano Checcacci
FOTOGRAFIA Carlo Carlini
MONTAJE Nino Baragli
PREMIOS 1980 David di Donatello: Mejor música
REPARTO Carole André, Bernard Blier, Francesco Bonelli, Alessandro Bruzzese, José Luis de Vilallonga, Dalila Di Lazzaro, Saverio Marconi, Dina Sassoli, Gisella Sofio
PRODUCTORA Les Films du Losange / Moonfleet / Société des Etablissements L. Gaumont
GENERO Drama

SINOPSIS A Eugenio, un chico de catorce años, lo recoge en casa de sus abuelos "Bigote", un amigo de la familia, para llevarlo a la casa de su padre en la ciudad. Pero a Bigote le molesta tanto el chico que acaba abandonándolo en medio del campo. Cuando el padre se entera, va a buscarlo. (FILMAFFINITY)

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Subtítulos (Español)

Trama
Fernanda e Giancarlo, amici nelle rivoluzioni studentesche del '68, hanno avuto un figlio che, sfumate le euforie politiche e iniziate le difficoltà della vita, diviene un peso per la coppia sulla strada della dissoluzione. Eugenio, per conseguenza, cresce quasi come un trovatello, a volte presso il padre e più raramente presso la madre. In tal modo vede e con molta semplicità giudica la loro poco corretta condotta (Giancarlo si lega a Milena, mentre Fernanda, nel periodo che passa in Spagna, non rifiuta occasionali accompagnatori). In pratica Eugenio fa amicizia con il piccolo Guerrino, un ragazzino di borgata che, povero e appartenente a una famiglia numerosa, è abituato alla durezza della vita e fa soldi con cento espedienti. Sballottato da parenti paterni o materni, tra amici di genitori, il bambino decenne ha trascorso la maggioranza della sua infanzia presso i nonni materni, Eugenio (di cui ha ereditato il nome) e Anna. Ma anche per loro è diventato scomodo e, nell'imminenza di un viaggio in Inghilterra, Giancarlo manda l'amico Baffo a prendere dai nonni Eugenio che vorrebbe portare con sé. Il fanciullo, stanco di essere trattato come un oggetto, infastidisce Baffo e questi, con il cinismo che gli deriva dalla professione di redattore capo del foglio politico scandalistico "L'oca", lo castiga lasciandolo in piena campagna. La circostanza fa accorrere genitori, nonni e conoscenti. Dopo una giornata di inutili ricerche, Eugenio viene segnalato presso una cascina ove ha assistito alla nascita di un vitellino. Tutti accorrono, ma nessuno, dopo i primi entusiasmi, si dimostra entusiasta e disposto a prendere Eugenio. Questi, mentre i grandi discutono, si allontana accompagnato finalmente da un fedele amichetto, un cane.


Critica
Eugenio è finalmente solo. Lo vediamo allontanarsi di spalle, appena esitante va in nessun posto come i gioiosi ribelli di Wigo, che davano l'assalto al cielo dal tetto della loro prigione. Non ha un papà da trattenere e con cui prendere il volo dagli aeroplanini di un Luna - Park di borgata e neanche un Geppetto da tirarsi dietro, risorgendo dal grande utero marino. Col cinico aiuto di Baffo può lasciare gli adulti agli adulti e prendersi il lusso dell'incertezza.
Così, in un modo lieve quanto severo, si conclude (per ora) il lungo viaggio di Comencini attraverso l'infanzia. In un cinema che coi bambini si è sempre comportato come gli adulti col suo Eugenio (a parte le mirabili eccezioni di Rossellini, De Sica ... ) lui ha scelto una strada solitaria, lontano dai luoghi dell'élite culturale ma pronto all'azzardo e al rischio. Quasi una missione laica in bilico fra denuncia e ironia, fra melò e humour, fra realismo sociologico e abbandono melanconico: sempre tesa, ad ogni modo, ad una accurata ricerca di comunicazione col pubblico popolare. Mezzo preferito, una commedia che torna periodicamente e con costanza ai temi prediletti, ad una ricerca mai abbandonata.
Comencini è apprezzato e amato (è il caso di dirlo) per questa innegabile qualità, per avere saputo lavorare nel grande baraccone del cinema commerciale, e successivamente in quello televisivo senza sacrificare ai compromessi necessari nè la propria sincerità di fondo, nè l'acuta attenzione per la cronaca, l'attualità, i cambiamenti del costume.
Fra quanto prodotto da giovani e giovanissimi in questi ultimi tempi a proposito della mitica stagione sessantottarda e dei suoi effetti più o meno perversi, ben poco può essere accostato in efficacia e verità a ciò che Comencini riesce a mostrare con la discreta e tradizionale estetica del “genere”.
Sia detto nella piena consapevolezza della precarietà di mezzi e dell'avarizia di occasioni toccate agli ultimi arrivati, ben lontano quindi da cieche ritirate fra le confortanti braccia dei mestiere e della Gaumont. Casomai varrebbe la pena di riflettere con più impegno (diremmo con più progettualità politica) sulla crisi del “cinema di genere” come aspetto fondamentale di quella complessiva, come causa concorrente della penuria di nuovo personale, nuovi autori... ma questo è un discorso complicato e da riprendere, ora torniamo al film di turno.
Voltati Eugrnio è un punto di arrivo e riassume tutta la produzione comenciniana precedente, in particolare risente dell'esperienza televisiva de I bambini e noi e L'amore in Italia, ma l'aggancio che ci pare più interessante potrebbe essere fatto con il lontano La finestra sul Luna - Park (1957). Scritto fra la polvere, gli stracci e la canonica fame del dopoguerra, quel film viveva sull'assenza: un bambino, un padre emigrato, una madre morta, un amico adulto.
La letteratura per e sull'infanzia offre molte combinazioni su questi presupposti, nel film l'assenza dei genitori promuoveva la figura di appoggio, quel Richetto tanto immerso nell'affettività da semplificarne le ragioni profonde, che giungeva a sostituirsi a entrambi i genitori. “Il maschio neorealista (il padre tornato dall'estero - n.d.r.) accede gradualmente alla femminilità che il figlio ha ereditato dalla madre morta e che ha ritrovato, in assenza del padre, in Richetto proletario senza coscienza di classe ma pieno di un'affettività che il neorealismo respingeva”. (Aprà).
La figura di appoggio di Eugenio è invece Baffo/Perlini, un precario intellettuale mezzo protestatario e mezzo cialtrone, che si incarica di rovesciare la funzione di Richetto: questi ricomponeva lui divide. La sua Importanza è tutta qui. Richetto rinunciava al bambino per restituirlo al padre dopo averne forzato la distanza, Baffo rivendica la legittimità pedagogica dell'abbandono come interpretazione del desiderio inconscio dei genitori e di tutti gli altri.
Con questo rovesciamento l'autore ottiene un duplice risultato: aggiorna violentemente un tema classico e inserisce canovaccio tradizionale della commedia un carattere completamente nuovo. Perlini dal canto suo è davvero bravo, superiore (nel ruolo parziale, ma di spicco e di richiamo) al Benigni di operazioni analoghe.
Baffo è il mezzo attraverso il quale Comencini riesce ad aggiornare meglio, pur restando molto fedele alla propria storia, una critica della famiglia che ha sempre avuto come principale momento di verifica: delle idee e del mestiere. Una condotta fuori da rigidi schemi sociologici e senza altisonanti grida di sdegno, ma partendo da un attento lavoro di organizzazione delle tecniche spettacolari e di tenace perlustrazione dei luoghi dell'immaginario popolare. E proprio Baffo, l'attore, il personaggio, il carattere, a mostrarci (ben più dell'intreccio e dei segni canonici di riconoscimento) che il regista ha capito qualcosa dei '68. Per il resto sono visibili antiche magagne, l'assemblea studentesca dove Giancarlo e Fernanda decidono di tenersi il bambino, ad esempio, sconta le note difficoltà incontrate da tutti i nostri registi a calarsi in quel clima. Basti pensare che l'unica assemblea “accettabile” dei cinema italiano post - sessantottesco, è forse quella esplicitamente parodica del Bellocchio di Discutiamo, discutiamo.
Nè, d'altro canto, sono d'aiuto Dalila Di Lazzaro e Saverio Marconi: una coppia davvero scarsa, evidentemente imposta dalla produzione.
Chi definisce volontaria la goffaggine dei due, attribuendola alle intenzioni dei regista che vuol far risaltare per contrasto la tranquilla furbizia di Eugenio, cade probabilmente nell'errore opposto a quello dei fanatici del Cinema d'Autore.
Tutto ciò non giustifica ad ogni modo chi, qua e là, si indigna per un presunto peccato di leso sessantotto o leso femminismo e si lamenta dell'intrusione di un vecchio volpone... Certo è difficile rassegnarsi alla lontananza di stagioni così ricche di significati e così avare di immagini.
Si potrà dire che tante ambizioni (l'infanzia, il sessantotto, il femminismo) rischiano grosso in una struttura consolidata al punto da sfiorare la convenzione, che il montaggio talvolta si inceppa nella corsa dei fiash-back, che la musica propende all'andante facile (a parte la bella canzoncina di Carpi) ma bisognerà subito aggiungere che Eugenio è personaggio a tutto tondo, ricco e sfaccettato con la cura del Comencini migliore, che il piccolo proletario è degno di lui, che la storia infantile ha forza sufficiente per inserirsi positivamente in quella degli adulti e mitigarne le insufficienze.
Insomma Comencini chiude bene questo pezzo di strada, lo fa trovando l'asciuttezza e l'ironia necessarie a ricongiungersi col presente, lasciandosi alle spalle molte insidie sentimentali. Senza rinunciare a commuovere, però. Basti confrontare due sequenze: Eugenio fotografa il silenzio dei pesci, portando la radio a tutto volume per coprire le grida dei genitori in lite (i soliti noiosi riti degli adulti che non crescono ... ); il finale con Eugenio che si allontana lasciando padre e madre, nonni e femministe a contemplare un vitellino appena nato. Una occasionale tenerezza degli adulti che sfuma gli echi drammatici di una notte in cui tutti si erano agitati attorno a Fernanda, reduce dall'aborto. Siamo a un passo dal tonfo moralistico, si dirà. Vero, solo che bastano la fuga di Eugenio, la sua alterità ormai in primo piano e l'occhio rotondo di Baffo a sbloccare l'attenzione, ad alleggerire i toni e mantenere suggestivo il contrasto.
Come se il simbolico orizzonte vuoto di Eugenio gettasse sul resto l'indulgente velo del ricordo.
Tullio Masoni, Cineforum n. 198 (10/1980)

Eugenio ha dieci anni, è un bambino che ama moltissimo gli animali e da grande vorrebbe fare il veterinario. Di queste sue aspirazioni, dei suoi desideri, i genitori non sanno nulla. Per il bambino essi sono quasi degli estranei, che capitano una volta ogni tanto in campagna a trovarlo e ripartono all’improvviso. Messo al mondo quasi per gioco da due ragazzi contestatori che alla prima occasione se lo dimenticano sul treno, allevato dal nonno Eugenio, da cui ha preso il nome, crescendo fra lepri e anatre, ben presto il piccolo capisce di essere di troppo.
Presi fra litigi, riconciliazioni e nuove separazioni, Fernanda e Giancarlo non si occupano di lui e non sono abituati a prendersene cura. Quando, dopo anni di visite furtive, la coppia va a prenderlo per portarlo con sé, Eugenio si ribella e fa il possibile per non venir allontanato dai nonni, da ciò che gli è familiare, dai suoi animali. La vita in famiglia è nuova e difficile. I dispetti e le domande petulanti che rivolge ai genitori sono l’unico modo che conosce per ottenere la loro attenzione. Giancarlo non è nemmeno abituato a sentirsi chiamare papà e preferisce che Eugenio lo chiami per nome. Fernanda gli promette una vacanza al mare per poi annullare tutto alla prima telefonata che riceve.
L’unico suo amico è Guerrino, un bambino delle borgate, che è mandato al lavoro dal padre per aiutare a mantenere la numerosissima famiglia. Se la violenza che minaccia Guerrino è fisica e tangibile, l’apparente bonarietà dei genitori di Eugenio, sempre pronti a definirlo “un ometto” che deve capire e adattarsi, non nasconde all’acuto ragazzo il disinteresse e la voglia di liberarsi di lui che sempre più spesso i due manifestano, solo in parte inconsapevolmente. Partita Fernanda per un ingaggio in Spagna, Giancarlo considera il figlio un impiccio per il suo lavoro, per i suoi incontri con Milena, per il suo riposo. Arriva a mentirgli pur di invogliarlo a raggiungere la madre. Imbarcato sull’aereo e prelevato all’aeroporto come un pacco postale, quasi per sfida Eugenio si fa portare a vedere una corrida: soffre terribilmente alla vista dell’animale torturato, ma non vuole andarsene (se il padre gliene ha parlato deve esserci un motivo).
Ogni nuova soluzione abitativa si rivela peggiore della precedente: l’affidamento ai nonni materni, poi a quelli paterni, poi ai genitori, poi a uno dei due. Dovunque Eugenio si sente poco amato, poco desiderato, poco considerato. Non parla molto, se non degli animali, che cura amorevolmente. La sua difficoltà di comunicazione con i familiari deriva dalla convinzione di non venir ascoltato e compreso. Sballottato in continuazione, testimone silenzioso di recriminazioni e battibecchi, è d’ostacolo ai desideri altrui e nello stesso tempo non può farsi una ragione dell’egoismo di chi gli ha dato la vita senza volerlo veramente. Solo una volta trova la forza di chiedere: “Ma perché siete tutti così cattivi?”.
Abbandonato sul ciglio di una strada di campagna dal cinico Baffo che pensa che ci si affezioni ai bambini per lo stesso motivo per cui ci si affeziona anche ai cani, Eugenio non è particolarmente stupito né spaventato. Ritrovato dopo un paio di giorni di ricerche in cui tutti hanno comunque continuato ad accusarsi vicendevolmente e a farsi la guerra, preoccupati di non venir incolpati della sorte del bambino, lascia gli adulti ad ammirare con ipocrita commozione un vitellino appena nato, e si allontana senza voltarsi indietro, sapendo che non è lì il vero affetto per lui.
Azzurra Camoglio, Aiace Torino
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Il destino di abbandono dei ragazzi sembra essere lo stesso in tutti gli ambienti sociali. Ambientando i propri film sia nelle borgate povere di Napoli (Proibito rubare) che nei palazzi aristocratici di Venezia (Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova, veneziano) passando per i quartieri popolari di Roma (La finestra sul luna park), le ville consolari della Toscana (Incompreso) e i villaggi della Calabria (Un ragazzo di Calabria), Comencini ha sempre raccontato la solitudine dei ragazzi, l’incomunicabilità quasi inevitabile con gli adulti, di qualsiasi ceto sociale essi siano, ma ha anche descritto l’attaccamento alla terra come un possibile elemento di riscatto (si pensi alle corse del ragazzino calabro, oppure al luna park dove si riconciliano padre e figlio) e di ricostruzione dei rapporti tra le persone (si veda Andrea, “l’incompreso”, che riscopre nella sua casa un tardivo amore del padre). Con Voltati Eugenio, il regista ci racconta invece l’esperienza di un ragazzo senza radici, senza un retroterra, senza un ambiente naturale in cui vivere e perciò sempre pronto a fare le valigie come atto congenito del cambiamento. Egli è affascinato dagli animali (vorrebbe diventare un veterinario, si porta nelle diverse case i suoi animali, si rifugia in una stalla) perché hanno regole dettate dalla natura, habitat sicuri e saldi, all’opposto del mondo dei grandi dove regna il caos e dove le parole dette sono sempre rovesciate dalle azioni (si veda la scena del litigio genitori – figlio perché quest’ultimo non vuole ritornare in città, dove il modo di comportarsi dei due adulti cambia e si smentisce di volta in volta).
Il rifugio panteistico di Eugenio e il suo ritorno alla Natura (gli approdi di Comencini non sono poi tanto lontani da quelli di Truffaut ne Il ragazzo selvaggio), causato dalla incompetenza degli educatori e suggerito non a caso da Baffo, l’unico fuori dagli schemi, una sorta di “grillo parlante” che esplicita i pensieri reconditi dei personaggi (si pensi a quando dice di aver abbandonato per strada il ragazzo perché era un desiderio inconscio del padre o a quando afferma che i bambini sono fardelli più ingombranti dei cani perché a differenza di questi ultimi non si possono lasciare per strada), è certamente l’elemento di riflessione più interessante del film, quello più profondo e meno scontato. Molto più penetrante della critica all’istituzione familiare, poco convincente soprattutto nella costruzione di personaggi oltremisura stereotipati (la mamma femminista, il padre sessantottino fallito, la nonna ricca e superficiale) o di macchiette poco credibili (il commissario impotente, il rozzo operaio con otto figli ecc…), senz’altro molto più verosimile della descrizione del fallimento delle relazioni tra gli adulti, pur vero ma evidenziato da scene troppo calcate e troppo dimostrative (come l’aborto della madre o la confessione della nonna contro un marito per anni incapace di comprenderla).
La sconfitta del nucleo familiare fa da cornice al vero dramma che si consuma durante il film, ovvero la perdita d’identità da parte di un ragazzino. Eugenio deve viaggiare con un cartello con il suo nome per essere sicuro di esistere (come gli succede all’arrivo nell’aeroporto spagnolo), in un mondo che non lo vuole tra i piedi. Egli non scappa, sono i grandi che non riescono o non vogliono vederlo: il padre, mentre chiama a gran voce il figlio nella speranza di farsi sentire, si sfoga dicendo di odiare il nome “Eugenio” e affermando che non si sarebbe perso se ne avesse avuto un altro (in altre parole, se fosse stato un’altra persona); i familiari del ragazzo, nella scena finale ambientata nella stalla, voltano il loro sguardo verso un vitellino appena nato dimenticandosi di lui.
Il processo di annullamento dell’identità, perpetrato da tutti gli adulti, è così concluso. Il ragazzino a quel punto non si volterà più se sentirà pronunciare il suo nome. “Voltati Eugenio” sarà una frase senza più senso, senza più sostanza
Marco Dalla Gassa


Di padre in figlio: l’adolescenza ed il rapporto tra padri e figli attraverso lo sguardo di due generazioni di registi italiani

di Elisabetta Marchiori, Pietro Roberto Goisis e Massimo De Mari

Il titolo di questo contributo è quello del video che gli stessi autori hanno presentato al Festival del Cinema e Psicoanalisi svoltosi a Londra nel novembre 2002, ed è un tentativo di raccontare come è nato e di presentarne i contenuti.
L’idea di poter sintetizzare in un “blob” di una ventina di minuti delle immagini che potessero trasmettere delle emozioni e muovere delle riflessioni sul rapporto tra padri e figli ci è sembrata una sfida nella quale valeva la pena di cimentarsi. 
Per tentare l’esperimento, ci siamo impegnati a vedere e rivedere i film di due generazioni di registi italiani, quelli di Luigi Comencini (1916) e delle sue figlie Cristina (1953) e Francesca (1961), e quelli di Dino Risi (1916) e i suoi figli, Claudio (1948) e Marco (1951). Alla fine di questo contributo, sono proposte alcune loro note bibliografiche e la filmografia.
Tra i film visti, abbiamo scelto quelli, a nostro avviso, più significativi, da cui abbiamo tratto le scene che ci sono parse particolarmente evocative, le abbiamo messe insieme e commentate, infine ci sono venute in mente due canzoni, una introduttiva e l’altra conclusiva, che abbiamo usato come “colonna sonora” (“Father and son” di Cat Stevens e “Father, son” di Peter Gabriel). Abbiamo lavorato e ci siamo divertiti, anche commossi.
Quello che è venuto fuori non è facile tradurlo in parole: trame, personaggi, situazioni, possono essere raccontate con le parole e con le immagini, sono strutture narrative che sono utilizzate sia nel linguaggio verbale sia in quello cinematografico. Ma, nel cercare di accomunare queste due modalità d’espressione ci imbattiamo ad ogni passo nel problema della parola: la lingua infatti ha un vocabolario, mentre l'espressione filmica non possiede un lessico corrispondente, ed è irriducibile ad esaurirsi in esso (Metz, 1980). Tuttavia, ogni percezione porta inevitabilmente a nominare in qualche maniera ciò che si vede e si sente, e noi proviamo a farlo.
In questo tentativo di resoconto riportiamo, in una versione più ampliata, il commento che ha accompagnato le immagini con la voce fuori campo ed alcuni dialoghi delle scene proposte. 
Si dice, di solito, che “le colpe dei padri ricadono sui figli”: noi ci siamo chiesti, invece, quali siano le ripercussioni dei meriti dei padri e come la condizione di essere identificati soprattutto come il “figlio di qualcuno”, e non soltanto come se stessi, possa trasformarsi da limite e condizionamento a risorsa creativa. 
Nelle due famiglie di registi italiani, Risi e Comencini, che abbiamo preso in considerazione, i padri hanno tramandato il loro mestiere, magari attraverso un apprendistato come sceneggiatori, ai figli e alle figlie. In entrambe queste generazioni di registi, il tema della complessità del rapporto tra genitori e figli è ricorrente, così come quello del passaggio dall’infanzia all’adolescenza, un’età inquieta, quella delle mille contraddizioni, degli slanci vitalistici e dei primi bilanci. Adolescenti, ci si sente persi in un viaggio indefinito all'interno di se stessi, alla ricerca di un senso che spesso non si coglie, presi tra lo sforzo di diventare adulti e dal desiderio di tornare bambini, dalla voglia di differenziarsi e nello stesso tempo di assomigliare ai propri genitori.
Quanto detto da Truffaut, cioè che i film sull’infanzia sono quasi sempre autobiografici e che, chi li fa, riflette inevitabilmente sulla propria esperienza di figlio e sui propri genitori, ci è sembrato particolarmente appropriato rispetto al lavoro di questi registi, pur con le loro diverse sensibilità personali e socio-culturali. 
Le opere dei padri rappresentano l’evoluzione del neorealismo italiano del dopoguerra verso la commedia, arricchita d’elementi drammatici: una fase feconda, ricca, intensa e creativa del nostro cinema. La generazione successiva cerca di distinguersi in una situazione particolarmente difficile del cinema italiano, che fatica a trovare autori di spicco. I figli di Risi e le figlie di Comencini sembrano impegnarsi in una ricerca personale, tesa tra la continuazione dell’opera paterna e l’emancipazione.
Dino Risi usa un linguaggio caustico ed essenziale, intriso di amarezza, come per comunicare allo spettatore che le cose stanno così, come lui le mostra, e non ci sono possibilità di cambiamento. Egli è in grado di fissare un rapporto e di definire un personaggio con un solo sguardo e si muove con la stessa disinvoltura nel presente o verso il passato, può seguire un personaggio in tempo reale o osservarlo in un arco di tempo più significativo. Il suo atteggiamento è distaccato e disincantato, intriso di amarezza (Brunetta, 1991). Possiamo affermare che sia stato l’anticipatore figurativo dell’immagine del giovane adulto, così ben rappresentato ora nella clinica dalle varie e diffuse condizioni di adolescenza protratta. I suoi film mostrano per lo più relazioni tra padri e figli dove i ruoli sono invertiti. 
I padri, da una parte, sono figure dai tratti infantili, narcisisti, sembrano falliti nella loro esistenza e nella capacità di gestire i rapporti interpersonali. Dall’altra parte, i figli sono increduli, talvolta rassegnati, un po’ imbarazzati, comunque consapevoli di doversela cavare da soli nella vita.
In una scena di “Il sorpasso” (1962) questa “inversione” è resa concretamente. Vittorio Gassman è il protagonista, uno spaccone sfaccendato che si atteggia a grande seduttore, che riesce a convincere un timido studente di legge (Trintignan) a seguirlo in un viaggio in macchina in pieno ferragosto. Arrivano in una stazione balneare dove Gassman ritrova l’ex-moglie e la bellissima figlia (Spaak). Per attirare l’attenzione in una spiaggia affollata, fa lo spiritoso mettendosi a testa in giù. In questa posizione adocchia una bella ragazza che lo sta fotografando e la insegue, per scoprire poi che è la figlia, cammuffatasi con una parrucca. Questo lo scambio di battute quando il padre riesce a raggiungerla:
Padre: Oh, chi sei? Eih, Cleopatra, fotografavi a me?
Figlia: Bruno, ti va male, sono tua figlia! (togliendosi la parrucca)
Padre(sorpreso e deluso): Perché ti sei messa in testa quell’affare? Stai meglio bionda, che ti credi?
Figlia (spavalda): Tu però vai dietro alle brune a quanto pare!
Padre (mentendo): Ma dai, ti avevo riconosciuta subito! Dai qua che ti faccio una fotografia. Guarda di qua, bene, ferma, aspetta, guarda dall’altra parte, fatto! (scatta la foto non alla figlia, ma ad un’altra ragazza che sta passeggiando sulla spiaggia).

La giovane ha un fidanzato molto più anziano di lei, ricco e generoso, che sostituisce la figura paterna monca: al padre, per spiegargli come mai ha bisogno di un uomo così al suo fianco, confessa di sentirsi insicura, di “avere sempre la sensazione di camminare sottobraccio a qualcuno senza un braccio”.
Nel primo episodio di “I mostri” (1963), intitolato “L’educazione sentimentale”, un padre (Tognazzi) ottuso e presuntuoso, si propone al figlio bambino come modello di furbizia, egoismo e mancanza di rispetto verso gli altri e verso le regole del vivere comune: al bar non paga tutta la consumazione, non rispetta i sensi unici, costringe il figlio a fingersi malato per non fare una coda in auto, si finge lui stesso invalido di guerra per salire prima su una giostra. 
Continua a ripetergli proverbi e luoghi comuni, tra cui il preferito è: “il mondo è tondo e chi non sta a galla va a fondo”. Ecco un esempio di dialogo, tra padre e figlio, che ha un occhio nero, a tavola:

Padre (con tono moralista, alzando gli occhi dal giornale): Giuliano ti ha dato un pugno in un occhio?
Figlio (triste e annoiato): SiÉ
Padre (rimproverandolo): E tu dovevi dargli un calcio in culo, ricordati, chi picchia per primo picchia due volte, poi nella vita c’è sempre da rimetterci a buscarle, a te piace di buscarle?
Figlio (sempre annoiato): NoÉ
Padre (didattico, alzando il tono di voce): E allora picchia, picchia sodo! Ricordati il proverbioÉ
Figlio (sempre più annoiato): Sì, il mondo è tondoÉ
Padre (rimproverandolo): No, non quello, “è meglio un bel processo che un bel funerale”. E adesso mangia la pera che arriva tua madre!
Figlio (ancora più annoiato): Non ho più fameÉ
Padre (indispettito): Dai mangia la pera!
Figlio (deciso): No!
Padre (ritornando al suo giornale): E chi se ne frega, non mangiarlaÉ

A questo punto, il padre si lamenta con la moglie della poca “vivacità” del figlio, affermando di fronte a lui: “mi sembra morto questo bambino”. 
A più riprese si vede come il bambino cerchi debolmente di protestare, di ribellarsi, di mantenere la sua natura tranquilla e rispettosa, ma troppo fragile. L’episodio si conclude con l’immagine di un titolo di giornale: “uccide il padre dopo averlo derubato” (con sotto scritto ? anni dopo”). L’episodio induce inevitabilmente, nello spettatore, risate amare: come poteva crescere un figlio con un padre così?
Un altro padre inadeguato, seppure in modo speculare, è protagonista del film “Giovedì” (1964). Il giovedì è il giorno in cui Dino (Walter Chiari), separato eterno bambinone, vede il figlio Robertino, che vive con la madre, tedesca ricca e molto rigida nell’educazione del figlio. Cerca a suo modo di conquistarlo, noleggiando un macchinone e raccontandogli un mucchio di fanfaronate, ma non si ricorda nemmeno la sua età. Il bambino, educato, intelligente e composto, appare molto più “adulto” di lui. E’ evidente che gli manca l’affetto del padre, ma ne percepisce l’inconsistenza. 
Dino non riesce ad avere rispetto dei limiti ed arriva a leggere il piccolo diario segreto del bambino, per poi confessarglielo e perdendo completamente d’affidabilità. Inoltre, non è in grado di riconoscere la diversità dei ruoli: in una scena particolarmente spassosa, si impadronisce del pallone con cui il figlio ed altri ragazzini stavano giocando, pensando di mostrare loro una eccezionale “performance”. Ottiene invece il loro disprezzo, tanto che uno di loro chiede a Robertino: “ma chi è quel coglione”. Il bambino si vede costretto a rispondere: “E’ mio padre”. Dino tornerà alla sua vita di sempre, dopo aver fatto al figlio una serie di vuote promesse, quando lo riporterà alla madre.
Ci è sembrato curioso che il protagonista abbia lo stesso nome del regista e che, tra le canzoni della “colonna sonora” ci sia “Non è facile avere 18 anni” di Rita Pavone. 
Anche in “Caro papà” (1979), di cui l’aiuto regista è il figlio Claudio, Risi fa riflettere sui rapporti intergenerazionali, connettendoli al fenomeno del terrorismo. Un industriale (Gassman), miliardario arricchitosi in modo disonesto, ha un figlio ed una figlia da una moglie confinata in una villa in Svizzera, che mette in atto una serie di tentativi di suicidio isterici. 
Egli scopre, attraverso lo strano comportamento e gli appunti scritti sul diario, che il figlio (Stefano Madia) ha rapporti con un gruppo di terroristi. Cerca inutilmente di aprire con lui un dialogo, senza nemmeno ricordarsi quanti anni ha e che facoltà frequenta. Del suo fallimento come genitore è testimone anche il destino della figlia, tossicodipendente. Parlando con l’amante, che vuole lasciare, dice “Ora voglio dedicarmi alla riscoperta dei figliÉe i rapporti con tuo padre?”, e la donna risponde “Benissimo, è morto!”. 
Il rapporto tra padre e figlio degenera in alterchi sempre più violenti, in un crescendo di rimproveri, grida e rotture di vasi, fino all’ultimo, dopo il quale Marco si allontana da casa e il padre capisce di essere lui il prossimo bersaglio dei terroristi:

Figlio (urlando): ÉCi avete rotto i coglioni con i partigiani e con la resistenza, siete diventati peggio dei garibaldini, una retorica che fa schifo!
Padre (urlando): Basta, non ti permetto di insultare il mio passato!
Figlio (rompendo un vaso): E il tuo presente fa ancora più schifo del tuo passato!
Padre (minaccioso): Pazzo isterico, tu hai bisogno dello psicoanalista, domani stesso vai dallo psicoanalista!
Figlio (allontanandosi dalla stanza): Io non prendo più ordini da te!

La rottura tra padre e figlio, quasi simbolizzata dai vasi rotti, appare drastica e senza speranza. La figura dello psicoanalista, chiamata in causa, diventa ridicola. 
L’incapacità a comunicare si tramanda di padre in figlio attraverso le diverse generazioni: Gassman va a trovare suo padre per chiedergli un consiglio, ma la scena del loro incontro sembra un paradossale dialogo tra sordi.
Un riavvicinamento appare possibile solo con “la morte” psichica del padre, con il suo “annientamento fisico”: dopo l’attentato, è il figlio che spinge la sedia a rotelle dove è immobilizzato.

I film di Marco e Claudio Risi, figli di Dino, passano dalla commedia leggera e comica al dramma personale e sociale, dove comunque si mette in risalto l'assenza della figura paterna. 
Claudio Risi (1948) si è dedicato prevalentemente a serie televisive di successo e ha diretto un solo film per il grande schermo “Pugni di rabbia” (1991): la storia, melodrammatica e neorelista, di un giovane pugile di borgata, senza padre. L’ambientazione è quella della periferia romana degradata, e fa da sfondo al degrado psicologico dei protagonisti, giovani abbandonati a se stessi, che cercano di sopravvivere alle avversità della vita, cresciuti fisicamente e induriti, ma emotivamente fragili ed inconsistenti. Il tema dell’assenza del padre è presente come un dato di fatto non solo inelaborabile ed impensabile, ma anche non nominabile. Infatti, quando la sorella minore chiede al protagonista: “Tu che l’hai conosciuto prima che se n’andasse, ti manca papà?”, lui, per tutta risposta, le domanda: “Lo vuoi un gelato?”. Insomma, l’affetto risulta letteralmente “congelato”.
Nei film d’esordio del fratello Marco (1951), Vado a vivere da solo (1982) Un ragazzo e una ragazza (1984) e Colpo di fulmine (1985), che hanno per protagonista Jerry Calà, il rapporto tra genitori e figli, così come il tema dell’autonomizzazione, viene sviluppato in chiave comica. Calà ha sempre, seppure in diverse sfumature (per quello che gli è possibile!) il ruolo del trentenne che non vuole e non può crescere, particolarmente enfatizzato nel primo di questi film, dove lo si vede alle prese del tentativo di mettere su casa, per allontanarsi da genitori estremamente infantilizzanti. Nella prima scena del film si vede il protagonista che riflette sulla possibilità di andarsene di casa: i genitori sono tanto delle brave persone! Improvvisamente entrano in camera proprio i genitori con la torta di compleanno e i cappellini da clown in testa, cantandogli “perché è un bravo ragazzoÉe sempre con noi resterà”: il figlio deve ammettere a se stesso che “ogni tanto esagerano”. Nella scena seguente la famiglia è riunita a tavola a mangiare la torta, ed il ragazzotto ha un bavaglino al collo. Questo è lo scambio di battute:

Madre (con tono esageratamente affettuoso, come se si rivolgesse ad un bambino): Quando avevi cinque anni eri pieno di riccioli in testa e sai come ti chiamava il papà?
Figlio (facendole il verso): Trottolino!
Padre (compiaciuto): Eh sì, lo chiamavo trottolino a questo fustone qua!
Madre (ancora più compiaciuta): E ora guarda come gli stanno le camicie del papà!
Figlio (guardandoli furbescamente): Sì, specialmente il collo!
Madre (intenerita): Eri così carino!

In “Colpo di fulmine” (1985), che si potrebbe definire un film “prerealista”, dall’umorismo più lieve del precedente, il protagonista è ancora un trentenne fallito, che è stato lasciato dalla fidanzata proprio per la sua immaturità ed ha perso il lavoro. Viene invitato da un amico a trascorrere un periodo di tempo a casa sua, a Venezia, dove vive con la nuova compagna e la figlia undicenne, avuta da un’altra donna. Calà s’innamora platonicamente, ricambiato, della ragazzina, che evidentemente soffre delle poche attenzioni che le concede il padre. Quest’ultima, in tutto lo svolgersi della storia, appare tra i due la più adulta, sia nei comportamenti che nel modo di pensare, senza concessione all’erotismo, come sottolinea Zappoli (1993). Il protagonista lo riconosce, tanto che in una scena insiste nel dirle: “non sei una bambina, sei grande, molto più grande di me”. La ragazzina, arrabbiandosi, gli risponde: “ma se una non è una bambina a undici anni e mezzo, cos’è?”. L’amore non si realizzerà, perché i protagonisti arrivano (fortunatamente) a rendersi conto della diversità dei loro bisogni e desideri. 
Il padre Dino, in “Tolgo il disturbo” (1990), sviluppa una storia simile, che ha per protagonista un nonno (Gassmann) che ha trascorso 18 anni in un Ospedale Psichiatrico e viene accolto in casa dalla figlia, separata e risposata, che mal tollera la sua presenza. Qui egli trova nella sua nipotina l’unica persona in grado di comprenderlo. Anche a questa bambina, che non vive con il vero padre, ma con un patrigno ed una sorellastra, manca una figura maschile di riferimento affettuosa e attenta ai suoi bisogni. Come nel film del figlio, la loro relazione ha le parvenze di una storia d’amore sentimentale (anche qui senza alcuna concessione all’erotismo), che sottende, da parte del nonno, il desiderio di avere una figlia che lo ami nonostante tutto (il passato di paziente psichiatrico e la forzata assenza) e, da parte della bambina, di un padre che non ha. Nel commovente finale la bambina saluta il nonno per allontanarsi con un suo coetaneo, e anche qui ciascuno torna al suo posto. 
Mentre Risi padre gira questo film sulle orme del figlio, quest’ultimo cambia completamente registro, con “Mary per sempre” (1989) e “Ragazzi Fuori” (1990). In questi due film “neorealisti”, il cui soggetto è di Aurelio Grimaldi, fa la sua drammatica apparizione la realtà di una gioventù vittima e prigioniera di una sottocultura criminale e della violenza che è parte integrante della stessa società. Nel primo film egli mette a confronto nel carcere minorile di Palermo il “professore” Michele Placido ed un gruppo di attori non professionisti, ingaggiati proprio tra i giovani sbandati palermitani, che interpretano loro stessi. Il “professore” assume il ruolo di una figura dalle valenze paterne positive, che si confronta con padri reali mafiosi, spacciatori di droga, violenti e intolleranti. Egli cerca di offrire un esempio d’onestà e comprensione, mettendosi contro la stessa istituzione carceraria, stando dalla parte dei ragazzi e tentando di indicare loro una strada diversa da quella che li ha portati in carcere, aperta dai padri. Purtroppo non c’è redenzione, e, nel seguito della storia, “Ragazzi Fuori”, alcuni di loro si trovano a dover riaffrontare la vita quotidiana, senza nessun “professore”, quindi senza altro riferimento che i loro padri. Non possono quindi che ripiombare nella più assoluta desolazione di atteggiamenti e aspettative, finendo inevitabilmente tutti male: chi si prostituisce, chi ruba, chi stupra, chi viene assassinato. E qui possiamo dire che le colpe dei padri ricadono sui figli. Tanto più che la realtà in questo caso ha “superato l’immaginazione”: la maggior parte dei giovani attori non professionisti ha fatto veramente poi una brutta fine!

Lo stile narrativo di Luigi Comencini e delle figlie Cristina e Francesca è molto diverso rispetto ai Risi di entrambe le generazioni.
Luigi Comencini, laureato in architettura, è stato definito da Lietta Tornabuoni “l’architetto dei sentimenti” ed è conosciuto come “il regista dei bambini”. Rispetto al suo coetaneo Dino Risi realizza storie più complesse, articolate e problematiche, giocate sulle sfumature. Come scrive Brunetta (1991) “il bambino gli appare sempre come un cosmo ad altissima densità di problemi ed intrecci affettivi, di cui i grandi difficilmente riescono a capire le leggi. C’è sempre qualcuno, per fortuna, che riesce a comunicare con il bambino, ma si tratta di eccezioni. In genere, a partire dalla famiglia, i bambini sono individui che crescono in solitudine. Comencini appare come l’unico regista capace di realizzare film ad altezza di bambino”. Nelle sue opere, descrivendo le relazioni tra padri e figli, assume sempre lo sguardo del bambino o dell’adolescente. 
La figlia Cristina, in un’intervista al padre (1999) nota come, nei suoi film, i padri dei suoi bambini siano assenti, indifferenti o incapaci di amare, quanta incomprensione ci sia tra padri e figli e quanto desiderio di padre, sempre deluso. Questo a partire dal suo primo film importante “La finestra sul luna-park”, nato da un quesito che Comencini si era posto: “un bambino nasce generalmente con un padre e una madre, ma se il padre non ha tempo di fare il padre ed è spesso assente, può accadere che il bambino se ne scelga un altro. La risposta (che è “sì”) si trova nel film, dove un padre, che lavorava in Africa, torna nell’occasione drammatica della morte della moglie, e tenta di riconquistare l’affetto del figlio bambino, che non lo conosce. Mentre il padre vero era lontano, il ragazzino ne aveva trovato uno sostitutivo, tale Righetto, che pulisce le cantine, buono e gentile, che lo portava sempre con sé. La convivenza tra i due è difficile, il padre non riesce a mettersi nei panni del bambino, che gli chiede “alloraÉquando te ne vai?”. In una scena, girata in una cucina, il padre, un uomo bruno fisicamente imponente, scopre il bambino, piccolo e gracile, che gioca ad acchiappare le mosche. Tra i due si svolge questo dialogo:

Padre (con tono brusco): Ma che fai?
Figlio (impaurito): NienteÉ
Padre (innervosito): Ma vieni a dormire che fa caldo
Figlio (in tono timido): NoÉ
Padre (severo): Oggi che fai? Non vorrai stare tutto il giorno a acchiappare mosche, in campo a giocare non ti mando, o vieni con me o stai a casa!
Figlio (preoccupato): ÉSolo?
Padre (con tono di sfida): Sì, solo, perché, hai paura?
Figlio (guardando in basso e con voce fievole): ÉSì

Alla fine, Righetto rinuncia all’affetto del bambino, per farlo avvicinare al padre, che a sua volta pensa di rinunciare a tornare in Africa. Ma Comencini non dà per scontato che “vivranno felici e contenti”: padre e figlio, sebbene fisicamente vicini (nell’ultima scena il padre prende sulle spalle il bambino, si rende un tutt’uno con lui, ne fa un suo prolungamento), sono affettivamente ancora molto lontanti. 
In “Incompreso Ð vita col figlio” (1964) “il rapporto tra padre e figlio si compie solo con la morte” come afferma lo stesso Comencini. La storia, tratta da un romanzo lacrimevole, risulta drammatica e commovente nel film: un console inglese molto ricco, rimasto vedovo, deve gestire i rapporti con i due figli, bambini in età scolare. L’incompreso è Andrea, il maggiore dei due, che appare vittima dell’istintività del fratello e viene sempre sgridato dal padre, che non vede le sue buone intenzioni e non riesce a cogliere la sua profonda infelicità. Lo tratta come un adulto e non tiene conto dei suoi bisogni, del fatto che il bambino desidera solo il suo amore e la sua attenzione. In una scena il padre legge le favole al piccolo e se ne va quando dorme, nonostante Andrea gli chieda di restare, dicendogli che “è grande” per queste cose.
Dopo l’ennesima “cattiva azione”, cioè l’essersi allontanato “senza permesso” per comprare al padre il regalo di compleanno (una targhetta da tenere in macchina con la loro foto e la scritta “sii prudente”) senza riuscire a lasciare a casa il fratellino, il padre è molto arrabbiato. Queste sono alcune battute che si scambiano i due, l’uno imponente, in piedi, l’altro accoccolato su una poltrona, con gli occhi bassi:

Padre (serio e severo): Così sono io che devo essere prudenteÉ
Figlio (serio e teso): Mandami in collegio papà, sono troppo cattivoÉ
Padre (rassegnato e arrabbiato): Non sei cattivo, sei semplicemente fatto così, le cose non ti toccano, ti scivolano addosso, non ti ho visto soffrire neancheÉ(sottointendendo “quando è morta tua madre”), allora ti dissi che era una fortuna, ma stai attento a non esagerare, perché una volta o l’altra, così, senza volere, potresti fare molto molto male a tuo fratello, e adesso va, vaÉ(il bambino si allontana avvilito)

Solo quando il bambino avrà un grave incidente, determinato dal fratellino, il padre si rende conto dei suoi errori e tenta di riparare, ma non potrà che accompagnare il figlio verso la morte. 
Un altro bambino che se ne va solo, senza voltarsi indietro, questa volta non drammaticamente verso la morte, ma verso un destino sconosciuto, è il protagonista di “Voltati Eugenio” (1980). Figlio “per sbaglio” di una coppia di ex-sessantottini tutti presi dai loro problemi personali e di coppia (Marconi e Di Lazzaro), Eugenio, di dieci anni, per tutto lo svolgimento del film si vede sballottato tra padre, madre, nonni e “amici” di vario tipo. In una delle prime scene, litigando, i genitori finiscono per dimenticarselo, neonato, sul treno. Come la protagonista undicenne del già citato “Colpo di fulmine” (1985) di Marco Risi, anche Eugenio appare più adulto degli adulti, costretto a crescere in anticipo quasi per horror vacui nei confronti di adulti inconsistenti. Eugenio capisce di essere di troppo, di essere d’intralcio alla vita dei suoi parenti e fugge. Cercato affannosamente, quando viene ritrovato, l’attenzione di genitori, nonni e amici si focalizza su un vitellino appena nato, ed Eugenio può allontanarsi ancora, praticamente sotto i loro occhi, senza essere visto. 
Un finale più ottimista è quello di Un ragazzo di Calabria (1987). Sceneggiato dalla figlia Francesca, è la storia, che si svolge nella Calabria degli anni ’60, di Mimì, un ragazzo di tredici anni cui piace correre, perché, dice “quando corro, sogno”. Mimì corre sempre a piedi nudi, non ha soldi per comprarsi le scarpe, e corre a perdifiato tra le campagne anche di notte, per non farsi vedere dal padre (Abatantuono). Questi lo osteggia in questa passione, poichè vorrebbe riscattare la sua povera condizione di “guardiano dei matti” facendolo studiare, ma è protetto dalla madre. Mimì trova nella figura del conducente del suo scuolabus, “lo sciancato” (Volontè), un allenatore e un sostituto paterno che crede in lui e lo gratifica, mentre il padre vero lo bastona per impedirgli di correre. Alla fine, tuttavia, il padre si rende conto delle capacità del figlio, gli permetterà di correre la sua gara e di vincere. 
La metafora della corsa rimanda alla faticosa ricerca adolescenziale di tenere il passo dell’esistenza in divenire, di conquistare la propria identità, di differenziarsi ed emanciparsi dai genitori, cercando comunque di non deluderli. La vittoria di Mimì rappresenta anche il riscatto della diversità. Infatti Mimì ha come idolo l’atleta etiope Abebe Bikila, non accetta di conformarsi a regole che non comprende, dettate dalla paura e dall’ignoranza, e non esita ad affezionarsi allo “sciancato”, che lo incoraggia dicendogli “basta avere qualcosa di più o qualcosa di diverso e la gente ti guarda con sospetto”.
Un “diverso”, e ribelle, è anche Pinocchio, protagonista del libro di Collodi, da cui Comencini ha tratto un film per la televisione (1972). Comencini ha interpretato l’opera di Collodi come “il racconto di un colossale ricatto fatto al bambino”. Mentre nel libro il burattino diventa bambino solo alla fine, nel film il “ricatto globale” viene sostituito con una punizione che colpisce il bambino ogni volta che disubbidisce o non tiene fede agli impegni con la fata. Come dice lo stesso Comencini (1999) “Pinocchio nasce dal legno e la fata lo trasforma subito in bambino a patto cheÉsia come lei lo vuole, se no lei lo farà diventare burattino”. Il padre Geppetto è forse il padre più amorevole ritratto da Comencini, ma è povero, vecchio, non ha le risorse per correre dietro a Pinocchio, né per contrastare la fata, ma lo ama comunque, sia bambino sia burattino. E Pinocchio lo saprà ricambiare. 
Per Comencini il tema del rapporto tra padre e figlio si impregna nella sua stessa idea di cinema, infatti ha detto (1999): “quando penso al cinema, mi viene in mente un bambino che gioca nella spazzatura e trova all’improvviso una biglia meravigliosa. Allora dice: guarda papà che bella biglia che ho trovato! Così è il cinema: mostra ciò che trova”. 
Se i figli allora mostrano ciò che trovano al padre, cosa dice il padre della biglia meravigliosa? O meglio, quale risposta si aspettano i figli?
Francesca Comencini, in una conversazione con uno di noi (P.R.Goisis, Roma, 26/6/2003), ha detto:“Mio padre non ha mai voluto che facessimo questo mestiere. Ci ha dissuaso in ogni modo. Forse si è opposto a questo progetto proprio per farcelo realizzare. Diceva che l’unico modo per far amare una cosa è dire di non farla”. Ha detto anche: “Io forse ho fatto questo lavoro anche per capire chi fosse papà nel lavoro, ma non soloÉ”. 
Francesca e Cristina hanno un modo di lavorare molto diverso, la prima, per sua stessa ammissione, di tipo autobiografico, la seconda cerca invece, come il padre, di “fare un cinema di testa” (Comencini, 1999), più distaccato dalle vicende personali particolari. Ma ora ogni opera di questi registi assume il significato della biglia, mostrata dal bambino al padre, una richiesta di conferma e di amore.
Non a caso il film più significativo di Francesca si intitola “Le parole di mio padre” (2001): quando l’ha girato, Luigi Comencini non poteva già più parlare, a causa di una malattia invalidante. Il film, tratto liberamente dal romanzo di Svevo “La coscienza di Zeno”, racconta le vicissitudini affettive del giovane Zeno (Rongione), che si dibatte tra il ricordo del padre defunto (Bertorelli), la presenza del signor Malfenti (Calopresti), cui il padre stesso gli aveva raccomandato di fare riferimento, nel suo testamento, per avere un lavoro, e le quattro figlie di quest’ultimo (che inevitabilmente si associano alle quattro sorelle Comencini). 
Il complesso gioco di relazione tra padri e figli viene proposto con profondità e con un senso di profonda nostalgia.
Da una parte c’è Zeno, che ricorda, in lunghi monologhi, la mancanza di dialogo col suo vero padre. Con profonda disperazione, racconta a Malfenti, che assume in diversi momenti un ruolo paterno di ascoltatore: “l’ultima cosa che ha fatto prima di morire è stato darmi uno schiaffoÉper lo sdegno per quello che eroÉnon il figlio che avrebbe voluto”. 
Dall’altra parte le figlie di Malfenti, tre adolescenti ed una bambina, anch’esse alle prese con il confronto con la figura paterna, la rivalità tra sorelle e il gioco di seduzione nei confronti di Zeno. Quest’ultimo rimane disorientato fino all’ultimo in queste trame amorose molto cerebrali. Alla fine, non è la razionalità a vincere, non esiste la risposta o la persona giusta, ma il poter accettare il dubbio. Infatti, il film si conclude con una citazione dal romanzo di Svevo: “l’amore accompagnato dall’incertezza è il vero amore”.

Nei film di Cristina, come nei film del padre, i genitori reali non riescono a prendersi cura dei bambini-adolescenti, ma lo fanno figure sostitutive, come nel film d’esordio, Zoo (1988). Si tratta di una favola delicata, tenera e romantica, sul bisogno di fantasia ed immaginario nell’infanzia e nell’adolescenza, e, soprattutto, sul bisogno di figure genitoriali consistenti, che mancano. La protagonista è una ragazzina (Asia Argento) figlia del guardiano dello zoo e orfana di madre, che diventa amica di uno zingarello, anch’egli abbandonato a sé stesso. Insieme liberano un’elefantessa, e con lei si allontanano dallo zoo. La scena finale richiama quella del film “Voltati Eugenio”: i ragazzini imboccano la loro strada, e non sono gli adulti ad indicargliela.
In Liberate i pesci (2000) il tema del rapporto genitori-figli è trattato invece in stile farsesco. La storia, è quella di Marco (Morandi), figlio di un boss mafioso (Placido) che torna dall’america per sposarsi. Tra i due, da tempo, la relazione è difficile, e Marco non vuole che il padre si intrometta né gli dia soldi. Ecco un dialogo tra loro:

Padre (cercando di prendere sottobraccio il figlio): Questo sposalizio è una cosa importante per me! 
Figlio (respingendolo): Tu, che c’entri tu?
Padre (irritandosi): Io? Io sono tuo padre!
Figlio (alzando la voce): Non è colpa mia, il padre non si sceglie!
Padre (in tono affranto): Lo dovevo capire fin dal primo giorno che mi hai visto, eri piccolo e stavi nella culla e mi guardavi tutto schifato come se puzzavoÉ
Figlio (correggendolo): PuzzassiÉ
Padre (arrabbiandosi): Cosa?! Ma tu mi vuoi fare crepare?
Figlio: Senti, io qua non ci torno più, vado in America!
Padre: E chi vi mantiene?
Figlio: Io!
Padre: Sì, tu con la trombetta!

Nella sua ultima e più riuscita opera, “Il più bel giorno della mia vita” (2002), questa regista propone il tema del rapporto genitori e figli e dei conflitti generazionali seguendo le storie di due sorelle (Buy e Ceccarelli) ed un fratello omosessuale (Locascio). Delle due sorelle, l’una, in crisi col marito, ha due figlie, una bambina e un’adolescente, l’altra, vedova, ha un figlio adolescente.
Il titolo si riferisce al giorno in cui la bambina fa la prima comunione e viene festeggiata a casa della nonna (Lisi), con la riunione dell’intera famiglia, che cerca di lasciare da parte, almeno per un giorno, problemi e conflitti. Come regalo, la bambina riceve una telecamera e comincia a filmare la festa. La scena finale, dove la bambina si avvicina al padre per riprenderlo, è particolarmente riuscita e commovente, una dichiarazione d’amore tra padre e figlia. Il padre, aggiustandosi la cravatta e assumendo un atteggiamento soddisfatto, esclama davanti alla cinepresa “io sono il suo papà”. Prende poi la telecamera alla figlia e dice “questa è la mia bambina”. Mentre la bimba lo filma di nuovo, il papà ripete ancora “sono sempre il suo papà”. La piccola, consapevole dei conflitti fra i genitori, chiede, guardando fisso il padre, “per sempre?”; la risposta che riceve, dal padre commosso e sincero, è: “sì, per sempre”.

La relazione tra padre e figli è dunque per sempre e, se i figli seguono le orme dei padri, potrà essere particolarmente difficile. 
Nel caso di generazioni di registi, di una “Passione di famiglia”, che è il titolo di un romanzo di Cristina Comencini, le riprese cinematografiche assumono quindi le funzioni di conferma e di ricordo, di creazione, di scoperta, di ritrovamento, di differenziazione e d’individualizzazione. Proprio le stesse funzioni della biglia di vetro, mostrata dal figlio al padre, che è una comunicazione che chiede conferma. Tutto ciò inevitabilmente rimanda all’oggetto transizionale di Winnicott, che è qualcosa che è trovato e nello stesso tempo creato dal bambino. 
I figli e le figlie che seguono le orme dei padri spesso rappresentano una presenza paterna inadeguata, o la sua assenza, o la ricerca di suoi sostituti, quindi di padri idealizzati. 
La mancanza e l’assenza si possono tuttavia sperimentare solo se l’oggetto è stato in qualche modo percepito. Sappiamo che la creazione ha sempre e comunque a che fare con la separazione, è il luogo in cui è possibile usare gli oggetti della realtà “con significato e sentimento di sogno” (Winnicott, 1971). 
Come spettatori, usiamo anche noi i film quali nostre creazioni, e ogni padre ed ogni figlio, o ogni figlia, che dallo schermo ci racconta la sua storia, ci racconta qualcosa anche di ognuno noi.

La smania addosso - Marcello Andrei (1962)

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TITULO ORIGINAL La smania addosso
AÑO 1962
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 100 min.
DIRECCION Marcello Andrei
GUION Marcello Andrei, Alberto Bevilacqua, Giuseppe Mangione, Lucia Drudi Demby, Leonardo Sciascia, Dante Troisi

INTERPRETES Y PERSONAJES
Nino Castelnuovo: Nicola Badalà
Gérard Blain: Totò
Annette Stroyberg: Rosaria Trizzini
Mariangela Giordano: Carmelina
Vittorio Gassman: avvocato Mazzarò
Gino Cervi: avvocato d'Angelo
Lando Buzzanca: carabiniere Sanfilippo
Ernesto Calindri: Don Salvatore
Umberto Spadaro: Don Luigino Trizzini
Ignazio Balsamo: Don Nenè
Carla Calò: Gna' Santa
Alfredo Varelli: brigadiere Maioli
Renato Pinciroli: presidente del tribunale
Attilio Dottesio: giudice
Leopoldo Trieste: Don Calogero
Anna Di Leo:
Tano Cimarosa:
Rina Franchetti:

FOTOGRAFIA Riccardo Pallottini
MONTAJE Renato Cinquini
MUSICA Carlo Rustichelli
PRODUCCION Mec Cinematografica, Les Film Agiman
GENERO Comedia

SINOPSIS Grottesca storia di due giovanotti che in un paesino della Sicilia violentano una ragazza. Alla fine due abili avvocati riusciranno a farli assolvere al processo, ma uno, che nel frattempo si è innamorato della vittima, la sposerà. (My Movies)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

TRAMA: 
In un piccolo paese siciliano, due ragazzi - Totò e Nicola - in particolari circostanze usano violenza ad una giovane loro amica, Rosaria. Secondo le usanze locali, uno dei due dovrebbe sposare la ragazza, ma le cose si complicano subito perché né Totò né Nicola intendono unirsi in matrimonio con lei. Nella vicenda, che acquista subito un tono grottesco, intervengono i genitori, la mafia locale, i carabinieri, in un susseguirsi di avventure sentimentali e drammatiche. I due colpevoli vengono arrestati e deferiti all'autorità giudiziaria. Però Totò e Rosaria finiscono col volersi bene; Nicola, da parte sua, intesse una storia d'amore con Carmelina, un'amica di Rosaria. Nella causa intervengono due grandi avvocati, che sostenendo due audacissime tesi - la provocazione grave per Totò, l'impotenza psichica per Nicola - riescono a fare assolvere i due colpevoli...

CRITICA: 
"Ecco un figlio dei tanti che stanno arrivando di "Divorzio all'italiana", gli equivoci del capostipite si ingigantiscono in una farsaccia di notevole volgarità e cattivo gusto". 
(Anonimo, "Nuovo Spettatore Cinematografico", n. 2, aprile 1963).

NOTE: 
- L'INTERPRETE ENRICHETTA MEDIN E' ACCREDITATA COME HARRIET WHITE.
- MUSICHE DIRETTE DA: PIER LUIGI URBINI.
- ASSISTENTE ALLA REGIA: TONINO VALERII.


La Sicilia tra letteratura e cinema
...
Il nome di Sciascia si trova anche, non sappiamo con quanta attendibilità, fra i collaboratori alla sceneggiatura di La smania addosso (1964), greve calco di sedotta e abbandonata firmato da Marcello Andrei, che oggi imbarazza per l’esplicitezza burlesca con cui tratta un episodio di stupro da un punto di vista totalmente maschilista (in questo senso, un utile documento d’epoca), ed esplicitamente tratta da un racconto dello scrittore di Racalmuto sarà Un caso di coscienza (1970) di Gianni Grimaldi, con Lando Buzzanca. Uno spunto di poche pagine, il racconto, che ricordava alla lontana i Mimi siciliani di Francesco Lanza, dilatato con varie aggiunte volgarotte, di chiara derivazione germiana (a cominciare dal protagonista).
...
Emiliano Morreale

Miele - Valeria Golino (2013)

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TITULO ORIGINAL Miele
AÑO 2013
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 96 min.
DIRECCION Valeria Golino
GUION Valeria Golino, Francesca Marciano, Valia Santella (Novel: Angela Del Fabbro)
FOTOGRAFIA Gergely Pohárnok
MONTAJE Giogiò Franchini
REPARTO Jasmine Trinca, Carlo Cecchi, Libero De Rienzo, Iaia Forte, Vinicio Marchioni, Roberto De Francesco, Barbara Ronchi
PREMIOS 
2013: Festival de Cannes: Sección oficial (Un Certain Regard)
2013: Premios del Cine Europeo: Nominada al Premio Discovery
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Buena Onda / Les Films des Tournelles
GENERO Drama

SINOPSIS Irene tiene 32 años, es una mujer como tantas otras, vive sola y tiene sus historias ocasionales. Hace tres años que decidió dedicar su vida a personas en busca de ayuda, asistiendo y aliviando el sufrimiento incluso cuando llevan a decisiones extremas; por eso su nombre en clave es "Miel". Pero un día ha de hacer cuentas con Grimaldi y su mal invisible... (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

Valeria Golino racconta Miele, il film che segna il suo esordio nella regia

Esordio nella regia di Valeria Golino, che ha meritoriamente scelto di non recitarvi (e di non offrire ruoli al compagno Riccardo Scamarcio, che produce), Miele è uno di quei film che, appena terminata la proiezione, gli addetti ai lavori amano descrivere con quella formula oramai un po’ stereotipata e, dopo Boris, un po’ risibile del “non sembra italiano”.
Liberamente tratto da un tratto da un romanzo di Mauro Covacich, “A nome tuo”, pubblicato da Einaudi, Miele tratta infatti, come precisa la stessa regista “non di eutanasia ma di suicidio assistito, che sono due cose molto diverse: qui si parla di decisioni conscie del malato che da un certo punto in poi deve fare tutto da solo.”
Protagonista è infatti una ragazza, interpretata da una Jasmine Trica sofferta e dai capelli corti, che si occupa di assistere coloro che scelgono di togliersi la vita perché affetti da malattie terminali o drammaticamente invalidanti.
“Ho letto il romanzo tre anni fa, quando era uscito con un altro titolo e sotto pseudonimo,” racconta Valeria Golino, “mi era sembrato fulminante, contemporaneo, doloroso e provocatorio, con un personaggio femminile inedito nel panorama letterario e ancor di più cinematografico italiano. Ne abbiamo parlato con i miei partner produttivi e ne abbiamo acquisito i diritti.
Inizialmente avevamo un po’ paura e c’era incertezza, soprattutto da parte mia, sul fatto di affidarlo a me come regista,” prosegue con sincera modestia, “dato che è un film difficile per un esordio: non perché l’argomento fosse troppo ostico, ma semmai perché la mia inesperienza mi avrebbe penalizzato nel raccontare la storia come avremmo voluto.”
Dopo aver specificato che sulla storia del romanzo lei e le sue cosceneggiatrici, Valia Santella e Francesca Marciano, sono intervenute moltissimo, filtrandola e reintepretandola secondo un filtro e un’etica tutti personali, la Golino spiega poi perché né lei né Scamarcio appaiono nel film come interpreti: “Io volevo che il personaggio della protagonista fosse più giovane di me, e non abbiamo mai realmente pensato che potessi essere io ad interpretarlo. E poi ero più curiosa di filmare qualcun’altro che non me, volevo come primo istinto pensare agli altri. Anche per quanto riguarda Riccardo, abbiamo valutato che non fossero personaggi giusti per lui quelli poi affidati a Libero De Rienzo e Vinicio Marchioni.”
Pur trattando un tema spinoso e controverso, eticamente e, soprattutto nel nostro paese, politicamente, Miele è un film che rifugge ogni militanza. “Quel che mi sembrava più interessante,  mentre scrivevamo, era semplicemente raccontare questa storia,” spiega la Golino. “Questo, prima che una qualche urgenza etica o politica, è stata la spinta primaria per girare il film. Poi certo, trattiamo di temi che sono dei tabù, ma più per le istituzioni e per la politica che per la gente comune. Questo  un film che si pone delle domande: non ho voluto prendere posizioni definitive, ho voluto lasciare molto aperto, pur pensando fermamente che ogni essere umano abbia il diritto di decidere del proprio corpo, della propria vita e di come terminarla. Certo, ci sono mille implicazioni in questo, che cambiano da storia a storia, da caso a caso: e con il film ho voluto addentrarmi in queste implicazioni e in questi dubbi.”
La neoregista, poi, si è autoimposta dei limiti precisi per quanto riguarda il mostrabile di situazioni tanto delicate, nel contesto di un film che però non si risparmia molto: “In questo film la morte non si vede mai, davvero. Si vede un rituale, perché volevo che si sentisse il peso e la tensione di un momento grave e sacro, ma non volevo vedere le morti.”
Ricevuti molti complimenti per le doti dimostrare dietro la macchina da presa, Valeria Golino spiega di non avere ancora un metodo registico preciso, di procedere ancora in maniera caotica e disordinata. Ma di aver sempre saputo quel che voleva dal film anche dal punto di vista estetico: “Volevo che il film fosse libero e formale al tempo stesso, volevo serietà senza fronzoli nell’inquadratura ma con la libertà di far accadere piccoli incidenti di luce o altro. Alcune delle cose più belle del film dal punto di vista visivo le ho dovute lasciare fuori, perchè mi pareva che il materiale non reggesse troppe estetizzazioni. Il tema del film impedisce l’inutile, e quindi tutte le volte che mi sono spinta troppo in là sono poi dovuta tornare indietro.”
Tornare, Valeria Golino tornerà anche a Cannes, dove Miele sarà presentato nella sezione Un certain regard. E, a chi gli chiede come si senta per questo, la regista non si trincera dietro false modestie inutilmente blasé e risponde con un sorriso a trentadue denti: “Ne sono molto, molto contenta. Davvero.”
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Se non altro, a Valeria Golino va riconosciuto il merito e il coraggio di non essersi scelta un tema e una storia facili, per l’esordio nella regia.
Miele, infatti, tratta di suicidi assistiti di malati terminali, visti dal punto di vista una giovane che, appunto, assiste e che per compensare tanto dolore si aggrappa con rabbia a scampoli di vita incerti e precari, e tocca corde e temi che, in un paese come il nostro più ancora che in altri, sono ad alto rischio di polemiche e strumentalizzazioni.
Ma la neoregista, che qui sceneggia anche e rinuncia con intelligenza al voler apparire sullo schermo, mostra una determinazione e una misura che la mettono al riparo dalle critiche più ideologiche.
Golino si aggrappa ad una protagonista tormentata e sofferente, interpretata con altalenante intensità da Jasmine Trinca, fornendo a Miele uno sguardo e un punto di vista squisitamente ma mai militantemente femminili, ragionando sui temi della vita e della morte ponendo questioni che riguardano soprattutto la degna continuazione della prima, prima ancora che una libera e dignitoso scelta della seconda.
Vi si aggrappa con tenacia, forse troppo, troppo preoccupata di fornire un ritratto intimo e fragile da supportare con lutti mai superati e amori spezzati, sublimati nell’attività dolorosa di chi si mette al servizio della fine di una sofferenza non più sopportabile, perdendo così a tratti di vista una dialettica che travalichi quella interiore della protagonista.
Allora non è un caso che Miele trovi i suoi momenti migliori e più intensi con l’irrompere sulla scena del personaggio di Carlo Cecchi, ingegnere avanti con gli anni che vuole anche lui farla finita, ma per un male oscuro della mente e non del corpo. Nichilista e deluso dalla volgarità del mondo, il personaggio di Cecchi fa saltare le certezze, le routine e i nervi della protagonista, che si rifiuta di aiutare uno che, secondo i suoi standard, non è malato e con il quale costruirà il rapporto che con suo padre, evidentemente è sempre mancato.
Salta, quindi, la routine della Trinca (anche stimolata attorialmente dal confronto col collega), meno quella della Golino, che racconta un andirivieni di personaggi e situazioni senza mai scartare dal binario su cui si è piazzata fin dall’inizio, senza mai sorprendere, sacrificando il dinamismo narrativo adagiandosi sul tema e sulla forma.
Una forma che, per essere frutto di una mano inesperta, è di tutto rilievo, mai banale, ricercata fino a rasentare e in qualche punto abbracciare l’eccesso consapevole e compiaciuto di formalismo pur nel contesto di una fotografia plumbea e dolente sia nella scelta dei colori che in quella delle inquadrature.
Valeria Golino, quindi, avrebbe potuto essere più netta e radicale, rinunciare ad alcuni abbellimenti retorici anche nella narrazione, avrebbe potuto rischiare un po’ di più strutturando alcuni conflitti in maniera meno semplicistica e prendendo delle posizioni più nette e meno autoassolutorie.
Ma, nel complesso, il suo Miele rimane comunque un esordio interessante e soprattutto promettente, se la neoregista sceglierà alla sua seconda prova di dismettere del tutto alcuni vezzi tutti nostrani e di trovare la forza di perseguire senza distrazioni quella ruvidità amara che emerge nei momenti migliori del film.
Federico Gironi


L'esordio alla regia di Valeria Golino si ispira al libro "A Nome Tuo" di Mauro Covacich (inizialmente "Vi Perdono" di Angela Del Fabbro)

Prima di tutto, una nota: il libro che Valeria Golino lesse tre anni fa e che la ispirò per esordire alla regia era "Vi Perdono" di Angela Del Fabbro. Su quel volume (lo stesso letto da chi scrive questo articolo...) il nome dell'autrice era segnalato come "pseudonimo", scelto da una "persona che intende rimanere nell'ombra". Molti allora pensarono che quel nome fittizio nascondesse la vera identità di Miele, la protagonista del romanzo, il cui lavoro illegale (aiutare e accompagnare malati terminali verso una "dolce morte", una eutanasia volontaria e misericordiosa) la costringeva a restare sconosciuta.
Da allora a oggi molte cose sono cambiate: si è scoperto che il vero autore del libro (di finzione) era un uomo, Mauro Covacich, e la casa editrice Einaudi lo ha ripubblicato col suo nome e un nuovo "formato": "A Nome Tuo"è una raccolta di storie e racconti di cui Miele è una delle protagoniste, "creatura" ufficiale di un autore (uomo). 
Valeria Golino ammette subito di aver voluto mediare quella visione con la sua, arricchendo il racconto di sguardi femminili (il suo, quello delle co-sceneggiatrici Francesca Marciano e Valia Santella, della co-produttrice Viola Prestieri). La differenza fondamentale tra libro e film - come spiega lei stessa nel video qui sotto - è nel rapporto tra Miele e Grimaldi, da come nasce a come si conclude. 
Detto questo, resta pressoché identico quello tra lei e i suoi pazienti, le storie e le metodologie del suo lavoro, il rispetto per la morte e la fatica per Miele di proseguire giorno dopo giorno nella sua missione. Sono modificati pochissimo i rapporti con i suoi uomini (anche se "scompare" il nonno) e con le amicizie, e sono di minima importanza le differenze nei dettagli (Torino diventa Padova, e altre quisquilie). 
Per il resto, le motivazioni e le differenze, nessuno meglio della stessa regista-sceneggiatrice può spiegarle meglio: il video integra questo ragionamento nel modo migliore.

L'Albero delle pere - Francesca Archibugi (1998)

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TITULO ORIGINAL L'albero delle pere 
AÑO 1998
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español e inglés (Separados)
DURACION 88 min.
DIRECCION Francesca Archibugi
GUION Francesca Archibugi
MUSICA Battista Lena
FOTOGRAFIA Luca Bigazzi
MONTAJE Esmeralda Calabria
REPARTO Valeria Golino, Sergio Rubini, Stefano Dionisi, Niccolò Senni, Francesca Di Giovanni, Chiara Noschese, Victor Cavallo, Maria Consagra, Giuseppe Del Bono, Raffaella Lebboroni, Sergio Pierattini, Serena Scapagnini, Bruno Sclafani, Paolo Triestino, Raffaele Vannoli, Silvio Vannucci, Andrea Liu Junyu, Corrado Invernizzi, Patrizia Rosati, Corinna Lo Castro
PREMIOS 2008: Festival de Venecia: FIPRESCI y Mejor joven actor o actriz emergente (Niccolò Senni)
PRODUCTORA 3 Emme Cinematografica / Dania Film / Istituto Luce / Rai Cinemafiction
GENERO Drama

SINOPSIS El árbol de las peras es una película sobre la preocupación de un adolescente por su adorable y traviesa, media hermana, Domitilla. Es también la historia de cómo este joven tiene que asumir, prematuramente, las responsabilidades del mundo adulto en un entorno de traficantes, drogadictos y una familia en el camino de la perdición. (FILMAFFINITY)

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Subtítulos (Español)

Subtítulos (Inglés)


TRAMA: 
Siddharta, ragazzo di quattordici anni, abita a Roma con la madre Silvia che non lavora e vive di espedienti. Il padre del ragazzo è Massimo, regista sperimentale che lavora in maniera saltuaria. Silvia ha anche una bambina di due anni, Domitilla, nata dalla relazione con Roberto, che lavora come avvocato nello studio del padre ed è l'unico sostegno della famiglia. Domitilla vive con il padre ma a Natale si trasferisce dalla madre e vive una vita del tutto diversa accanto al fratello. Succede che un pomeriggio, mentre Silvia è fuori casa, Domitilla trova nella borsa della madre una siringa e accidentalmente si punge. Siddharta se ne accorge per primo e decide di affrontare la situazione da solo, senza coinvolgere gli adulti per proteggere la madre. Al pronto soccorso e dallo specialista deve far finta di parlare per conto di altri e, dopo aver ritirato i risultati delle analisi, scappa dalla finestra dell'ufficio per non rivelare il nome della sorellina. Ma la situazione arriva alla fine in evidenza e tra i due padri e Silvia lo scontro è molto duro. Silvia è decisa a cambiare vita ma il suo proposito è di breve durata: muore in un incidente di macchina. Siddharta adesso si sente davvero solo. All'uscita da scuola, vede in lontananza i due padri e Domitilla da un lato, una ragazzina con cui ha una piccolo flirt, dall'altro. Osserva perplesso i riferimenti della sua vita. Poi, con un balzo, decide di allontanarsi non visto.

CRITICA: 
"'L'albero delle pere'è un film dove ognuno ha perso la sua identità: i genitori non sono più genitori e i figli non sono più figli, investiti di responsabilità superiori alle loro forze. Uno di quei film che a Venezia ha rischiato il linciaggio e che proprio per questo - visto che si tratta di una storia originale raccontata con estrema vivacità - alimenta il sospetto che tanta acredine sia motivata da un eccesso di sincerità. Francesca Archibugi non esita infatti a mettere in scena la sua generazione interrogandosi criticamente su un passato punteggiato di delusioni, sconfitte e responsabilità. Un po' come aveva fatto Marco Bellocchio con 'Il principe di Homburg'. Ovviamente la situazione descritta è piuttosto forzata, oltrepassa i limiti della credibilità e funziona soltanto se accettata nella sua paradossalità. Ma è proprio questo aspetto a far risaltare, e con evidente contrasto drammatico, lo sconquasso di un nucleo familiare dove ognuno ha abdicato al suo ruolo". (Enzo Natta, 'Famiglia Cristiana', 10 novembre 1998)

"I personaggi ne 'L'albero delle pere', risultano spesso stereotipati; gli episodi della loro vita angusta risultano a volte melensi, e gli interpreti sono mediocri. Ma non sono molti i registi italiani che abbiano come Francesca Archibugi la capacità di descrivere con esattezza scoraggiata certi luoghi dell'esistenza della gente comune, il supermercato e i corridoi della USL, l'oscurità domestica nei pomeriggi invernali e le aule della scuola, l'ostentazione velleitaria delle cerimonie laiche, l'esibizionismo e l'egocentrismo scemo anche delle figurette più irrilevanti. Ed è raro pure il tentativo riuscito di usare una storia famigliare con bambini per un esercizio di stile espressivo: Roma vista nei suoi quartieri senza bellezza né estetica della povertà, gli appartamenti abitati dallo squallore, vengono esplorati dalla macchina da presa con una ricerca figurativa ostinata ed efficace, con una sapienza persino eccessiva moltiplicata dalla fotografia molto bella di Luca Bigazzi". (Lietta Tornabuoni, 'L'Espresso', 17 settembre 1998)

"Molte ambizioni, appunto, e molti temi: padre, figli, a generazione del dopo Sessantotto: i guasti e i disagi dell'oggi, le possibilità e i destini delle generazioni future figlie dell'informatica. Però, se nella struttura del racconto c'è poco ordine, se qualche personaggio che si affaccia all'ultimo momento risulta pleonastico e se i protagonisti adulti rischiano, a volte di essere più emblematici che non autentici, i modi con cui la regia poi li rappresenta si conquistano non di rado un vero e proprio stile. All'americana, se vogliamo, ritmi a singhiozzo, immagini volutamente sporche, sempre con l'aria di far della realtà realissima - un'espressione onirica, fra luci che si offuscano e si macchiano, con inquadrature sghembe dipanate spesso con fulminanti respiri e un sonoro al diapason. In contrasto, ma non in contraddizione, certi scontri familiari sono dosati invece con calma e certe pagine, pur quiete, hanno tutto il tempo di svelare invenzioni anche fantasiose. Un'Archibugi sempre più matura, insomma, anche se, pretende molto, non risolve tutto. La mamma è Valeria Golino, stralunata a dovere, Massimo è Sergio Rubini, all'inizio molto 'capellone', il borghese Roberto è Stefano Dionisi, In giacca e cravatta, Siddharta si chiama Niccolò Senni. Lo rivedremo". (Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo', 5 settembre 1998)

NOTE: 
- REVISIONE MINISTERO AGOSTO 1998.
- PREMIO OSELLA D'ORO PER LA MIGLIOR FOTOGRAFIA A LUCA BIGAZZI E PREMIO MARCELLO MASTROIANNI COME MIGLIOR ATTORE EMERGENTE A NICCOLO' SENNI ALLA 55. MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA (1998).
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Trama
Siddartha, ragazzo di quattordici anni, abita a Roma con la madre Silvia che non lavora e vive di espedienti e varie amicizie. Il padre di Siddartha è Massimo, regista sperimentale che lavora in maniera saltuaria. Silvia ha anche una bambina di due anni, Domitilla, nata dalla relazione con Roberto, che lavora come avvocato nello studio del padre ed è l'unico sostegno della famiglia. Domitilla vive con il padre ma a Natale si trasferisce dalla madre e vive una vita del tutto diversa accanto al fratello. Succede che un pomeriggio, mentre Silvia è fuori casa, Domitilla trova nella borsa della madre una siringa e accidentalmente si punge. Siddartha se ne accorge per primo e decide di affrontare la situazione da solo, senza coinvolgere gli adulti e intenzionato a proteggere la madre. Al pronto soccorso e dallo specialista deve far finta di parlare per conto di altri e, dopo aver ritirato i risultati delle analisi, scappa dalla finestra dell'ufficio per non rivelare il nome della sorellina. Ma la situazione arriva alla fine in evidenza e tra i due padri e Silvia lo scontro è molto duro. Silvia è decisa a cambiare vita ma il suo proposito è di breve durata: muore in un incidente di macchina. Siddartha adesso si sente davvero solo. All'uscita da scuola, vede in lontananza i due padri e Domitilla da un lato, una ragazzina con cui ha una piccolo flirt dall'altro. Osserva perplesso i riferimenti della sua vita. Poi, con un balzo, decide di allontanarsi non visto.

Critica
Certi genitori non vogliono diventare adulti, restano ragazzi mai cresciuti, Peter Pan velleitari e confusi anche quando sono madri e padri di figli piccoli magari più maturi e responsabili di loro : Francesca Archibugi, dopo Verso sera e Il grande cocomero, torna a questo tema che le é caro, ai bambini e ragazzini che la interessano appassionatamente, con il primo film italiano in concorso alla Mostra, L'albero delle pere (“pere” é inteso nel senso di iniezioni di droga). Domitilla, neppure cinque anni, si graffia per caso con una siringa trovata tra gli oggetti di sua madre Valeria Golino, amorosa e distratta, bella e dannata, il cui slogan nell'uscire inquieto di casa é: Allora, io vado. Siddharta, il fratello adolescente, si allarma, teme che la piccola si sia infettata, ha paura ma non vuole parlarne con la madre per non darle preoccupazione, né vuole parlarne con i padri (il suo, quello della sorellina) Sergio Rubini e Stefano Dionisi, nei quali non ha fiducia: si prende la responsabilità di provvedere agli esami del sangue, di sapere, di trovare un rimedio come fa per tutto nella vita domestica. La morte della madre in uno scontro di automobili aprirà un vuoto immenso nella piccola famiglia, porterà cambiamento e in certo modo restituirà al ragazzino una libertà leggera de la sua età. Siamo alle vacanze di Natale del 1998, e i genitori del film paiono un poco diversamente datati, dislocati a un'epoca anteriore (magari agli ottanta di Piso Pisello di Peter Del Monte), fuori da questo tempo invece così pavidamente ordinato e conformista. Ma Francesca Archibugi sa raccontare come pochi la quotidianità, il linguaggio e i luoghi della gente comune: supermercato, Usl, scuola, l'oscurità domestica dei pomeriggi invernali, le ribellioni filiali repentine ma fiacche (“Se non vuoi che cresciamo, perché ci hai fatti?”), l'autoindulgenza paterna (“Eravamo così giovani...”), l'angustia di vite faticose, affaticate sin dall'infanzia.
Lietta Tornabuoni, La Stampa (05/09/1998)

Vedo in giro qualcuno che fa boccuccia di fronte a L'albero delle pere di Francesca Archibugi. D'accordo, il titolo è brutto: ma lo deplora sullo schermo la stessa protagonista Silvia (la toccante Valeria Golino) perché così ha intitolato il video che su di lei va registrando l'ex marito Massimo (Sergio Rubini), cineasta velleitario. Il problema, comunque, sarebbe che all'interesse dello spunto non corrisponde uno svolgimento impeccabile. Ammettiamolo. E tuttavia mi chiedo: da quante proiezioni del festival si emerge rimescolati dentro, con la sensazione di aver conosciuto gente vera e addirittura con la curiosità di cosa gli succcederà dopo? Che ne sarà del ragazzo Siddharta (Niccolò Senni, una rivelazione), figlio 14enne di Silvia e Massimo, e della sorellina Domitilla (Francesca Di Giovanni), figlia del probo Roberto (Stefano Dionisi) altro “ex”? Per essersi punta con una siringa della madre tossica, la bimba di 5 anni si è beccata l'epatite C: e l'alacre fratellastro si prodiga per fronteggiare la situazione tenendone fuori l'amatissima Silvia. Il seguito potete vederlo al cinema, perché la pellicola è già in prima visione. Tutto si svolge nel quartiere romano del Testaccio, a cavallo delle festività di fine anno, ed è un'occasione per la Archibugi di riproporre un tema a lei caro: il fallimento di una generazione di genitori immaturi, la speranza in un mondo salvato dai ragazzini. Tra i quali Siddharta, ironizzando da solo sul suo nome tributario a una stupida moda d'epoca, prende coscienza di sé alternando lo studio della chitarra alle navigazioni su Internet. Più che la trama avvincono le varie situazioni intonate a quell'intimismo sociale che l'autrice aveva già sperimentato in Il grande cocomero. Non c'era bisogno, per dire la verità, di intromettere il video, di rivisitare Roma dall'alto di un aereoplano o di far sfilare certe manieristiche testimonianze al funerale. Però, rilievi a parte, è giusto inchinarsi ai film che hanno un'anima.
Tullio Kezich, Corriere della Sera (05/09/1998)

Crescere nonostante i genitori: lo slogan che ha accompagnato il film, sulle locandine e sui manifesti, è di impatto ma non rende completamente il percorso compiuto dal protagonista Siddharta, quattordicenne che nel breve periodo delle vacanze di Natale si rende conto non solo dell'inaffidabilità degli adulti che lo circondano, ma anche della necessità di costruirsi una propria autonomia, con la consapevolezza di dover fronteggiare situazioni difficili, lutti, dolori, ipocrisie. 
Il film si incentra sul percorso di crescita del protagonista, che ironicamente si autodefinisce "Buddha da magro", e utilizza l'episodio della siringa e del rischio di infezione per Domitilla come pretesto narrativo che permette a Siddharta di superare la propria linea d'ombra. Ne emerge un ritratto problematico e poliedrico in cui il protagonista è sempre diverso: protettivo, esigente, arrabbiato, duro, tenero, fragile, risoluto, indeciso. 
Il film traduce le discontinuità del protagonista, sempre in movimento sul suo motorino, con ricorrenti inquadrature dall'alto che ne enfatizzano i percorsi labirintici, in una Roma livida e indifferente; oppure con i frequenti cambi di ritmi musicali, ora melodici ora elettrici, che rendono il gioco di sentimenti a un tempo contrapposti e complementari. 
Il senso di spaesamento da un lato e la necessità di organizzarsi in modo autonomo dall'altro derivano anche dalla constatazione di un mondo adulto tendenzialmente immaturo. Appare significativo che nelle relazioni intergenerazionali che tessono i rapporti degli altri personaggi con Siddharta, sia lui a fare l'adulto non solo nei confronti della piccola Domitilla, ma anche nei confronti di Silvia, in un rovesciamento del rapporto genitore-figlio. Viceversa, con le due figure paterne il legame sembra molto meno forte, tra l'indifferenza e la riprovazione per la loro mancanza di coraggio. Il rapporto con la madre è invece molto intenso e umano. Nonostante le manchevolezze e le debolezze di Silvia, il figlio riesce a trovare con lei una capacità comunicativa che sembra fondarsi sull'affetto più profondo, fatto di piccoli gesti e di sentimenti profondi più che di parole. È emblematica, in questa direzione, la sequenza del regalo di Natale, il volo aereo su Roma dolce e triste a un tempo. 
La famiglia di Siddharta appare quindi molto eterogenea e sui generis: a prescindere da ogni riflessione sulla famiglia di fatto o su quella allargata, il film sembra voler sottolineare l'importanza non tanto dei legami di sangue in sé, quanto dei rapporti interpersonali che si vengono a creare, a partire da una effettiva capacità di comunicazione e di coinvolgimento reciproco. Anche se in apparenza i due personaggi femminili sembrano i meno affidabili - per motivi differenti: l'età di Domitilla e i problemi di Silvia -, è proprio con loro che Siddharta ha i rapporti migliori. 
Sullo sfondo appare una società in crisi, tra precarietà lavorativa ed emarginazione, malattie infettive e tossicodipendenza. La droga assunta saltuariamente dalla madre appare però non tanto lo spunto per un'analisi sociologica, quanto l'ennesimo sintomo della debolezza degli adulti, che sembrano aver perso quella carica vitale e quella capacità di affrontare le cose della vita, che invece ritma ogni gesto di Siddharta. Che non a caso, nella simbolica sequenza finale, sceglierà di saltare con un balzo gli ostacoli e defilarsi dai familiari a vantaggio di una coetanea.
Michele Marangi, Aiace Torino


"L'albero delle pere", come la quasi totalità delle opere dell'Archibugi, risulta un'ennesima introspezione psicologica all'interno del nucleo familiare, questa volta però operata con una cognizione differente, forse un po' volutamente anomala. Infatti il nucleo della famiglia protagonista del film si compone essenzialmente di una madre, due fratellastri e due padri; la madre, pur assumendone il significante, in realtà si rivela come una "bambina viziata, viziosa ed insicura", relitto nostalgico e politico dei favolosi anni Settanta che vaga da un buco all'altro, da una relazione più o meno fugace all'altra con indifferenza e senza rispetto per sè stessa e gli altri, mentre le figure paterne in questo caso sono due, uno per ogni figlio, la cui presenza risulta spesso inutile e aggravante di problemi, invece che aiutare e tentare almeno di fornire una retta via alla famiglia (questo particolare un po' antimaschilista rivela la presenza di una donna dietro la macchina da presa).
Il vero "padre" della vicenda risulta così essere il giovane Siddharta, il quale tiene a bada e controlla tutti i membri di questa sgangherata famiglia e si dimostra essere il più adulto tra tutti, dimostrando una grande efficacia organizzativa, ma al tempo stesso la classica insicurezza adolescenziale e l'incertezza sulla strada da prendere; in pratica Siddharta è un eroe, ma non è una divinità, e soprattutto è un essere umano che da solo si trova costreto ad affrontare problemi più grandi di lui, in un mondo in cui gli adulti divengono più ostacoli che ausilio.
Lorenzo Mazzolini

Questa è una storia che appare per certi aspetti irreale, o meglio, fuori da una realtà convenzionale: essa propone una rappresentazione di famiglia che piace per il ritmo e la velocità dei dialoghi ma, allo stesso tempo, disturba proprio in quanto si discosta dal tipo di famiglia comunemente intesa. E’ difficile accettare che a tenere in mano una famiglia sia un figlio adolescente e che i genitori siano assenti oppure inadeguati quando presenti.
Forse non si tratta di irrealtà di organizzazione famigliare, ma le problematiche e il disagio che vengono rappresentati sono particolari e “sovversivi”: è la madre la tossicodipendente contro gli stereotipi che forse vorrebbero il figlio; il padre è un artista perduto attaccato a ideali sessantottini; il figlio potrebbe opporsi, polemizzare, arrabbiarsi o piangere mentre ha una spiccata capacità di controllare e di adattarsi alle difficoltà quotidiane.
Ciò che colpisce è proprio scoprire un genitore adolescente, incapace di rendersi responsabile di fronte al proprio ruolo istituzionale; e un adolescente genitore che è investito di responsabilità che vanno oltre il proprio ruolo. Questa inversione delle parti a tratti appare divertente, ma più spesso apparirà amara. La traccia della storia suggerisce e stimola per chi guarda una nuova trama di regole da giocare.
Il tempo e lo spazio fisico oltre che mentale di Siddharta sono occupati comunemente dal peso della famiglia: se esce con l’amica deve portare con sé anche la sorella; se sta suonando con gli amici deve correre a prendere la madre al bar…
L’adultizzazione di un figlio non è di per sé un fenomeno eccezionale, in questo caso stona con la sua esasperazione che porta Siddharta ad agire in modo autocompensatorio: quando la sorella Domitilla si pungerà con la siringa della madre tossicodipendente (“ci penso io”) Siddharta proteggerà sé e la madre evitano di dire il suo nome.
In genere, i bisogni di protezione e sicurezza, propri di questa età, consistono con i bisogni di indipendenza e realizzazione di sé. In questo caso, la bilancia tra la tendenza a dipendere dagli altri e la spinta dell’autonomia oscilla a favore della prima.
Non a caso, infatti, Siddharta ha per “alter ego” – la voce del computer - che gli ricorda i suoi doveri e sentimenti ma questa volta di adolescente: ti devi alzare…c’è scuola…ti piace quella ragazza? Questa voce si fa sentire come dicesse: “ricordati, Siddharta, ci sei anche tu!”. E’ curioso il paradosso, che questa volta, il Siddharta virtuale sia più reale (vero) del Siddharta in carne e ossa.
Il senso di onnipotenza, la paura di nulla, il bisogno di nessuno che trasmette la mamma Silvia al figlio, mentre volano su un aereo lontani dalla concretezza dei problemi terreni, fanno intuire un Siddharta sempre più preda delle proprie paure e fragilità, sempre più realista.
Nemmeno quando la comunicazione sarebbe spinta dagli eventi (quale l’intervento delle forze dell’ordine) paradossalmente la risposta, questa volta del padre, è: “non ti chiedo niente perché mi fido di te”. Anche Domitilla conferma questa percezione quando dice “se non mi faccio qualcosa nessuno mi chiede niente”; mentre Siddharta dirà: “Non mi resti che tu!”- invocando Dio.
Il paradosso qui è che più si Siddharta dimostra bravo, autonomo, pronto per gli altri, meno gli altri crederanno che lui ha bisogno di loro; più Siddharta mette davanti alle loro responsabilità i genitori, che pure amano i figli ma non riescono a prendersi cura di loro, per questi si scaricheranno colpe e assoluzioni l’un l’altra.
La ricerca dell’altro sembra spinta dall’urgenza del bisogno imminente piuttosto che dal desiderio di incontrarsi per guardarsi dentro e guardare l’altro. Ma chi si avvicinerà con interesse a Siddharta gli farà aprire il cuore.
Chi riuscirà a cogliere i suoi veri bisogni creerà una relazione di sintonia con lui.
La scelta di Siddharta è in quel volo leggero per aria oltre il cancello delle angosce e delle colpe e verso il desiderio di un amore adolescente che lo aspetta.
Silvia Barbaro (Psicologa)

La responsabilità

Nel film sono raccontate le storie di famiglie di un nuovo periodo storico di cui non ne sono ancora stati fissati i valori.
Della famiglia non è stato chiarito che cosa dovrà essere annullato, modificato o strutturato. Sono cambiate le condizioni materiali e sociali e quindi un diverso modo di vivere i bisogni e le relazioni. Le figure genitoriali sono ritagliate in modo impietoso e assai efficace. Non c’è dato conoscere la storia precedente dei personaggi (se non per qualche accenno appena tratteggiato). Difficile non cogliere le carenze di ciascuno di loro. Quello che appare è un quadro in cui mancano l’autonomia adulta, la consapevolezza del sé e dei propri bisogni e quindi la capacità di scelta. Questo narcisismo immaturo produce inadeguatezza e difficoltà ad amare gli altri. E’ un amore incompleto come loro stessi.
Una caratteristica comune sembra essere l’incapacità dei protagonisti adulti ad assumersi responsabilità sulla loro vita e quindi nelle decisioni riguardanti i figli.
Siddharta nella sua immaturità (di diritto) ci mostra invece come ha imparato ad aiutarsi e ad aiutare. Lo fa, suo malgrado, quando deve occuparsi della sorella, questa, è vissuta in un primo tempo con sopportazione e come un compito doveroso, ma ad un certo punto diventa una persona, un “altro” che capisce tutto, anche se è “qualche chilo”. Uscendo dal suo narcisismo, Siddharta entra in una relazione reale, riesce a farsi carico dell’altro, ad aiutare veramente, riesce cioè ad amare da adulto. Nessuno glielo ordina, potrebbe restare quello che è, invece compie un atto maturo: si assume la responsabilità, qualunque cosa accada.
Da qualunque parte la si capovolga, la responsabilità implica sempre una scelta, o la scelta implica sempre una responsabilità. E’ perciò una sofferenza sempre. A qualcosa dobbiamo rinunciare. Solo i bambini, proprio perché pieni di beata onnipotenza, vorrebbero tutto e anche subito.
Ancorata all’età dell’onnipotenza è l’avidità la parte corrispondente nell’adulto. E’ l’elemento che spesso penalizza e paralizza le decisioni o che le fa assumere guardando solo all’immediato senza riflettere sulle conseguenze. Questo vale in molte scelte della vita.
Anche avere figli è bello, ma non è sufficiente solo amarli, è impegnativo allevarli in modo responsabile.
Come mai non occorre nessuna preparazione per compiere un atto di così alta rilevanza sociale? “Ma chi ve l’ha chiesto” chiede Siddharta ai genitori.
Ma torniamo alla scelta, affinché sia vantaggiosa, è implicito un intervento semi automatico che tutti noi facciamo senza rendercene conto: ed è quello relativo all’entrata in contatto con noi stessi e con il nostro bisogno “reale”. Quando questa operazione funziona, possiamo decidere per il meglio e ci sentiamo soddisfatti.
Il problema della responsabilità è quindi riconducibile a quella che abbiamo nei nostri confronti, in altre parole al nostro modo di percepire i bisogni, all’equilibrio e alla dialettica che si forma al nostro interno.
Come facciamo e decidere per noi e per il meglio se non conosciamo bene noi stessi?
Siamo certi che quello che crediamo (o ci dicono) essere i nostri desideri corrispondono ai nostri bisogni?
La nostra dialettica interna funziona in un giusto equilibrio o è distorta?
Sono domande alle quali occorre al più presto cercare di dare una risposta o meglio occorre, porsi il problema, cercar dentro, anche da soli.
Alcuni suggerimenti li posso dare; qualunque età abbiate, sicuramente un po’ d’esperienza di vita l’avrete e di certo alcuni effetti del vostro interagire con il mondo che vi circonda (gli altri) li avrete.
Per ora potrete solo osservare le conseguenze delle vostre dinamiche, (purtroppo parlo sempre di quelle problematiche). Non è difficile, dovrete ascoltare voi stessi, e dopo ogni decisione, valutare il senso d’appagamento o l’insoddisfazione.
Se quest’ultima è frequente e costante vale la pena di riflettere. O ancora se vi accorgete alla fine di ogni storia, amore, amicizia, situazione relazionale in genere, di ritrovarvi con le stesse sensazioni di disagio, confermandovi le stesse avvilenti conclusioni su di voi o sul mondo che vi circonda, bisogna allora ammettersi che nello scambio dialettico interno c’è una discrepanza fra ciò che si voleva ottenere e il risultato ottenuto. C’è qualcosa da rivedere e su cui riflettere.
Negli ultimi fotogrammi del film, Siddharta, salta e vola verso la scelta del suo avvenire, verso i suo bisogni.
Nonostante la drammaticità della storia egli viene a percepirli in modo corretto.
Purtroppo non è sempre così, ma è motivo di speranza (e poi nella trama è liberatorio).
Se ricordate alcuni attimi prima di decidere egli guarda in modo particolare i genitori e la sorella, sta per assumersi la responsabilità per la sua vita. In quella frazione di secondi il suo dialogo interno deve essere stato drammatico ma chiaro.
Quel momento condensato, tutti noi (di una certa età) l’abbiamo vissuto e l’abbiamo chiaro nei ricordi.
A quell’appuntamento, (che poi saranno tanti), è importante arrivarci il prima possibile ed allenati. Ci si allena instaurando da subito una sorta di “politica democratica interiore”. Un dialogo, cioè un dibattito, (anche un conflitto) che non estrometta nessuno o nessuna nostra parte.
La relazione al nostro interno passa attraverso un’educazione; gli strumenti naturalmente sono forniti dall’esterno in un’interazione dinamica e funzionale. I genitori sono i primi responsabili e la scuola come tutti gli ambiti formativi può favorirne il recupero e l’attivazione.
Q questo proposito ricordo del film un particolare interessante e simpatico; Siddharta che si costruisce un genitore ausiliario mediante il computer, con diario e predica incorporate. E’ ciò che gli serve e che manca nella sua pseudo-famiglia alternativa e cioè un genitore che sia tale e che possa a suo tempo diventare una parte interna con la quale poter dialogare in modo corretto.
Mi riferisco per l’esattezza alla “funzione paterna”, e cioè a quella difficile combinazione di dosaggio relazionale in cui questa figura, poi, sia definita e chiara. Un “paterno” affinché sia tale, non è obbligatorio sia svolto da un padre naturale, ma certo che è che non significa essere amico, fratello o madre. Tutti possiamo svolgere questo ruolo, purché quella “funzione” sia chiara e definita.
Anche nella scuola si vivono tante “funzioni”, quella paterna è da rivalutare, purché sia democratica.
Giorgio Minelli (Psicologo e Psicoterapeuta)

ALCUNE RIFLESSIONI PSICOLOGICHE SUL FILM

Sono molte le suggestioni che questo film può suscitare in chi usa la psicologia come chiave di interpretazione della realtà: il destino di questo ragazzino che deve imparare a vivere e, ancor prima, a sopravvivere in un universo di adulti complesso, contraddittorio spesso incomprensibile ci ricorda le vicissitudini che ogni essere umano, in fondo, deve attraversare per diventare grande, adulto fra gli adulti.
La paura, il dolore, la solitudine di Siddharta diventano una sorta di rappresentazione universale della sofferenza e della pena che ogni adolescente deve vivere in questa strana età di passaggio; uno specchio che riflette l’andirivieni adolescenziale fra bisogni emotivi profondi e conquiste evolutive.
Sono, dunque, le tematiche del film che si offrono ad una lettura psicologica; noi preferiamo soffermarci solo su alcuni aspetti del mondo di Siddharta: la relazione fra lui e i suoi genitori, quella con la sorellina, e, ultimo, con gli adulti che incontra nel suo girovagare per aiutarla.

Siddharta alla ricerca della sua identità

Appena, nel film, sentiamo pronunciare il nome di questo tenero e contemporaneamente duro ragazzino del 2000, Siddharta, tutti sorridiamo pensando alla stranezza di questa scelta e di chi l’ha fatta. Le motivazioni, ironiche, ci parlano di un brevissimo innamoramento della madre per il buddismo, sufficiente per chiamare così il figlio.
In realtà il nome ci fa già entrare nell’universo psicologico della madre di Siddharta: quali sogni, quali fantasie devono avere attraversato il cuore e la mente di questa ragazza per dare al proprio bimbo questo nome? Ci deve essere stato, nella madre, una ricerca di assoluto, di onnipotenza, un bisogno di plasmare, con il nome, un destino grandioso per il figlio, un destino di perfezione e felicità. E’ pensare che questa fantasia di onnipotenza non può che essere legata d una percezione già presente nella madre, nonostante la giovane età, di essere una perdente, di sentire il proprio destino come doloroso e fallimentare. Solo la vita di Siddharta può dar senso e valore a quello della madre, che ne diventa il riscatto. Non a caso quando lei, prima di morire, parla del figlio è l’unica a delinearne le caratteristiche positive, ad essere certa della sua sincerità, della autenticità dei suoi sentimenti: quel valore che gli aveva attribuito, con il nome, non è andato disperso evidentemente, ma è diventato piccolo e importante patrimonio trasmesso dalla madre al figlio che forse lo aiuterà, davvero, a vivere una vita migliore.
Le peregrinazioni di Siddharta, ci spingono a considerare il ragazzino, più che un metodo della saggezza buddista, una sorta di piccolo Ulisse che, per trovare se stesso, la propria identità, per potere capire “chi sono io” deve muoversi fra mille pericoli e mille difficoltà: il mondo degli adulti, potenti e deboli, contemporaneamente, non gli offre alcun approdo sicuro, alcuna vicinanza autentica.
Dunque Siddharta è nato da genitori giovani, immaturi, pieni di contraddizioni e paure, pensiamo noi, esaltati dal gioco di avere un bambino, di “fare i grandi” senza alcuna consapevolezza reale di ciò che comporta questa scelta-non scelta. E così ben presto, si capisce dal film, questi due ragazzini si sono lasciati, seguendo orbite esistenziali diverse ma altrettanto incomplete e dolorose.
La madre è diventata (o è rimasta) tossicodipendente: un altro compagno – di buona famiglia ma altrettanto confuso e sofferente – una dolcissima bambina, non sono riusciti, evidentemente a dare significato alla sua vita, a farla scegliere di rinunciare ad una dipendenza che, sappiamo, ha radici psicologiche lontane e profonde.
Il padre ci appare solo e lontano ormai dalla realtà; insegue i propri sogni delusi di far un film, in guerra con i fantasmi dei nemici di tanti anni fa. Nei contatti con Siddharta lo vediamo parlare in maniere confabulatoria, esaltata, incapace di ascoltare il figlio, di riconoscerlo come persona.
E’ in questo contesto che avviene, quasi impercettibile, il dramma che, Siddharta da solo, cercherà di affrontare: la sorellina, Domitilla, si punge con una siringa usata dalla madre, esplorando, come fanno tutti i bambini, nella sua borsetta. Siddharta che accudisce la bambina con una disponibilità che a lui, gli adulti, non riservano, se ne accorge subito e, informato – come tutti i ragazzini – dai media sa che deve sottoporre la bambina ad accertamenti sanitari.
Comincia così la sua odissea.

Siddharta e il mondo degli adulti

Siddharta sa di essere - per la legge degli adulti - ancora un bambino, sottoposto all’autorità - si fa per dire - dei genitori. Sa che se chiedesse aiuto per Domitilla scatterebbero immediatamente indagini e controlli che finirebbero per coinvolgere la madre e crearle ulteriori difficoltà.
Così mente, nasconde, fuorvia tutti gli adulti del “sistema sanitario nazionale” pur di riuscire a verificare se Domitilla è stata contagiata dalla siringa della madre e sapere cosa si può fare per lei. Per Siddharta ogni contatto con il mondo degli adulti è minaccioso, deve difendersi, fuggire alle loro domande, non ci si può fidare di loro neppure quando hanno il volto di una giovane psicologa che pure riesce a scalfire il muro di diffidenza del ragazzino.
Tutto precipita quando Siddharta deve prelevare le analisi che con tanta difficoltà era riuscito a fare: per sfuggire agli adulti che lo inseguono si lancia dalla finestra e viene arrestato.
E’ un momento duro per il ragazzino, viene incolpato di mille colpe, tutti gli sono contro, perfino la sorellina gli viene allontanata perché è un irresponsabile. Ma Siddharta tace, non si difende, non accusa: ha un segreto che lo angoscia, la salute della sorella e non ne può parlare.
Solo con il padre, in automobile, si lascia andare e parla del suo dolore, della sua disperazione.
E’ un momento, potremmo dire, di profonda crisi depressiva: Siddharta si sente invaso da emozioni negative, parla di “schifezze” interiori che si vedono, che non si possono più nascondere. Il mondo interiore di Siddharta è pieno di sofferenza, di rabbia, di paura ma anche di solitudine: nessun adulto importante per lui, lo capisce e lo consola. Il padre, quando Siddharta parla, è già immerso nei suoi pensieri e liquida le inquietudini del figlio con un generico e distratto “mi fido di te”.
E’ importante notare quanto questa frase positiva, in realtà, non possa che avere l’effetto di ricacciare Siddharta nella sua solitudine, negando l’esistenza stessa del suo dolore e obbligandolo a fare quello che ha sempre fatto: cavarsela da solo, andare avanti “come se fosse già grande” e dunque indurirsi per non lasciarsi andare alla disperazione.
La psicologia dell’infanzia ci ha ben spiegato cosa succede ai bambini quando non possono contare sull’”attaccamento” sicuro di almeno un genitore: cercano, come Siddharta, di farcela da soli “adultizzandosi” e non chiedendo più sicurezza e vicinanza ma, al contrario, modellandosi sui bisogni degli adulti, cercando di risolvere, da soli, i problemi che si presentano. Sappiamo, però, che questo percorso evolutivo è ad alto rischio psicopatologico: le carenze sperimentate vanno a ledere la costruzione della personalità, il livello di autostima e fiducia in se stessi, la capacità di instaurare relazioni positive ecc. di compromettere, in poche parole, il destino stesso di una persona.
Così Siddharta ancora bambino ci sembra più responsabile e maturo degli adulti che lo circondano, più saggio e determinato di chi, per età, lo dovrebbe essere: ma il carico emotivo che grava sulle sue spalle è enorme, troppo pesante, in realtà, da sopportare.
Finalmente la madre capisce ciò che nessuno aveva compreso: Siddharta, suo figlio, non è un bugiardo, se ha fatto quelle cose un motivo ci deve essere.
La madre, dunque, per una frazione di tempo breve ma importante e guarda il figlio e lo vede, nel senso profondo del termine: riconosce la sua pena, la sua sofferenza e ristabilisce con lui un contatto emotivo. Riconosce, forse per la prima volta, tutto il disagio e le mancanze che il bambino ha dovuto subire così come ammette la sua grave responsabilità nel contagio della bambina: la madre per i suoi figli cercherà, senza riuscirci, di riscattare la sua vita, di cambiare per loro.
Tenterà una insopportabile disintossicazione ma l’oppressione di chi la circonda, la insopportabilità - presumibilmente- dei sensi di colpa e chissà quante altre cose, la spingono nuovamente a cercare ciò che le consente di trovare un po’ di pace: la droga. E di morirne.

Siddharta e Domitilla

Il rapporto di Siddharta con Domitilla rappresenta, senz’altro, la parte più tenera e delicata del film. Il legame fra il ragazzino e la bambina, viene tratteggiato con moltissima sensibilità: è un vincolo affettivo profondo, intenso, sottratto al mondo degli adulti e, dunque, libero da qualunque condizionamento. La fiducia di Domitilla nei confronti del fratello è assoluta, con lui si sente protetta, sicura.
E Siddharta conosce Domitilla come nessun altro, neppure la madre. Riconosce le paure della bambina, si rende conto che “non le sfugge niente”, “non la si può imbrogliare”, “capisce tutto, anche se non dice nulla”. E con lui la bambina si lascia andare ai suoi pensieri sulla morte, al suo malessere “mi scoppia la testa”, al suo bisogno di avere la mamma accanto a sé.
E’ nel rapporto con Domitilla che Siddharta - finalmente- può riconoscere anche le proprie paure, le proprie debolezze. Parlando della sorella lascia affiorare il dolore, riesce a rinunciare alla corazza che gli permette di affrontare, senza soccombere, la durezza della vita e piange come non ha mai fatto in nessun altro momento del film tollerando la propria vulnerabilità.
Sappiamo che la relazione fra fratelli è qualcosa di speciale, carica di elementi di identificazioni reciproca: ogni fratello/sorella si specchia nell’altro, riconosce i tratti di uguaglianza ma anche di diversità. E’ nel rapporto fra i fratelli vi è posto per la protezione, l’aiuto, il sostegno reciproco e, quando il divario di età è notevole, il farsi carico del più piccolo da parte del fratello/sorella maggiore. Soprattutto quando i genitori sono in difficoltà nell’accudire adeguatamente i figli, per mille diversi motivi (separazione, morti, malattie, tossicodipendenze, conflittualità gravi ecc.), i fratelli possono svolgere, almeno in parte, funzioni genitoriali sostitutive e, dunque, avere un ruolo decisivo nella crescita psicologica di ciascuno.
E’ questa la funzione che Siddharta svolge per Domitilla: in un universo di adulti fragili, confusi, contradditori, il fratello diventa per la bimba l’unico punto di riferimento stabile e sicuro, una sorta di stella polare che la guida nella sua crescita. E gli adulti, pur nella loro ambiguità, riconoscono a Siddharta il ruolo che riveste per Domitilla: lui “sa come prenderla” e ancora una volta sarà lui a dirle che la madre è morta, a trovare le parole che loro non sanno trovare.
Ma finalmente, nella conclusione del film, Siddharta riesce a trovare la forza di spezzare quel processo di adultizzazione che lo inchioda e gli impedisce di occuparsi di sé.
All’uscita della scuola di fronte ai due “padri” che con Domitilla lo aspettano, Siddharta riuscirà, per la prima volta, a sottrarsi e a perseguire il suo sogno d’amore con la compagna di scuola che, finalmente, si è accorta di lui. L’adolescenza, per fortuna, arriva sempre!
Ornella Vinello (Psicologa – Psicoterapeuta)

Il Fischio al naso - Ugo Tognazzi (1967)

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TITULO ORIGINAL Il Fischio al naso
AÑO 1966
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DIRECCION Ugo Tognazzi
ARGUMENTO Cuento "Sette Piani" de Dino Buzzati
GUION Rafael Azcona, Giulio Scarnicci, Renzo Tarabusi, Alfredo Pigna, Ugo Tognazzi
FOTOGRAFIA Enzo Serafin
MONTAJE Eraldo Da Roma
MUSICA Teo Usuelli
REPARTO Ugo Tognazzi (Giuseppe Inzerna), Olga Villi (Anita, sua moglie), Alicia Brandet (Gloria, sua figlia), Franca Bettoja (Giovanna, amante di Giuseppe), Tina Louise (doft. Immer Meher), Gigi Ballista (il dott. Claretta), Marco Ferreri (il dott. Salamoia), Riccardo Garrone (il barbiere), Alessandro Quasimodo (Roberto Forges), Gildo Tognazzi (Gerolamo Inzerna, padre di Giuseppe), Cristina D'Avanzo (una teenager), Federico Valli, Cesare Gelli, Genny Folchi, Janine Reynaud, Ermelinda De Felice, Anna Maria Aveta, George Wallis, Renato Nicolai.
PRODUCCION Alfonso Sansone y Enrico Chroscicki para Sancro International
GENERO Drama

SINOPSIS L'industriale Giuseppe Inzerna è afflitto da un sibilo alle vie respiratorie. Niente di patologico, soltanto un banale fastidio. Trovandosi per affari in una lussuosa clinica privata viene convinto al ricovero per eliminare l'inconveniente. In seguito ad analisi ed esami gli vengono però riscontrati altri mali le cui cure fanno peggiorare sempre più la sua salute. Le condizioni di Inzerna peggiorano così sempre più finché il malcapitato finisce nella corsia dei malati terminali. (Film Scoop)

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Trama
L'industriale Giuseppe Inzerna, afflitto da un fastidioso sibilo alle vie respiratorie, trovandosi per affari nella clinica Salus Bank viene sottoposto - alquanto di malavoglia - ad esami, analisi e prime cure. Il fischio al naso scompare ma si manifestano altri sintomi. Inzerna rifiuta di considerarsi malato e tuttavia ha paura di tornarsene a casa contro il parere dei medici, i quali, ora con una scusa ora con un altra, lo fanno salire di piano in piano, ed ognuno di questi rappresenta il successivo stadio di aggravamento del male. Inzerna è sempre più solo e indifeso (malgrado che Giovanna, l'amante, lo abbia raggiunto nella clinica), poiché i suoi familiari sembrano ben contenti di tenerlo a distanza: infatti la moglie Anita si diverte con Bertino, un debitore di Giuseppe; la figlia Gloria è scappata all'estero con un suo amico e il vecchio padre ha ripreso incautamente le redini dell'azienda. Fallito un tentativo di fuga dalla clinica, Inzerna passa in stanze sempre più disadorne con un personale che lo tratta sempre più duramente; finché, giunto al settimo ed ultimo piano della clinica, il suo stato di salute declina sempre di più e muore.

Recensioni
Il film (...) parte da posizioni di notevole qualificazione culturale (...) (e) riesce a mantenere la linea di Buzzati (...) legandola alla attualità contemporanea, con uno svolgimento abbastanza sciolto e disinvolto (...). Ha (...) il pregio di una interpretazione - da parte di Tognazzi - misurata e attenta, come di rado accade a un attore che dirige se stesso (....). (Giacomo Gambetti, "Film Mese", 4, aprile 1967)

Ugo Tognazzi è alla sua prima vera regia e trae il soggetto di base dal racconto di Dino Buzzati "Sette piani" trasposto in teatro dallo stesso autore con il titolo "Un caso clinico". Se il grande scrittore, decidendo di far sentire al suo protagonista delle 'voci', trasferiva immediatamente il racconto sul piano della metafora (la clinica come la vita in cui si entra da 'sani' e ci si avvia, sempre autoconvinti di 'stare bene', verso la morte) Tognazzi imbastisce un'operazione diversa. L'avere tra gli sceneggiatori Azcona (uno degli sceneggiatori per eccellenza di Marco Ferreri) e lo stesso regista come interprete ironicamente sorridente nel ruolo del dottor Salamoia, gli fa prendere la direzione di un'amara satira nei confronti della tecnologia applicata alla salute per la quale gli uomini non sono altro che dei numeri (il 515 appeso al collo di Inzerna in qualsiasi piano si trovi). 
Tognazzi non rinuncia poi (e come potrebbe?) alla carnalità del suo protagonista che imprigiona in una clinica di lusso in cui le infermiere sembrano delle modelle e dove riesce a far ricoverare anche l'amante (una luminosa Franca Bettola). Non manca poi, con accenti davvero ferreriani, la critica a una borghesia incapace di fare veri e propri passi avanti verso un capitalismo dal volto umano (si veda in proposito l'evoluzione del personaggio del padre). 
Nel complesso un intelligente rilettura di uno dei piccoli capolavori di un genere letterario che da noi ha sempre fatto fatica ad affermarsi: il racconto.

Tognazzi il cinico
La carriera di Tognazzi può essere vista come la sequenza di due periodi ben distinti. Nel primo periodo, che dura quasi dieci anni, porta sullo schermo una comicità giovialmente farsesca, genialmente sopra le righe, positivamente "macchiettistica", mood che viene accentuato dal sodalizio artistico con Raimondo Vianello, con il quale l'attore fa coppia fissa in numerosi lavori cinematografici (consiglio Psycosissimo) e non solo. Il secondo periodo, che inizia con l'incontro con Salce, lo vede invece impegnato in pellicole socialmente urticanti, caustiche commedie, farse grottesche e cattive (tra cui Il federale, La voglia matta, I Mostri, L’ape regina, La donna scimmia). Storicizzando questa scelta, potrebbe sembrare un suicidio artistico, per un attore che, gigioneggiando tra tanti ruoli di ingenuo si era costruito una maschera apprezzata e commercialmente fruttuosa, passa d'improvviso a ruoli così poco politically correct (ma sicuramente meno ipocriti e più sinceri di altri edulcorati ritratti umani). Va invece apprezzato (specie col senno di poi) il coraggio di un artista che non si è riposato sugli allori, che ha cercato nuovi stimoli e un nuovo approccio al suo lavoro, mettendosi in gioco e rischiando in prima persona, ma regalandoci ritratti italiani di spietata sincerità. E per il suo esordio come regista, Tognazzi sceglie proprio questa commedia cinica, che prende spunto dal racconto "Sette piani" di Dino Buzzati, dal quale l'autore trasse "Un caso clinico", messo in scena nel 1953 al Piccolo Teatro di Milano. Il borghese insoddisfatto Inzerna è un personaggio cinico e sfruttatore, dalla mentalità imprenditoriale consumistica e quasi "immorale". E la sua famiglia non è da meno: quando viene ricoverato e la sua condizione fisica peggiora di giorno in giorno (e di piano in piano), i suoi familiari sembrano ben contenti di tenerlo a distanza... La moglie Anita si diverte "amabilmente" con Bertino, un debitore di Giuseppe; la figlia Gloria scappa all'estero con un suo amico (con cui combina "il guaio") e il vecchio padre riprende incautamente le redini dell'azienda, ritrovando una vitalità che aveva perso. Il cast del film è composto da amici e famiglia di Tognazzi: Franca Bettoja è sua amante nel film e sua moglie nella vita; Gildo Tognazzi è suo padre sia sullo schermo sia nella realtà; Marco Ferreri, tra i registi più corrosivi del panorama italiano, interpreta uno dei tanti dottori della Salus Bank. Ma su tutti troneggia Ugo Tognazzi, che con una performance mai sopra le righe, ma sempre asciutta e controllata, comunica, dall'ironia all'amarezza, tutte le sfumature possibili del suo personaggio. Un film da riscoprire.

Il racconto "I sette piani" di Dino Buzzati

Nella novella I sette piani Giuseppe Conte, sofferente di una leggerissima forma di una certa malattia, viene ricoverato all'ultimo piano di una clinica, costruita su sette livelli, a seconda della gravità del paziente. Una volta disceso un piano l’uomo non può più ritornare al livello superiore; di piano in piano Conte si avvicina al termine dei suoi giorni. Un «implacabile peso» l'opprime infine quando, giunto al primo piano dello stabile; il buio piomba sulla sua stanza, tutto sembra piegarsi a «un misterioso comando» e, inesorabilmente, cala il sipario.

La casa di cura, in cui ha luogo questa metaforica discesa rappresenta la provvisorietà della vita umana. Man mano che l’uomo guadagna consapevolezza di questa caducità, sente crescere dentro di sé il disagio della solitudine. Egli comincia a pensare che quest’ultima condizione sia causata dal suo allontanamento dal «mondo della gente normale», dove tutti sanno esattamente che cosa fare e soprattutto cosa si è obbligati a fare, dove esistono regole ben precise che non si possono infrangere. Il protagonista scivola velocemente nella disperazione man mano che la barriera tra lui e quel mondo si erige sempre più alta. «Egli cercava di persuadersi di appartenere ancora al consorzio degli uomini sani» .. Ma esiste una definizione inconfutabile di normalità? Esiste veramente una condizione comune in cui tutti possano sentirsi a proprio agio soltanto perché questa assicura il riconoscimento da parte della collettività?

La figura di Conte è emblematica dell’uomo che non si concentra sulla malattia, cerca fuori di sé la guarigione, invece di guardare dentro la propria anima per ritrovarsi. L’ansia di tornare a far parte della comunità dei normali al più presto aggrava la sua patologia e gli impedisce di incontrare la sua dimensione più profonda, dove risiede la sua salute.
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NOTE:
- Quadri e sculture provenienti dalle Gallerie "OBELISCO" E "NUOVA PESCA".
- Premio Grolla D'Oro a Ugo Tognazzi.
- Presentato al XVII Festival di Berlino (1967).
- Secondo alcune fonti, alla stesura della sceneggiatura avrebbe partecipato anche lo scrittore Rafael Azcona, a quel tempo assiduo collaboratore di Marco Ferreri.


Trama  
L'industriale Giuseppe Inzerna, arricchitosi con un geniale sfruttamento della carta, si trova all'apice di una carriera brillante: l'unico fastidio gli è procurato da un fischio che egli involontariamente emette dal naso. Giuseppe è riluttante a seguire I consigli della moglie, che vorrebbe per lui un completo controllo sanitario. Ma un giorno, trovatosi per affari nella clinica Salus Bank, si lascia convincere a sottoporsi ad alcuni esami: invogliato anche dal trattamento di riguardo che gli riserva il personale della clinica. Il tempo passa, ed egli, alle prese con esami, radiografie e "test" di ogni genere, è sempre nella clinica, persuaso anche dall'assistenza di una bellissima dottoressa e intimidito dai medici che non lo autorizzano a tornare a casa; d'altra parte l'industriale può ricevere in clinica anche il consiglio d'amministrazione, la moglie e perfino l'amante (che viene sistemata in un appartamento contiguo). A mano a mano che gli esami procedono, rivelando sempre nuovi sintomi e nuove malattie, il malato viene trasferito dal piano terra al primo piano e poi al secondo e così via: trovando sempre appartamenti confortevoli, ma dotati di finestre progressivamente sempre più piccole. Approfittando della sua assenza, intanto, il padre di Giuseppe ha preso in mano, sconsideratamente, le redini dell'azienda; la moglie Anita se la spassa con un debitore del marito; la figlia Gloria se ne va all'estero con un amico e ritorna incinta. Ad un certo punto, al quinto piano, in onore del malato viene addirittura organizzata una festa, nel corso della quale la bella dottoressa, dopo essersi abbandonata tra le sue braccia, lo convince ad accettare il trasferimento al piano superiore, l'ultimo. Qui, col consenso dei familiari, il malato deve subire una cura di ibernazione. Al risveglio, I danni della salute di Giuseppe sono ormai evidenti: ma ormai non importa più, il personale della clinica lo prepara, al settimo piano, con tinture e lozioni, all'inevitabile, prossimo decesso.

Critica  
A sei anni da "Il mantenuto", Tognazzi tenta nuovamente la strada della regia cinematografica, ispirando il soggetto a un racconto di Buzzati e partecipando personalmente al lavoro di riduzione e sceneggiatura svolto assieme alla stessa coppia, Scarnicci e Tarabusi, che aveva impostato "Il mantenuto". Questa volta all'autore le ambizioni non mancano («Con la descrizione di questa industria della malattia, ho voluto rendere la degenerazione che porta la società dei consumi anche nella scienza, cioè in quella parte della società che dovrebbe invece conservare l'uomo nella sua integrità fisica e psicologica»). Dopo aver protestato per l'esclusione del suo film dal festival di Cannes, Tognazzi riesce a portarlo a Berlino. Per "Il fischio al naso" (e per "L'immorale" di Germi) vince anche la "Grolla d'oro" di Saint Vincent per la miglior interpretazione maschile (perché, «con un progressivo affinamento, ha creato personaggi d'approfondito naso, che hanno dato prestigio ai due film»). La critica, tutta via, in maggioranza, mostra di apprezzare più il lavoro dell'attore che quello del regista. Per giustificare certi scompensi, all'epoca della lavorazione Tognazzi dichiarò: «Avrei voluto fare un film ancora più coraggioso, ma a un certo punto ho dovuto arrendermi, dando retta a una produzione che preferiva un prodotto "sicuro". [...] Il mio intento, realizzato solo in parte, era di applicare una sorta di umanismo nero a cose drammatiche, sgradevoli, vere della vita». L 'autocritica dell'autore arrivò solo fino a un certo punto; se è vero che egli, anni dopo (net 1972) affermò di ritenere "Il fischio al naso"«in senso assoluto il miglior film diretto da un attore italiano. Rivedere per scrivere. L'unico che non schiaccia l'occhio a nessuno. L'unico senza compromessi.» 
  
«[...] [Dopo "Il mantenuto"], l'attore cremonese è venuto affermandosi attraverso prestazioni di progressiva, incontestabile maturità: da un lato abbandonando finalmente con un taglio netto quell'interminabile succedersi di commedie volgari, che resta forse il dato più umiliante nell'intera storia del film italiano [...], dall'altro passando via via per le mani di sempre più qualificati registi, Salce, Risi, Gregoretti, Lizzani, Zampa, Pietrangeli, e pervenendo soprattutto, nel contempo, alla solida e insostituibile collaborazione con Marco Ferreri. [...] Senza voler in nulla sminuire i meriti di Tognazzi [...] è anzitutto interessante rilevare che il nostro cinema dà finalmente, attraverso questo film e, per altro verso, anche con "L'immorale" di Germi, le prime prove di aver recepito se non assimilato, dopo un quinquennio di sua attività italiana, l'insegnamento di Marco Ferreri. [...] Entro certi limiti, Tognazzi è riuscito dove ha fallito Germi, nel quale forse il sovrapporsi alla tematica personale di termini del discorso ferreriano non è stato avvertito con sufficiente nitidezza. [...]».
Nuccio Lodato, Civiltà dell 'Immagine, Bologna, n. 3, giugno 1967, pp. 58-59. 
  
«[...] Incerto fra Buzzati, Kafka e Evelyn Waugh, il ricordo del Caro estinto è vivo nella seconda parte, cioè fra allegoria, incubo e satira contemporanea, Tognazzi finisce per combinare un'opera confusa nel significato ultimo e sempre a rischio di perdersi per troppe strade diverse. Ciò nulla toglie all'efficienza complessiva dell'impianto spettacolare e alla sensibilità di interprete di Tognazzi, ad una prova d'attore non facile. [...]».
Ernesto G. Laura, Bianco e Nero, Roma, n. 7/8/9, luglio-agosto-settembre 1967, p. 167. 
  
«[...] Opera tra grottesca e crudele, "Il fischio al naso" restituisce a sufficienza il senso d'impotenza della condizione umana, presa nella inestricabile rete del destino: e al tempo stesso, toccando motivi più realistici, è una satira serrata di certi sistemi delle cliniche moderne (la citazione del Caro estinto è quasi d'obbligo). Tognazzi, naturalmente, come Gassman fa la parte del leone, ma sa controllare molto bene la sua abituale esuberanza di interprete: anzi, le sequenze del Tognazzi ormai rassegnato e quasi assente sono fra le migliori. [...]».
Angelo Solmi, Oggi, Milano, 25 maggio 1967. 
  
«[...] Tognazzi attore batte, di molte larghezze, il Tognazzi regista. Poco male: un bravo attore vale assai di più che un mediocre, o anche un discreto regista. Se potremo avere anche il secondo, tanto meglio (e una prima prova non può essere lasciata senza appello). Se no teniamoci ben stretto il primo, perché su di lui, e giustamente, il cinema italiano fa motto affidamento».
Paolo Valmarana, Il Popolo, Roma, 22 aprile 1967.
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Dopo sei anni dal primo lungometraggio di Ugo Tognazzi (“Il mantenuto” 1961), l’Italia che egli ritrae con sarcasmo ne II fischio al naso (1967) ha compiuto passi avanti in nome del consumismo come modello di sviluppo economico. L’attore – regista veste i panni del proprietario di una cartiera, il cui motto è consumare e distruggere. Enuncia il suo principio cardine a una delegazione di funzionari del terzo mondo, ai quali si rivolge coniugando i verbi all’infinito: «Più consumare, più produrre. Più produrre, più lavorare. Più lavorare, più arricchire. Più arricchire, più consumare. Questo essere mio imperativo economico. Mio prodotto essere funzionale ma adoperare una sola volta. Poi buttare, distruggere. Questa distruzione garantire meraviglioso rinnovarsi della domanda».
L’industriale è in conflitto con il padre, fondatore della cartiera, che contesta il materialismo in nome dei valori spirituali e, se fosse per lui, produrrebbe solo santini e immagini sacre. Nonostante si professi fautore della modernizzazione, anche Tognazzi stenta però a stare al passo coi tempi: vive in una casa concepita all’insegna del razionalismo, si circonda di tecnologia, ma non conosce le lingue e si trova così molto indietro rispetto alla moglie (Olga Villi) e alla figlia. L’emancipazione femminile comporta maggiore libertà anche nei costumi sessuali: quando la figlia resta incinta, in famiglia non se ne fa un dramma e ci si limita a mandarla ad abortire fuori dall’Italia. La crisi per Tognazzi arriva invece con un leggero disturbo: il fischio al naso che dà il titolo al film. L’uomo si ricovera in una clinica di lusso che si rivela via via una struttura sempre più claustrofobica e fatale, nella quale rimarrà imprigionato fino alla sua morte. Tra gli sceneggiatori, oltre a Tognazzi e a Scarnicci e Tarabusi, è da notare la collaborazione di Alfredo Pigna, ma, soprattutto di Raphael Azcona, il partner abituale di Marco Ferreri (che appare nel film nei panni di un dottore). È proprio Azcona ad orientare la storia verso una direzione metaforico – esistenziale che si allontana dai toni consueti della commedia, dandogli un’aria grottesca e cupa; mentre gli altri autori della commedia italiana  puntano la sanità come specchio di malcostume, “Il medico della mutua” di Zampa uscirà a breve, Tognazzi preferisce trarne il pretesto per una storia surreale e dai toni kafkiani.
Tratto dal racconto di Dino Buzzati “Sette piani”, la scenografia è curata alla perfezione per dare un’aria di razionalità spietata e agonizzante, coerente con la fonte letteraria. Dalla critica è ritenuto forse in miglior film di Tognazzi nei panni di regista. Gran parte del film e questa è un’invenzione che obbedisce alle frequenti dichiarazioni anticapitalistiche di Tognazzi, è occupata dalla fabbrichetta, nata come produttrice di santini e calendari religiosi, diventata poi una grande fabbrica per la produzione di articoli di carta usa e getta, con il principio che occorre produrre per consumare e consumare per distruggere e di nuovo produrre.
Agli antipodi è la Salus Bank, la super clinica di lusso che si manifesta una costosa catena di smontaggio dei propri clienti, che non sono malati (recita un giudizioso cartello della clinica: «Non si muore che in un momento di distrazione») bensì ospiti, e in quanto tali almeno inizialmente vengono trattati come clienti privilegiati. In questo non luogo, dominano speculazione e menzogna,  ma regna soprattutto il senso del potere, da cui è impossibile sfuggire anche per il protagonista, che è ricco e che si ritiene potente a sua volta. L’industriale Giuseppe Inzerna è convinto di poter dominare tutto, persino il casello dell’autostrada, su cui spara nell’incipit per non pagare il pedaggio. Appena ricoverato nella superclinica per la supposta malattia (un fastidioso «fischietto al naso») si trova progressivamente isolato. Ma nonostante le insofferenze, le proteste e tentati esposti al Ministero della Sanità, Inzerna è un vinto in partenza, un predestinato: non può opporsi ai successivi trasferimenti di piano in piano, quindi alla progressiva morte. Man mano che procede verso l’alto, dove sorvola un elicottero destinato all’ultimo “trasporto” del “caro estinto”, il suo destino si compie. Secondo il motivo musicale che fa da leitmotiv al film, una vecchia “conta” lombarda «Auiliulè, che taprofit a lusinghé, tulilemblemblù, tulilemblemblà…»  non v’è niente di più giusto del motto «Oggi tocca a me, domani tocca a te, non si sa perché» e questa volta tocca a Inzerna, colpevole della sua presunzione, della sua arroganza o forse solo della vicenda che gli è toccata: l’uomo non riesce a sottrarsi come vittima  alla società dei consumi.
Michela Silenzi
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Intelligente rilettura di un bel racconto di Buzzati
Il signor Inzerna è il titolare di una fabbrica ben avviata nel settore della carta. Un giorno un fastidioso sibilo che esce dal naso lo spinge a fare dei controlli di routine alla clinica Salus Bank dove viene ricoverato al primo piano; da lì ha inizio la sua 'irresistibile ascesa'. Per motivi di vario tipo verrà infatti progressivamente trasferito ai piani più alti dove si trovano degenti sempre più gravi.
Ugo Tognazzi è alla sua prima vera regia e trae il soggetto di base dal racconto di Dino Buzzati "Sette piani" trasposto in teatro dallo stesso autore con il titolo "Un caso clinico". Se il grande scrittore, decidendo di far sentire al suo protagonista delle 'voci', trasferiva immediatamente il racconto sul piano della metafora (la clinica come la vita in cui si entra da 'sani' e ci si avvia, sempre autoconvinti di 'stare bene', verso la morte) Tognazzi imbastisce un'operazione diversa. L'avere tra gli sceneggiatori Azcona (uno degli sceneggiatori per eccellenza di Marco Ferreri) e lo stesso regista come interprete ironicamente sorridente nel ruolo del dottor Salamoia, gli fa prendere la direzione di un'amara satira nei confronti della tecnologia applicata alla salute per la quale gli uomini non sono altro che dei numeri (il 515 appeso al collo di Inzerna in qualsiasi piano si trovi). 
Tognazzi non rinuncia poi (e come potrebbe?) alla carnalità del suo protagonista che imprigiona in una clinica di lusso in cui le infermiere sembrano delle modelle e dove riesce a far ricoverare anche l'amante (una luminosa Franca Bettola). Non manca poi, con accenti davvero ferreriani, la critica a una borghesia incapace di fare veri e propri passi avanti verso un capitalismo dal volto umano (si veda in proposito l'evoluzione del personaggio del padre). 
Nel complesso un intelligente rilettura di uno dei piccoli capolavori di un genere letterario che da noi ha sempre fatto fatica ad affermarsi: il racconto.
Giancarlo Zappoli 

Condottieri - Luis Trenker (1937)

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TITULO ORIGINAL Condottieri
AÑO 1937
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Inglés (Separados)
DURACION 87 min.
DIRECCION Luigi Trenker
COLABORACION (Dirección) Giacomo Gentilomo, Anton Giulio Maiano
ASISTENTE DE DIRECCION Alberto Mondadori
ARGUMENTO Luigi Trenker
GUION Kurt Heuser, Mirko Jesulick, Luis (Luigi) Trenker
PRODUCCION ENIC. Consorzio CONDOTTIERI; colaboración Tobis-Cinema-Film, Berlin (Alemania).
DIRECTOR DE PRODUCCION Nino Ottavi
REPARTO Luigi Trenker, Loris Gizzi, Tullia Delle Grazie, Laura Nucci, Maria Salviati, Carla Sveva, Caterina Sforza, Ethel Maggi, Giulio Cirino , Sandro Dani, Mario Ferrari, Tito Gobbi, Augusto Marcacci, Nino Marchesini, Ernesto Nannicini, Umberto Sacripante, Carlo Tamberlani, Gino Viotti, Carlo Duse y unidad de las FUerzas Armadas del Estado (400 infantes y 300 cavalieri)
FOTOGRAFIA Carlo Montuori, Walter Hege, Klaus von Rautenfeld
OPERADOR Ernst Bauman
MUSICA Giuseppe Becce
MONTAJE Giorgio C. Simonelli
ESCENOGRAFIA Virgilio Marchi
VESTUARIO Virgilio Marchi (su bozzetti di Herbert Ploberger)
GENERO Histórico

SINOPSIS Giuliano de’ Medici rientra dall’esilio patito con la madre, Caterina Sforza. Subito dà vita alle Bande Nere e pone i suoi sforzi non più al servizio dello straniero ma della sua idea di una Italia unita. processato e nuovamente esiliato ritorna al seguito del duca di Argentière e marcia su Roma. Qui, si prostra ai piedi del pontefice; D’Argentère e il Malatesta allora, gli muovono guerra. Giuliano li sconfigge sacrificando la vita.

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Critica 
"(....) Questa storia abbastanza complicata, non è narrata con chiarezza e nemmeno con molto vigore. In compenso è espressa attraverso una fotografia splendida che fa il più grande onore al nostro Carlo Montuori. Le masse sono manovrate con abilità e con senso pittorico, lo stesso senso che ha ispirato la scelta di alcuni tipi secondari bellissimi. (...) Lo spartito del maestro Becce è poco indovinato, troppo sentimentale per lo stile del film, è completamente anacronistico col tempo del dramma (...)". (Guglielmina Setti, "Il Lavoro", 5/10/1937).

Note 
IL FILM E' STATO PRESENTATO ALLA MOSTRA DI VENEZIA DEL 1937 ED HA VINTO LA COPPA DELLA DIREZIONE GENERALE DELLO SPETTACOLO. 
ESISTE ANCHE UNA VERSIONE TEDESCA IN CUI ACCANTO AL TRENKER REGISTA FU AFFIANCATO WERNER KLINGER.
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Trama
Il film prende le mosse dalla discesa del protagonista dalle montagne: ritorna dall'esilio in cui aveva seguito la madre Caterina Sforza e decide di arruolarsi nella milizia del casato Malatesta, per il quale diviene capitano di ventura.
Ma il suo ideale di unità e libertà dell'Italia lo induce a istituire una propria milizia nazionale cui viene dato il nome di Bande Nere. Condannato dai signori di Firenze che lo bollano come traditore e sciolgono le sue bande, Giovanni - divenuto nel frattempo Giovanni dalle Bande Nere - viene liberato da uomini a lui fedeli riuscendo a riparare in Francia.
Rientrato a Firenze al soldo del Duca d'Argentière, riesce a ricostituire le Bande Nere e a marciare su Roma, dove pure si sottometterà al Pontefice, andando poi sposo alla fanciulla amata.
Ma la sua vita eroica è destinata a concludersi tragicamente: Malatesta e il Duca d'Argentière gli dichiarano guerra. Nello scontro decisivo il condottiero riuscirà con un gesto d'eroismo a conquistare la vittoria, sia pure a prezzo della vita.

Caratteristiche
Diverse sono le spettacolari sequenze d'azione, con utilizzo di masse sceniche e soldati a cavallo in quantità, particolarmente in apertura e chiusura della pellicola. Per seguire una coerenza stilistica e storica che non fosse solo formale la produzione si avvalse della consulenza militare del tenente colonnello Enrico Pezzi il quale poté contare per l'organizzazione delle scene belliche su unità delle Forze Armate di Stato.
Girato in pieno ventennio, il film viene annoverato nel cinema di propaganda fascista: oltre al contributo dello stato nella sua realizzazione tecnica, contiene infatti espliciti riferimenti - quasi un palese omaggio - allo squadrismo di Benito Mussolini e alla mitologia delle camicie nere della rivoluzione fascista.
Primo film frutto della collaborazione italo-tedesca, venne presentato alla 5ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia dove si aggiudicò la Coppa della Direzione Generale riservata, riconoscimento riservato al film "a soggetto, che abbia meglio interpretato bellezze naturali e artistiche".

Luoghi delle riprese
Le riprese si svolsero dal 3 agosto 1936 al febbraio 1937 e la prima italiana del film si ebbe a Roma il 30 giugno 1937; il 15 agosto seguente fu presentato alla Biennale di Venezia.
Il film ebbe diverse location: gli interni furono girati negli studi della Cines, a Roma, e in quelli della Tobis Cinema-Film A.G., a Berlino, Germania, mentre per gli esterni vennero scelte diverse ambientazioni: al castello di Torrechiara, a Torrechiara, frazione di Langhirano (provincia di Parma), e al castello di Gradara (provincia di Pesaro e Urbino), a Sassolungo, Gruppo del Sella e Marmolada (Dolomiti), Colle Santa Lucia (provincia di Belluno), Arco e Riva del Garda, (lago di Garda, provincia di Trento), Verona, San Gimignano, Firenze, Venezia, Padova.


Note
1. La consulenza militare é del tenente colonnello Enrico Pezzi. Il film é stato realizzato con il concorso di unità delle Forze Armate di Stato.

2. Interni: studi Cines, Roma; studi Tobis, Berlino-Grunewald; studi Ufa, Neubabelsberg
Esterni: Sassolungo, Gruppo del Sella e Marmolada (Dolomiti), Colle Santa Lucia (Belluno), Arco e Riva del Garda, (lago di Garda), castello di Gradara (Pesaro), castello di Torrechiara (Parma), Verona, San Giminiano, Firenze, Venezia, Padova, Roma

3. Questo é il primo film frutto “ufficiale” della collaborazione italo-tedesca. Presentato a Venezia nello stesso anno, vince la Coppa della Direzione Generale riservata al film  ” a soggetto, che abbia meglio interpretato bellezze naturali e artistiche”.  Per l’edizione tedesca, Werner Klinger firma la regia con Trenker.

4. Prima rappresentazione: 30 giugno 1937, Supercinema-Galapreview Roma; 15 agosto 1937, Biennale di Venezia.

5. Dalla critica dell’epoca: “ L’interesse che Trenker porta alle singole riprese, gli fa perdere di vista l’unità assoluta che deve presiedere al film. E la storia di Giovanni appare qui più un mosaico di bei episodi che non una vera storia. Fra questi episodi alcuni sono di grande effetto. Citiamo quello della chiamata alle armi del popolo e quello della carica di cavalleria nella battaglia finale (…) indubbiamente superiore per intensità emotiva e per profondo contenuto spettacolare a quelle ìpiù famose anche degli ultimi tempi. Anche le scene dell’assedio sono perfettamente riuscite sia per movimento che per efficacia espressiva. ” (Anonimo, dalla Mostra di Venezia, in Bianco e Nero , settembre 1937).
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