Quantcast
Channel: El Cine Italiano
Viewing all 514 articles
Browse latest View live

Io so chi sono (y otros cortos) - Simone Massi

$
0
0

«Ho sempre fatto una fatica del diavolo, ho sempre dovuto saper aspettare e armarmi di pazienza, più o meno santa. In animazione in particolare: dopo tanti anni -e a dispetto dei premi- non sono ancora riuscito a far diventare questa mia passione un mestiere. Prima ancora che un disegnatore sono un uomo onesto e questo conta più che l’avere talento, conta più di tutto quando mi guardo allo specchio o vado a dormire. Mi piace prendere le mie colpe e me le prendo: ho un carattere schivo, non vado d’accordo con le persone, detesto spostarmi, mi ostino a fare dei film che richiedono anni e non hanno mercato, più di questo: non so vendere quello che faccio. Non mi propongo, non insisto, non telefono, non sorrido, non stringo mani (men che meno politiche). Una negazione in serie, le mie colpe. Se non dovessero bastare a spiegare perché non mi è mai stata data la possibilità di lavorare nel mio Paese, ebbene in quel caso occorrerebbe rivolgersi altrove. Con le mani mai strette finiscono le mie colpe cominciano quelle degli altri».
Simone Massi

Sigla [CINEMA.DOC] il documentario in sala.
I festival - circuito del documentario di creazione


Sigla realizzata da Simone Massi
Montaggio e musiche Fabrizio Mambro
---

TENGO LA POSIZIONE (2001) 
"Non la smette di resistere; sta, in mezzo alla neve e al silenzio, ostinatamente a tenere la posizione". 


Ideazione e realizzazione / Conceived and realized by Simone Massi 
• Colonna sonora / Original soundtrack Stefano Sasso (e S. Massi) 
• Postproduzione / Post-production I.S.A Urbino 
• Produzione / Production Simone Massi 
• 4’00” 
- Matita e gessi su carta / Pencil and chalks on paper - Bianco, nero, rosso


Giorgio Nurisso 2005, Porto San Giorgio, Italy 
E’ ispirato al romanzo La casa in collina di Cesare Pavese, di cui sembra ritrarre il senso di sconfitta e di dolorosa sospensione: il protagonista si rifugia in collina, come molti altri, per sfuggire ai bombardamenti, soddisfacendo cosi la sua personale vocazione alla solitudine, a vivere in disparte, nei boschi, a rifugiarsi nella propria stanza oscurata e nei ricordi d’infanzia. Si consuma cosi il dramma di un intellettuale che asseconda le sue aspirazioni ma nello stesso tempo si colpevolizza, in preda al rimorso, intrappolato nell’impossibilita di gettarsi nell’azione. 
---

PICCOLA MARE  (2003)
"Stanotte non si riesce a dormire, immaginerò del mare" 

Ideazione e realizzazione / Conceived and realized by Simone Massi 
• Musica originale / Original music Nik Phelps 
• Voce narrante / Voice over Marco Paolini 
• Postproduzione / Post-production Metis Film 
• Produzione / Production Simone Massi 
• 4’00” 
- Carboncini colorati su carta 


Iasujiro Ozu Festival (giuria) 26.10.2004, Sassuolo, Italy 
Non è secondo la celebre accezione pasoliniana che l’animazione di Simone Massi può definirsi “cinema di poesia”- Anzitutto perché di animazione si tratta, e non di giunzioni tra porzioni filmate di realtà. Per cui, non si dà montaggio né inquadratura, nel sendo tradizionale e pieno richiamato da questa terminologia. Non può esserci cioè l’arbitraria (e poetica in tal senso) rimodulazione autoriale di unità spazio-temporali filmate, ovvero non ha senso parlare di giunte e di analisi riferendoci ad immagini che non intrattengono un rapporto di analogia con uno spazio naturale e una durata determinata antecedenti ed esterni all’opera. L’immagine animata procede dall’uniformità ritmica dell’avvicendarsi dei quadri. Ecco allora che una prima intenzione stilistica dell’autore, in questo caso, risulta evidente: mostrare la traccia del lavoro sull’immagine, se non è possibile che questa ci informi del suo essere stata nella durata. Il lavoro del disegno eminemente superficiale, può diventare leggibile mediante l’inquietudine del tratto a carboncino, l’esposizione massima della sua arbitraria (poetica) irregolarità – più o meno incisivo, spesso, lineare. Il tratto non delimita ma va a riempire: emerge, prende corpo, si instaura come esplosione di senso sul fondo uniformemente nero. Il colore non è campitura stabile ma, ma sempre concorre al progredente metamorfosarsi delle forme. 
Abbiamo allora l’omogeneità del passo di scorrimento e la superficie nera come fondamento e supporto percepibile in quanto tale; e in questo spazio-tempo sintetico, immaginario, l’avventura del tratto desiderante. 
La poeticità può darsi come allusione, carattere, intenzione, sentimento, difetto che chiama un complemento di materia e d’esperienza, simile al libero e desiderante gioco del sogno, cui allude il testo recitato. Più che con la parola che l’accompagna però, il quadro intrattiene uno stretto rapporto con la colonna sonora, ovvero con il linguaggio musicale (armonia, melodia, ritmo). La straordinaria varietà ed armonia dei codici utilizzati rendono l’opera compatta e potente, là dove delle dolcezza espressiva si fa manifesto. Ancora l’intenzione desiderante sembra determinare la struttura sequenziale: l’avvicendarsi delle forme è nel senso della finzione prospettica, e guida l’occhio dello spettatore lungo le traiettorie di un travelling (sognato, mai dato) tra paesaggi aperti delle stesse fluttuazioni del punto di fuga (aperti soprattutto a memorie pittoriche: chagall, magritte, l’aerodinamismo futurista, la narrativa illustrata infantile…) e nell’aperto di uno spazio occasionale, finto/infinito, che chiede d’essere attraversato, vivificato, abitato dall’intenzione creativa, traduzione visiva di piccole nostalgie.  
---

IO SO CHI SONO (2004)
"Su per le schine dei miei avi, su: fino a casa" 

Ideazione e realizzazione / Conceived and realized by Simone Massi 
• Riprese / Camera Simone Massi 
• Colonna sonora / Original soundtrack Marcello Fiorini 
• Voce narrante / Voice over Alberto Ricci 
• Postproduzione / Post-production Roberto Carluccio, Cineteca Milano 
• Produzione / Production Simone Massi 
• 3’00” 
- Matita su carta / Pencil on paper - Bianco, nero e rosso


Animation Blog 8.7.2008, London, UK - Ian Lumsden
"Io so chi sono", afferma il narratore nel film omonimo splendidamente disegnato a mano di un Simone Massi alla ricerca di sé stesso. Dalle braccia della madre all'uomo vecchio, il film piuttosto malinconicamente si apre insieme a una valigia su una vita piena di momenti vibranti - l'uccisione di un maiale, un pettirosso morto, salire dalla scaletta su per il tetto, distendersi su un marciapiede della stazione ferroviaria con la valigia come un cuscino, annusare l'odore di un proiettile, dolci colline italiane, la finestra aperta della camera, fino ad andare via con la valigia. Mai del tutto spiegato, ma malinconica e memorabile, la narrazione Alberto Ricci e la musica della fisarmonica di Marcello Fiorini sono perfetti. E' una storia di viaggio, di viaggi su strade e in treno, e la dichiarazione di identità sembra solo un po' difficile da accettare con certezza. 
Certo, l'identità è formata da momenti come questi, ma l'effetto complessivo è qui di transitorietà. Il movimento è sontuoso: un momento un semplice pasto non consumato si trova su una sedia rustica che si sposta su un uomo che passa la mano sulle rughe della fronte e i capelli che a sua volta diventano collina sulla quale si trova una idilliaca città italiana attraverso la quali si viaggia a velocità crescente, prima di scendere nella mano di un bambino in braccio alla nonna. Simone ha 38 anni e ha conseguito il diploma in Cinema d'animazione presso l'Istituto Statale d’Arte di Urbino. La sua animazione è stata originariamente creata nel 1998 anche se, come Simone mi ha spiegato: "Ho iniziato l'animazione dieci anni fa ma a quel tempo era lungo soltanto 1'00" e senza chiaroscuro. Finalmente nel 2004 ho finito l'animazione (la versione che hai visto (con il chiaroscuro e la musica di Marcello Fiorini 3'00)". Le parole formano una poesia tradotta per me da Simone (il cui inglese non è certamente "non così buono" come ha spiegato, ma in realtà piuttosto buono)! "Io so chi sono: sono mio nonno e mio padre, ogni faccia che ho visto, pensato o baciato. Io so chi sono: sono la casa dove sono nato, i posti che ho letto, sognato ... (io sono) le strade, i tetti e la terra chiusa dentro la valigia mia, dentro le nuvole della pipa mia, nel bicchiere del vino mio. Io so chi sono". 
---

LA MEMORIA DEI CANI (2006)
"Sfioro le guance sui sassi, m’affaccio da una tregua del muro". 

Ideazione e realizzazione / Conceived and realized by Simone Massi 
• Riprese / Camera Julia Gromskaya 
• Colonna sonora / Original soundtrack MusicFeel - Stefano Sasso 
• Postproduzione / Post-production Istituto d'Arte di Urbino 
• Produzione / Production Simone Massi 
• Con la partecipazione di / With the participation of Arte France - Sacrebleu 
• 8’00” 
- Pastelli a olio su carta / Oil pastels on paper - Bianco, nero e rosso 


Eesti Ekspress 11.2006, Tallinn, Estonia 
L'ultimo film di Simone Massi, "La memoria dei cani", racconta l'esperienza traumatica di un ragazzo. 
Disegnati molto elegantemente a penna, i fotogrammi ripresi in bianco e nero ci portano attraverso i pensieri del ragazzo che corre, fino all'esecuzione del suo migliore amico, il cane. Il film ha molti passaggi interessanti e cambi di scena. Non c'è fretta, è tutto un lento movimento, che nello stesso tempo porta lo spettatore alla sensazione di essere il ragazzo e gli fa provare le emozioni. A sentire l'odore familiare della terra, dove ci sono le donne che lavorano nel campo, e un toro bianco in piedi su un fondo nero. A sentire la pietra del muro sulla guancia nel momento in cui sul cane si posa il freddo della canna. Nella percezione dei sensi un ruolo molto importante è giocato dai suoni e dalla musica. Quali sono i tuoi ricordi di odori e sapori?
---

DELL’AMMAZZARE IL MAIALE (2011)
"Mentre viene trascinato fuori dalla stalla il maiale ha modo di vedere il cielo". 


Ideazione e realizzazione Simone Massi 
• Riprese / Camera Julia Gromskaya 
• Colonna sonora / Original soundtrack Stefano Sasso 
• Soundtrack consultant Larry Sider 
• Postproduzione / Post-production Lola Capote Ortiz 
• Produzione / Production Simone Massi 
• 6’20” 
Pastelli a olio su carta / Oil pastels on paper - Bianco, nero e rosso 


Camilla Cacciari 23.1.2012, Pisa, Italy 
Il percorso che compie il maiale nella tradizione marchigiana per andare al macello diventa percorso di iniziazione per il bambino, che attraverso lo spettacolo della morte straziante dell’animale si confronta con la morte e con il dolore, e con la vita dei campi. Vite e persone collegate da una scia di sangue, un filo rosso che tiene insieme una comunità artefice di morte, avvezza a riti, a sacrifici per il preservamento della vita della comunità stessa. 
L’ultimo film di Simone Massi mi ha scioccata, letteralmente. Continuavo a guardare e riguardare il momento in cui il ragazzo lascia cadere il coltello sul tavolo. E' incredibile. Pochi autori al mondo riescono a creare personaggi disegnati e a farli recitare come se si trovassero davanti allo spettatore in carne e ossa, hanno una forza espressiva che ritrovi solo a teatro, quando gli attori sono molto bravi, e nella vita vera. Grandioso poi il lavoro sul suono. Bravo Massi. 


Simone Massi nasce a Pergola (Pesaro-Urbino) nel maggio 1970. Ex-operaio, di origine contadina, ha studiato Cinema di Animazione alla Scuola d’Arte di Urbino. Animatore indipendente, da 17 anni sta cercando -in maniera pulita- di fare diventare la sua passione per il disegno un mestiere. Nonostante le difficoltà ha ideato e realizzato (da solo e interamente a mano) una decina di piccoli film di animazione che sono stati mostrati in 57 Paesi dei 5 Continenti ed hanno raccolto oltre 200 premi. Rimbocchiamoci le maniche e dopo andiamo avanti.

Simone Massi (Pergola, 23 maggio 1970) è un animatore, regista e illustratore italiano.
Dopo un passato da operaio si è diplomato in Cinema di Animazione all'Istituto Statale d'Arte di Urbino ha svolto uno stage presso lo Studio Bozzetto. È oggi considerato uno dei principali autori di cortometraggi di animazione italiani e uno degli ultimi pionieri dell'animazione "a passo uno", con all'attivo oltre 200 premi vinti nei principali festival nazionali e stranieri è ritenuto uno dei più grandi animatori a livello internazionale.
Per i suoi lavori non si serve dell'uso del computer ma fa tutto a mano "su carta, come un secolo fa ... attraverso l'uso di matite, carboncini, gessetti, pastelli, grafite e china" . Ha inoltre messo a punto una tecnica "fatta di pastelli a olio stesi su carta e poi graffiati con puntesecche e altri strumenti incisori".
Nel 2003, a seguito del decimo lavoro Piccola mare, con voce narrante di Marco Paolini, inizia l'attività internazionale con le produzioni francesi.
La memoria dei cani e Nuvole, Mani, suoi successivi lavori, sono per la produzione di Arte-France e della casa d'oltralpe "Sacrebleu", con un positivo consenso di critica e pubblico.
La memoria dei cani ottiene 33 riconoscimenti, fra cui la menzione speciale allo Zagreb Animafest, il "Renzo Kinoshita Prize" all'International Animation Festival di Hiroshima, il Grand Prix come migliore film all'International Trick film di Stoccarda.
Nuvole Mani viene premiato come miglior film italiano al "21º Fano Film Festival", menzione speciale all'edizione 2010 dei Nastri d'Argento nella sezione animazione, il Premio Onda Curta al "Festival Monstra 2010" di Lisbona ed il Premio Speciale attribuito dalla rivista Duellanti al Milazzo Film Festival.
L'opera è stata inoltre selezionata e presentata nella sezione "Corto, cortissimo" alla 66ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia ed è rientrata fra le cinque finaliste come miglior cortometraggio ai David di Donatello 2010.
Nel mese di febbraio dello stesso anno è stato pubblicato il libro, corredato da un dvd con suoi 13 corti, Poesia Bianca. Il cinema di Simone Massi a cura di Roberto Della Torre, per la Fondazione Cineteca Italiana.
Una sua animazione, proiettata sulla montagna, è stata utilizzata come sfondo nello spettacolo Uomini e Cani (tratto da un racconto di Jack London) di Marco Paolini.
Nel 2011, ha illustrato il libro di Nino De Vita La casa sull'altura edito da Orecchio Acerbo, con la postfazione di Goffredo Fofi. Il libro ha riscosso un grande successo di critica ed è stato inserito nella terna dei finalisti della XXX edizione del premio Andersen per la sezione "Miglior albo illustrato". Il libro è stato tradotto e pubblicato dalla casa editrice Kompasgid di Mosca. Fra il 2011 e il 2012 ha illustrato la trilogia dedicata da Edmondo De Amicis alle capitali d'Italia "Torino", "Roma" e "Firenze" e il volume "Le Marche", tratto da Viaggio in Italia di Guido Piovene, editi da Ecra.
Nel mese di novembre 2011 è uscito il cortometraggio, Dell'ammazzare il maiale, ottenendo la menzione speciale della giuria alla 29ª edizione del Torino Film Festival che lo ha definito "Una freccia dolorosa e bellissima che squarcia la nostra memoria" e, fra le altre, la selezione alla 41 edizione dell'International film festival di Rotterdam. Nell'aprile 2012 il film ha vinto il David di Donatello come miglior cortometraggio.
Il 10 dicembre 2011, in occasione della "Giornata delle Marche" il Resto del Carlino lo ha selezionato fra quei talenti che "tengono alto il nome della regione".
In un'intervista di inizio 2012 il celebre critico di cinema di animazione Giannalberto Bendazzi ha definito Simone Massi "Il miglior ambasciatore dell’animazione italiana all’estero, sia per apprezzamento sia per premi" e Dell'ammazzare il maiale "in assoluto il suo miglior lavoro".
Assieme ai registi Pappi Corsicato, Edoardo Winspeare, Davide Marengo e Gianluca Arcopinto, per la sezione celebrativa "Un minuto al termine" della ventesima (e ultima) edizione del festival romano di cortometraggi Arcipelago, ha realizzato il corto Lieve, dilaga.
È l'autore della sigla della 69ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia e della 70ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia per le quali ha realizzato anche il manifesto. Il cortometraggio, della durata di trenta secondi e realizzato con 300 disegni fatti a mano, è un tributo a Fellini, Angelopoulos, Wenders, Olmi, Tarkovskij, Dovženko. Nell'edizione del 2012 del festival è stato omaggiato con una proiezione speciale di diciassette suoi lavori.

Il fuggiasco - Andrea Manni (2002)

$
0
0

TITULO ORIGINAL Il fuggiasco
AÑO 2003
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Italiano (Separados)
DURACION 97 min.
DIRECCION Andrea Manni
GUION Andrea Manni, Massimo Carlotto, dal romanzo omonimo di Massimo Carlotto (Edizioni E/O)
REPARTO Daniele Liotti, Joaquim de Almeida, Claudia Coli, Alessandro Benvenuti, Francesca De Sapio, Roberto Citran, Gabrielle Lazure, Fiorenza Tessari, Luisa Ranieri, Marco Giallini, Paolo Giovannucci, Antonella Troise, Benjamin Islas, Mario Montes Pozo, Aska Iida.
FOTOGRAFIA Massimino Pau
ESCENOGRAFIA Stefano Giambanco
VESTUARIO Chiara Ferrantini
MUSICA Teho Teardo
MONTAJE Alberto Lardani
PRODUCCION Massimiliano La Pegna, Pietro Lama, Feelmax, Rai Cinema
GENERO Drama 

SINOPSIS Nel 1976, quando aveva solo 19 anni, Massimo Carlotto viene accusato di un omicidio di cui è l’unico testimone. A causa di tale accusa subisce 11 processi, trascorre 6 anni in prigione e 5 da "Fuggiasco". La sua odissea legale dura 18 anni, termina nel 1993 quando il Presidente della Repubblica gli concede la grazia. (Film Scoop)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)
Subtítulos (Italiano)

Brutto giorno il 20 gennaio 1976 se hai diciotto anni, vivi a Padova, sei uno studente militante di Lotta Continua e ti chiami Massimo Carlotto. Il destino sta per riservarti una sorpresa crudele: soccorrerai la vittima di un delitto e da quel momento in avanti tutti i tuoi sogni si trasformeranno in un incubo pieno di bastonate, abbandoni e sinistri inceppamenti della macchina giudiziaria che dovrebbe riconoscerti innocente. Fermato. Arrestato. Imputato di omicidio. Come si dice: trovarsi nel posto sbagliato, al momento sbagliato. Da testimone a soggetto sotto accusa il passo è breve, se a qualcuno serve un capro espiatorio. Molti anni e molte fughe più tardi, nel tuo primo libro scriverai: "Ho un passato ingombrante. Per metterlo da parte e pensare finalmente al futuro ho dovuto usare cinque grandi casse di legno."
Queste stesse parole aprono il bellissimo film che Andrea Manni ha tratto da una vicenda assurda e terribilmente vera conclusasi il 7 aprile 1993 con un provvedimento di grazia firmato da Oscar Luigi Scalfaro dopo 11 processi, sei anni Daniele Liotti è Massimo Carlotto ne "Il Fuggiasco" di Andrea Mannidi carcere e cinque di latitanza. Un progetto rincorso dal 1995 tra lo scetticismo dei produttori e che oggi, sia pur con una distribuzione inadeguata (un primo ‘test’ in poche sale a Roma e Padova, poi altre 30 copie in giro per l’Italia), arriva al pubblico vantando una solida sceneggiatura scritta a quattro mani con Carlotto, un cast artistico e tecnico credibile (su tutti, Daniele Liotti, Joaquim De Almeida, Roberto Citran, il direttore della fotografia Massimo Pau) ed un ritmo tutto in crescendo, da nervi scoperti e attese febbricitanti messo in risalto dalla colonna sonora di Teho Teardo (sue anche le musiche del prossimo film di Guido Chiesa).
Il Fuggiasco è un thriller in cui l’assassino non viene scoperto e un innocente si ritrova a vagare, "latitante per caso", costretto ad occultare la sua vera identità tra Parigi, Barcellona e Città del Messico, aiutato da un gruppo di esuli politici guidati da Lolo, cileno fuggito da Santiago dopo il golpe del 1973 che nei suoi ultimi anni di vita sarà tra i fondatori del Comité International Justice pour Massimo Carlotto. La solidarietà degli ultimi della terra, l’amicizia di altri perseguitati e l’amore della famiglia, di chi a Padova continua a lottare in nome di una giustizia che non c’è ("Lascia perdere il caso"è il consiglio di un giudice chiamato al telefono da Alessandro Benvenuti nei panni dell’avvocato Vignoni) sono gli unici punti fermi quando i passi del protagonista vacillano e la speranza di tornare a casa libero si fa sempre più flebile.
Sono frammenti di luoghi e fatti quelli che vediamo sullo schermo, un circolare di volti, corpi, Daniele Liotti è Massimo Carlotto ne "Il Fuggiasco" di Andrea Mannipaesaggi: "Parigi è una prigione a cielo aperto", come dice Lolo e il tempo che scorre è scandito dai verdetti di condanna, dai ricorsi della difesa, dalle sigarette bruciate notte e giorno in un susseguirsi di lacrime, travestimenti e scatti disperati. Il sogno di una cosa negata. La malattia, l’idea di farla finita come estremo gesto escapista: "Io in carcere non ci torno". Puntando sulla tensione, viene meno l’ironia amara che attraversa il romanzo, ma è un tradimento necessario per non confondere il caso Carlotto ed il film di Manni con una biopic tra dramma e commedia sulla falsariga di Prova a prendermi. L’immagine più forte ed emblematica: sulla spiaggia deserta, Daniele Liotti alza le braccia al cielo urlando: "Io sono Massimo Carlotto".
Nino G. D’Attis

INTERVISTA  AD ANDREA MANNI di Nino G. D’Attis

Andrea ManniAndrea Manni nasce a Roma il 4 gennaio 1958.
Nel 1989 scrive e dirige il cortometraggio Dubbing in Italian Style, (menzione speciale al Torino Film Festival).  Nel 1996 scrive e dirige il suo primo lungometraggio Da cosa nasce cosa… (Miglior Opera Prima al 50° Festival del Cinema di Salerno - 1997). Nel 1998 scrive e dirige il cortometraggio Un uomo a piedi (in concorso alla 55° Mostra del Cinema di Venezia). Il Fuggiasco è il suo secondo lungometraggio di cui è anche autore della sceneggiatura assieme a Massimo Carlotto.

Tra il tuo primo cortometraggio (Dubbing in italian style, del 1989) e Da cosa nasce cosa... (1997) sono passati sette anni; cinque tra Un uomo a piedi (1998) e Il Fuggiasco. Sei tu a prendere tempo tra un film e l'altro o ti sei ritrovato nella condizione di dover aspettare a lungo il verdetto dei produttori su un determinato progetto?
La seconda... Fare films in Italia è difficile. Fare films che valgano la pena di esser fatti, è ancora peggio, tanto più se non sei un regista affermato o particolarmente amico di qualcuno. Fare la commedia è più semplice ma purtroppo non ho trovato nessun progetto che mi abbia appassionato e le commedie che ho scritto non sono state ritenute, ancora...giuste per il mercato. I produttori ma ancora di più le televisioni con l'acquisto dei diritti televisivi, decidono se un progetto debba o non debba esser prodotto.

Puoi dirmi qualcosa del tuo lavoro sul set? Usi uno storyboard, o almeno ne hai usato uno per Il Fuggiasco?
L'unica cosa che non amo di questo lavoro è che cominciamo a lavorare molto molto presto al mattino ed io la mattina presto non sono proprio al cento per cento... Per far capire ai miei collaboratori come voglio procedere, faccio degli schizzi delle inquadrature ma chiamarlo uno story-board mi pare francamente eccessivo, disegno piuttosto maluccio.
Sul set mi sento a mio agio. Ci deambulo da più di 20 anni. Mi diverto a scherzare con i miei collaboratori, giochiamo spesso e questo rende più piacevole il lavoro. Non  sono un dispotico urlatore e lavoro a stretto contatto con tutti, forse perché avendo fatto l'aiuto regista per tanti anni non riesco a smettere di controllare tutto, in tutti i reparti. Mi piace che tutti collaborino, il film non lo sento solo mio. I film non si fanno da soli, è un gioco di squadra ed ho avuto una troupe meravigliosa.

Avevi già in mente Daniele Liotti come protagonista mentre scrivevi la sceneggiatura insieme a Carlotto?
No. Eravamo già abbastanza schizofrenici, cercando di avere un sano distacco dal fatto che quello che scrivevamo era vero. In più per me era ancora più bizzarro, perché il mio interlocutore (Massimo Carlotto) era proprio quello vero. Pensare anche a chi lo avrebbe interpretato sarebbe stato impossibile. Un problema per volta. E ti assicuro che non è stato facile emotivamente... Della scelta di Daniele Liotti sono orgoglioso. È stata una sfida nella sfida ma secondo me Daniele è una delle sorprese (positive) del film.

Sempre a proposito di attori, come è stato trovarsi sul set Joaquim De Almeida e Francesca De Sapio? Nei loro curriculum si leggono i nomi di Peter Sellars, Jim Mc Bride, Dennis Hopper...
Lavorare con dei professionisti di talento è sempre bello e stimolante. C'è un primo momento di diffidenza, ci si annusa ma se poi c'è complicità, è davvero un piacere. Basta una parola, uno sguardo e ci capisce subito. Non scorderei però anche tutti gli altri, Benvenuti, Citran, Giallini, Coli, Tessari, Ranieri, Giovannucci e lo stesso Liotti. Io non amo gli attori, però amo quelli bravi...

Quanto intervieni sul lavoro del direttore della fotografia? Di Massimino Pau mi colpì molto la luce per Il Branco di Marco Risi, ora le scelte fatte per Il Fuggiasco mi sembrano altrettanto belle. Ho sempre pensato che chi si occupa di illuminare un set possa trovare molti più stimoli se la storia è drammatica o thriller. Sei d'accordo?
Massimo Pau è un grande. Da lui ho ricevuto un grande ed affettuoso supporto. Ci conosciamo da 20 anni, poi ci siamo persi di vista per 7/8 anni e rincontrarsi è stato bello. Il lavoro del direttore della fotografia nelle commedie è relativo, meno creativo. Solitamente la commedia deve avere immagini molto luminose, brillanti, allegre e vivaci. Nei films "drammatici" o in tutto ciò che non sia commedia, il lavoro è più interessante, anche al limite della sperimentazione. Un po' gli ho rotto le scatole ma Massimo aveva capito esattamente il film ed abbiamo marciato nelle stessa direzione. Tranne che in Messico, la fotografia è fredda e contrastata, propedeutica alla vicenda. Spero di lavorare di nuovo presto con Massimo.

Che tipo di rapporto hai invece con i montatori? Ti capita di visionare un primo montaggio e di cambiarlo molto?
Per come giro, è abbastanza semplice seguire le indicazioni che arrivano al montaggio ma questo film ha avuto una lunga gestazione per quanto riguarda l'edizione. Alla fine avevamo tanto materiale, tanto da poter montare un film di più di 2 ore ma non era quello che volevamo. È stato tagliato molto e tagliando delle scene, dei personaggi perdevano d'importanza e quindi diventava fisiologico tagliare anche loro. Delle scene non sono venute come speravo ed allora via anche quelle... Insomma ora i film dura 93' senza titoli di coda. Un grazie va anche ad Alberto Lardani, il mio montatore, che mi aiutato e sopportato per circa 8 mesi. Devo dire che anch'io ho sopportato lui...meno male che siamo molto amici.

Come sei arrivato alla scelta di Teho Teardo per la musica del film? Conoscevi il suo lavoro con artisti internazionali come Mick Harris, Lydia Lunch e Jim Coleman?
L'incontro con Teho è stato fortuito e fortunato. No, non lo conoscevo. Mi è stato presentato dal suo agente. In quel periodo stavo ascoltando il lavoro di molti musicisti ma quando ho sentito il lavoro di Teho non ho avuto dubbi. La musica è una mia grande passione e mi picco di saperne parecchio, molto più che di cinema... Gli auguro tutto il successo che merita.

Durante la conferenza stampa si è accennato alla possibilità di portare sul grande schermo un altro romanzo di Massimo Carlotto, Il Mistero di Mangiabarche. Sarà il tuo prossimo progetto?
Spero e credo di sì. Magari non tra 4/5 anni...

Grazie.
---
Padova, gennaio 1976. Il diciottenne Massimo Carlotto viene accusato dell'omicidio di un'amica. Dopo tre anni di detenzione e vari gradi di giudizio la Cassazione lo condanna a diciotto anni di reclusione. Massimo, che è innocente, non ci sta e fugge a Parigi.
Lì inizia la sua vita da "fuggiasco". Una vita difficile da sopportare. Una vita che impone cambiamenti continui e repentini per non farsi scoprire dalle autorità. Deve stare attento a non commettere errori. Deve evitare i controlli della polizia. E cambiare nome, aspetto, casa. La sua è una latitanza disorganizzata ed improvvisa che lo porta ad incontrare esuli e rifugiati politici, che con la loro solidarietà e il loro appoggio lo aiutano ad andare avanti. Massimo si trasferisce a Città del Messico ma si lega alle persone sbagliate e nel 1985 viene arrestato, torturato ed espulso. Tornato in Italia decide di costituirsi ma scopre che in realtà nessuno lo sta cercando. Il mandato di cattura viene trovato solo dopo giorni di ricerche. Massimo viene comunque rimesso in carcere ma si ammala gravemente. Nasce così "il caso Carlotto ", che tra vari gradi di giudizio e conferma della condanna definitiva, si concluderà solo nel 1993, ben diciassette anni dopo, quando il Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, concederà la grazia.
Il film, che ha ottenuto il sostegno del Dipartimento dello spettacolo del Ministero per i beni culturali e il fondo europeo Media per lo sviluppo (ben quattro milioni di euro in totale!) ed è coprodotto da Filmax e Rai Cinema, è stato scritto a quattro mani dal regista e dal vero Massimo Carlotto, divenuto ormai un navigato scrittore dopo la sua terribile esperienza (si vocifera che un altro suo romanzo, "Il mistero del mangiabarche", diventerà presto un film e sempre per la regia di Manni!).
A detta del regista "Il fuggiasco"è una di quelle storie che hanno il diritto di essere raccontate. Ma più che un film carcerario o di condanna del sistema giudiziario, "Il fuggiasco"è un film sull'individuo, sul suo dramma personale, sulla sua lotta contro l'ingiustizia, sul suo viaggio iniziatico alla scoperta di sé e della vera libertà. Ed il tocco di Manni è lucido, distaccato, senza sentimentalismi, quasi rigoroso, sposta il baricentro dell'attenzione sulla latitanza "interiore" del suo sfortunato eroe piuttosto che sulle vicende giudiziarie in cui si trova coinvolto. Non tutto, però, funziona come dovrebbe a partire da Daniele Liotti, incapace di incarnare il Carlotto giovane ribelle e il Carlotto fuggiasco braccato dalle autorità, decisamente troppo bello ma anche troppo acerbo, qui al suo primo ruolo importante dopo una marea di filmetti da dimenticare. Interessanti le musiche di Teho Teardo, già autore delle musiche di "Denti" di Salvatores e collaboratore dei Placebo.
Marco Catola 



Un film necessario per la dedizione con cui riesce a raccontare una storia vera, senza gonfiarsi della retorica delle corse insensate con cui molto cinema italiano recente sembra basarsi, risoluto nei tempi e preciso nella caratterizzazione dei personaggi.

Padova, anni Settanta. Un ragazzo iscritto a Lotta Continua, scopre casualmente un corpo appena martoriato dalla mano di un invisibile assassino. Il giovane in questione è Massimo Carlotto, ai più noto come scrittore di buona penna e ispirazione, ma protagonista di uno dei più incredibili, assurdi casi di persecuzione giudiziaria verificatisi nel nostro paese. Dopo aver deciso di testimoniare davanti ai carabinieri quello che aveva visto nella casa, è arrestato, accusato e giudicato come l'esecutore di quel tremendo omicidio.

Un vero e proprio cittadino al di sotto di ogni sospetto, nei confronti di cui lo Stato, tramite l'istituzione giudiziaria, decide di affibbiare il peso di una colpa non propria, interrogandolo per ore intere, ripetendogli fino allo stordimento le stesse accuse di essere un rosso, di essere l'unico ad esser stato in quella casa. La macchina giudiziaria si innesta su un buco nero, su uno spazio non scritto, per scrivere sul corpo dello sventurato le fatali lettere della condanna. Come nel racconto della Colonia penale kafkiana. Ora il suo problema non è capire perché questo sia accaduto, ma come riuscire a sopravvivere lontano dal carcere, mentre i gradi del giudizio, dopo un iniziale proscioglimento, gli ordinano ben diciotto anni di prigione.

Diventa una sorta di scarafaggio il giovane Massimo, la cui massima preoccupazione è di non essere pestato dalle persone che entrano nel proprio mondo incuranti della propria, nuova, fragilità. La metamorfosi si completa con l'esilio parigino, in cui conosce tanti altri perseguitati dalla longa manus della cacciatrice bendata, la giustizia. Cile, Messico, Guatemala, ma anche Italia, Spagna, questi sono i paesi da cui si fugge in quegli anni, accomunati dalla pratica della delazione, della presunzione di colpevolezza per accalappiare gli "irregolari", i refrattari verso i regimi imperanti con il loro diritto di guerra.

Ed in una felice intuizione Andrea Manni riesce a restituire con una associazione di immagini il montare di quel clima persecutorio che segnò l'escaltion: ancora a casa Massimo sta festeggiando con i genitori la sentenza d'appello che lo scagiona per insufficienza di prove. Il padre accende la tv, è il giorno del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro. Stacco. Ancora una sentenza che pronuncia il pressoché definitivo verdetto di condanna dell'imputato. Questo breve ma sintomatico momento del film, costruito con un sapiente montaggio che riesce a tendere le corde emotive per l'intera sua durata, dilata la propria sfera simbolica per lasciarsi trafiggere dalla metafora. E pur non lasciandosi fuorviare da questa dimensione allucinatoria, perché il racconto vuole essere rigoroso e puntuale senza tesi da offrire al dibattito generale su quegli anni, il film riesce lo stesso a tranciare il volto ancora imberbe del protagonista dell'amara consapevolezza di essere un capro espiatorio per una colpa commessa da altri, come più tardi ammette anche il suo avvocato, un umanissimo Alessandro Benvenuti.

E di quella corsa disperata verso l'esilio, a cui fa da contrappunto l'iniziale fuga dalla casa dell'omicidio, resta il convulso battito di una vita non rassegnata all'irregimentamento, il respiro affannoso con cui durante i diciotto anni seguenti continuerà a lottare per la propria libertà, perdendo rapidamente quello che era (la ragazza, gli amici, la vita sociale e politica di Padova), ma riconquistando il proprio sè a partire dal contatto vitale con i tanti esuli su cui fino ad ora in pochi avevano saputo tratteggiare personaggi così accurati e dolenti. Come Lolò, il cileno conosciuto a Parigi che per tanti anni, fino alla morte, continuerà a battersi per la sua scarcerazione senza purtroppo riuscire a vederne l'esito.

Un film necessario per la dedizione con cui riesce a raccontare una storia vera, senza gonfiarsi della retorica delle corse insensate con cui molto cinema italiano recente sembra basarsi, risoluto nei tempi e preciso nella caratterizzazione dei personaggi. Un'opera di testimonianza non solo di una singolare vicenda, ma capace di risvegliare grazie ad essa connotati più generali, collettivi, destando nella categoria di "film civile" il suo senso più immediato ma anche, sembra, oggi più inafferrabile.

L'amore in città - Antonioni, Fellini, Lattuada, Lizzani, Maselli, Risi e Zavattini (1953)

$
0
0

TITULO ORIGINAL L'amore in città
AÑO 1953
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACION 105 min.
DIRECCION Michelangelo Antonioni, Federico Fellini, Alberto Lattuada, Carlo Lizzani, Francesco Maselli, Dino Risi, Cesare Zavattini
GUION Michelangelo Antonioni, Aldo Buzzi, Luigi Chiarini, Federico Fellini, Marco Ferreri, Alberto Lattuada, Luigi Malerba, Tullio Pinelli, Dino Risi, Vittorio Veltroni, Cesare Zavattini 
MUSICA Mario Nascimbene
FOTOGRAFIA Gianni Di Venanzo (B&W)
REPARTO Rita Josa, Rosanna Carta, Enrico Pelliccia, Donatella Marrosu, Paolo Pacetti, Nella Bertuccioni, Antonio Cifariello, Livia Venturini, Maresa Gallo, Angela Pierro, Rita Andreana, Lia Natali, Caterina Rigoglioso, Mara Berni, Valeria Moriconi, Giovanna Ralli, Ugo Tognazzi, Patrizia Lari, Raimondo Vianello, Edda Evangelista 
PRODUCTORA Faro Film
GENERO  Drama. Romance | Drama romántico. Neorrealismo. Película de episodios 

SINOPSIS Película formada por seis cortos realizados por distintos directores: Michelangelo Antonioni (Tentato suicidio), Federico Fellini (Un' agenzia matrimoniale), Alberto Lattuada (Gli Italiani si voltano), Carlo Lizzani (L'amore che si paga), Dino Risi (Paradiso per quattro ore), Francesco Maselli y Cesare Zavattini (Storia di Caterina). (FILMAFFINITY) 

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)
Subtítulos (Español)



LA STORIA
Film a episodi. 1. Paradiso per 4 ore descrive l’ambiente delle sale da ballo dei quartieri periferici, frequentato dalle domestiche durante il permesso domenicale. 2. L’amore che si paga comprende alcune interviste con prostitute che ricostruiscono la loro vita, la loro storia e il loro modo di pensare. 3. Tentato suicidio riporta una serie di interviste con protagonisti di tentati suicidi. Nel raccontare la loro storia, gli intervistati rivelano le cause prossime e lontane dei loro gesto disperato. 4. Un’agenzia matrimoniale descrive l’attività di un’agenzia del genere, cercando di spiegare lo stato d’animo di quelle ragazze che, pur di sposarsi, sono disposte a contrarre matrimoni che si rivelano, il più delle volte, infelici. 5. Storia di Caterina. Una giovane domestica, Caterina non avendo risorse finanziarie, abbandona nell’aiuola di un giardino il figlioletto, frutto di un amore illegittimo. Tuttavia non ha il coraggio di allontanarsi: lo sorveglia da lontano fino a quando non ne vede assicurata la sorte. 6. Gli italiani si voltano è la satira di un certo atteggiamento che gli italiani assumono generalmente di fronte alle attrattive del bel sesso.
     
LA CRITICA
Primo esperimento nella linea del ‘pedinamento della realtà’ dopo i capolavori dei neorealismo, Amore in città doveva essere, nelle intenzioni di Zavattini e degli altri artefici dell’iniziativa, il numero di avvio di una ‘rivista’ semestrale. In realtà, per il disastroso esito commerciale, rimase un caso isolato che ebbe il merito di anticipare di alcuni anni i vari tentativi di cinema-verità. Strutturato in sei episodi legati tra loro da vignette di breve durata sullo stesso tema ed affidato ad autori diversi nel temperamento e nello stile, il film risultò discontinuo nel linguaggio, ora senza veli o filtri spettacolari, come nel caso di Antonioni e Lizzani, ora svagato e brillante e con non poche annotazioni da commedia di costume, come nel caso di Fellini, Risi e Lattuada. Ma l’episodio più significativo di Amore in città, che da solo occupa quasi la metà del film, fu quello diretto da Maselli o e Zavattini, in cui la realtà delle immagini, casuali o ricercate, si sostituisce all’altra realtà (quella ‘vera’) ricreandola. (C.G.P.)
Fernaldo Di Giammatteo, Dizionario Universale del Cinema, Vol. 1, Editori Riuniti, 1984
---
Film a episodi, come un tempo andava di moda, ed esempio di un cinema didattico e di "inchiesta" L'amore in città, film del 1953 prodotto dalla Faro Film, è composto dai brevi film di Antonioni, Fellini, Risi, Maselli, Lizzani e Lattuada. Vale la pena di spendere qualche parola sulla storia di quest'opera, anche per evidenziare la meritoria operazione culturale compiuta con la produzione del dvd da parte della Minerva Classic.

L'idea fu di Zavattini coadiuvato, nella produzione, da Riccardo Ghione e Marco Ferreri, che in quegli anni aveva smesso di fare il rappresentante di liquori per dedicarsi al cinema. Si trattava di realizzare una rivista cinematografica che si sarebbe chiamata "Lo spettatore" elemento, quest'ultimo, del pubblico, tra quelli cruciali dei fondamenti della complessiva poetica zavattiniana. Il carisma dell'intellettuale emiliano raccolse attorno a se buonissima parte dell'emergente cinema italiano di quegli anni e in un clima di assoluta libertà, contropartita per una operazione del tutto gratuita, i giovani registi realizzarono i propri episodi. Ciascuno degli autori aveva piena autonomia nel proprio lavoro, anche in relazione all'argomento, purché legato al tema prescelto per quel primo numero della cinerivista. L'esperimento non venne più ripetuto e gli intenti, quelli di girare un numero della rivista ogni sei mesi, rimasero nel cassetto. Cosicché quest'unica testimonianza rappresenta una punta avanzata della manifestazione del mutare del costume italiano e, nel contempo, segnala la necessaria di una innovazione della morale dopo l'immediato dopoguerra. Sotto questo profilo il film non mancò di cogliere nel segno ma i guai si manifestarono non soltanto per un (prevedibile) disastroso esito commerciale, ma per gli inevitabili problemi con la censura.

L'avere tirato fuori dalle polverose stanze dei ricordi o solo dalle pagine delle storie del nostro cinema questo film dimenticato non soltanto ha il decisivo significato di una rivalutazione della nostra cultura cinematografica, ma riempie un vuoto storico nella storia della nostra cinematografia. Il film, infatti, non solo rappresenta l'esordio per qualcuno di questi registi (Maselli), ma forse segna un mutamento di rotta del neorealismo (per Mereghetti, come  afferma negli extra del dvd, addirittura della sua pietra tombale) che, per un effetto inatteso, che Pasolini, qualche anno dopo, non avrebbe amato, si stava trasformando in realismo perdendo quella carica innovativa che il movimento aveva avuto al suo esordio. Proprio l'episodio di Maselli Storia di Caterina è paradigmatico di questa definitiva trasformazione. Il regista fece ripetere sullo schermo, alla disperata protagonista la propria vera triste vicenda. Proprio la costruzione dell'episodio, riuscitissimo, peraltro, essendo forse il migliore dell'intero film, fa sorgere i legittimi dubbi circa la corrispondenza teorica di un'operazione del genere rispetto a quelli che furono i temi di fondo del neorealismo.


SINOPSIS DE LOS SEIS EPISODIOS
1. 'Amore che si paga'. Lizzani. (11'). Investigación sobre la prostitución en Roma. 2. 'Tentato suicidio'. Antonioni. (22'). Estudio sobre los protagonistas de los intentos de suicidio. 3. 'Paradiso per tre ore'. Risi. (11'). Describe el ambiente de las salas de baile de los suburbios, frecuentadas por los jóvenes los domingos. 4. 'Una agenzia matrimoniale'. Fellini. (16'). Investigación sobre las agencias matrimoniales. 5. 'Storia di Caterina'. Maselli y Zavattini. (27'). Una madre indigente abandona a su hijo en un convento de monjas para recuperarlo, arrepentida, al día siguiente. 6. 'Gli italiani si voltano'. Lattuada. (14'). Una especie de cámara indiscreta en las calles de Roma, muestra las reacciones de los hombres que se vuelven para ver pasar a una bella joven.

COMENTARIO
Concebida por Zavattini como un paso adelante en la concepción del neorrealismo, esta obra está más cerca de lo que más tarde se llamaría "cinéma vérité". A través de seis episodios, se reconstruyen diversos fragmentos de la vida cotidiana, algunos de ellos interpretados por ciudadanos anónimos. El resultado es desigual: no es cine neorrealista, fenómeno espontáneo que se cierra en el mismo momento en el que se teoriza, y no es todavía el cine-documento de los años 60-70. Permanece el valor de su testimonio histórico sobre una época de transición en la que sus autores buscaban un estilo más personal y menos 'objetivo'.
monzi

Un difetto di famiglia - Alberto Simone (2002)

$
0
0

TITULO ORIGINAL Un difetto di famiglia 
AÑO 2002
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACION 108 min.
DIRECCION Alberto Simone
ASISTENTE DE DIRECCION Antonio De Feo, Lisa Romano, Evelina Santercole
ARGUMENTO Alberto Simone
GUION Silvia Napolitano, Alberto Simone
MUSICA Ennio Morricone
FOTOGRAFIA Stefano Ricciotti
MONTAJE Luciana Pandolfelli
ESCENOGRAFIA Giada Calabria
VESTUARIO Alessandra Cardini
REPARTO Nino Manfredi, Lino Banfi, Carlo Cascone, Elena D'Urso, Simone Corrente
PRODUCTORA Coproducción Italia-Reino Unido; Italian International Film / Rai Fiction / Towers of London Productions
GENERO Comedia | Telefilm

SINOPSIS Due fratelli si rincontrano alla morte della madre, dopo aver lasciato, quarant'anni prima, il paese natale. Dopo essersi ignorati per lungo tempo sono costretti dal testamento della madre a compiere insieme il viaggio dal nord, dove Nicola è ora un imprenditore di successo, al paese d'origine in cui la madre ha chiesto di essere sepolta. Nel corso del viaggio scopriranno di essere ancora profondamente legati e, superando le incomprensioni e i rancori passati, ritroveranno il rispetto e l'affetto reciproco. (Film Scoop)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

Subtítulos (Español)


Nicola Gammarota non potrebbe essere più felice: sua figlia si sposa con un ragazzo di ottima famiglia. Ma il giorno fissato per le nozze l'anziana madre di Nicola muore, a 101 anni, e nella chiesa addobbata si celebra il funerale. Durante la cerimonia arriva Francesco, fratello maggiore di Nicola, che egli non vede da quarant'anni. Nicola e la madre erano fuggiti dal loro paese natale proprio a causa del fratello, che aveva fatto scoppiare uno scandalo rendendo pubblica la propria omosessualità. Nicola da allora detesta Francesco con tutte le sue forze, ma per rispettare le ultime volontà della madre i due sono costretti ad intraprendere insieme un lungo viaggio verso il loro paese per riaccompagnare la salma.

Dichiarazioni
«È la storia divertente, amara e istruttiva di due fratelli che si ritrovano dopo 40 anni, perché uno dei due, un professore, nel ’63, si dichiarò gay a Ostuni, con gran scandalo e fuggì poi all’estero, mentre l’altro, al Nord si arricchiva con le mozzarelle. I due si ritrovano per seppellire la madre, che fa da guida con voce fuori campo: un lungo viaggio che termina con la riconquista dell’intimità di famiglia, di comprensione e rispetto. Un film dal messaggio forte in cui metto gli attori al massimo delle possibilità: non è una fiction in due camere e cucina, usciamo all’aperto» (A. Simone, “Corriere della Sera, 6.10.2001).
---
Un difetto di famiglia: commedia garbata per due grandi attori

Una commedia degli equivoci sull' equivoco più singolare, quello della normalità. «Ci sono 13 nazioni al mondo - sostiene il regista Alberto Simone - dove l' omosessualità è condannata con la pena di morte e altre 36 nelle quali è un reato grave. Per fortuna Francesco Gammarota (Nino Manfredi), il mio protagonista, è nato in Italia ed è cresciuto in un paesino del Sud. Così la sua diversità gli è costata «solo» la perdita del lavoro e l' intolleranza di un fratello, Nicola (Lino Banfi), provinciale e benpensante». Nicola, infatti, un ometto del Sud, da quarant' anni ha lasciato il paesello natio di Casebianche, in Puglia, per trasferirsi al Nord dove, come produttore di mozzarelle, ha finalmente raggiunto il successo economico. Accolto a costo di sacrifici e compromessi nella buona società piemontese, Nicola ha taciuto a tutti l' esistenza di un fratello del quale si è sempre vergognato e che non vede più da quel lontano giorno di quarant' anni prima in cui Francesco, stimatissimo professore di liceo, dichiarò pubblicamente, ed apparentemente senza alcun motivo, la propria omosessualità a tutto il paese. Sceneggiato dallo stesso Simone e da Silvia Napolitano, «Un difetto di famiglia» (Raiuno, domenica, ore 20.45, 7.648.000 spettatori, share del 34 per cento) restituisce i toni agrodolci di una burla predisposta con amorevole e maniacale cura dalla vecchia madre che, nell' esprimere le ultime volontà, esige che ad accompagnarla nel viaggio estremo verso il paese d' origine siano proprio i due figli, finalmente riuniti. Con quel che ne consegue, fino alla redenzione finale. Costruita su misura per i due interpreti, la garbata commedia permette a Banfi e a Manfredi di sbizzarrirsi in una recitazione attenta e compiaciuta, pescando nel fondo di un repertorio ben fornito. Con la semplicità di chi non ha più nulla da affermare. 
Grasso Aldo (28/05/2002)


Alberto Simone, soggettista, sceneggiatore e regista, debutta nel 1995 con il film "Colpo di Luna". Selezionato in Concorso dal 45°Festival di Berlino, il film è stato premiato con la "Menzione Speciale della Giuria" e successivamente, con il "Globo D'Oro” della Stampa Estera in Italia per il “Miglior Regista Esordiente". 
La collaborazione con la Rai inizia nel 1988 quando, in qualità di soggettista e sceneggiatore, collabora all'ideazione della miniserie in 12 puntate "Un commissario a Roma", per la quale firma la sceneggiatura di due episodi. Soggettista e sceneggiatore per la prima e la seconda serie televisiva "Linda e il Brigadiere" con Nino Manfredi e Claudia Koll, firma la regia della terza serie "Linda, il Brigadiere e...".
Negli anni successivi scrive e dirige "Una storia qualunque", film in due parti  per Raiuno, Ninfa d’Oro Festival de Television de Montecarlo, "Le ragioni del cuore",  serie televisiva in sei puntate per Raiuno, “Un difetto di famiglia” con Nino Manfredi e Lino Banfi, Ninfa d’Oro Festival de Television de Montecarlo,  Grolla d’Oro miglior soggetto originale, Golden Chest (Plovdiv 2002) Gran Premio TV Movie. 
Nel 2004/2005 scrive, dirige e produce la serie televisiva in sei episodi “Una famiglia in giallo” con Giulio Scarpati e Valeria Valeri, Nomination al 45°Festival de Television de Montecarlo, “Miglior Regia”,  “Miglior Attrice Protagonista”, Miglior Attrice Non Protagonista” al 58°Festival Internazionale del Cinema di Salerno.
Nel 2007, accanto alla scrittura e promozione di nuovi progetti cinematografici e televisivi, avvia la produzione di documentari dedicati ai “Grandi Maestri Spirituali” del nostro tempo.
Ha supervisionato e prodotto la realizzazione della Serie tv “Il Commissario Manara” mandato in onda su Raiuno nell’inverno 2009, in nomination al Monte Carlo Television Festival 2009, “TV Series Comedy Category” Maggio 2009  ha curato la regia di 2 spot commissionati dalla  Presidenza del Consiglio dei Ministri, il primo per il Servizio Civile e il secondo per il Dipartimento delle Politiche della Famiglia.
Sempre per Raiuno ha prodotto e girato il film per la tv: “In nome del figlio”.
Attualmente è impegnato come produttore nella realizzazione de "In nome del Papa Re", remake del capolavoro di Luigi Magni e come autore nella scrittura e supervisione della serie tv “Il Commissario Manara 3”, entrambi commissionati dalla Rai
Inoltre sta sviluppando progetti dedicati al mercato americano.

Il volto di un’altra - Pappi Corsicato (2012)

$
0
0

TITULO ORIGINAL Il volto di un'altra
AÑO 2012
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 83 min.
DIRECCION Pappi Corsicato
GUION Pappi Corsicato, Monica Rametta e Gianni Romoli
FOTOGRAFIA Italo Petriccione
MONTAJE Cristiano Travaglioli
ESCENOGRAFIA Andrea Crisanti e Lily Pungitore
REPARTO Laura Chiatti, Alessandro Preziosi, Lino Guanciale, Iaia Forte, Angela Goodwin, Franco Giacobini, Fabrizio Contri, Giancarlo Cauteruccio, Armando Ninchi, Paolo Graziosi, Elisa Di Eusanio, Rosalina Neri, Clelia Piscitello
GENERO Comedia

SINOPSIS Bella conduce una famosa trasmissione televisiva sulla chirurgia plastica in cui bizzarri e surreali ospiti si sottopongono a interventi di chirurgia estetica eseguiti dal chirurgo suo marito René, gestore di un’esclusiva clinica privata situata tra i boschi dell’Alto Adige ma pieno di debiti. Licenziata a causa del crollo degli ascolti, Bella fugge via dagli studi televisivi e ha un grave incidente automobilistico. Anziché scoraggiarsi, decide di sfruttare la situazione a proprio vantaggio e chiede al marito di trasformarle il volto in diretta televisiva per rilanciare la sua immagine. Con un ritorno mediatico ed economico senza precedenti, i due sottovalutano le conseguenze che l’operazione comporterà nella vita di tutti i giorni. (Film Scoop)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)


Citazioni e Riferimenti
Il film ha un carattere prettamente onirico con scene in bianco e nero ispirate al cinema muto, accenni ai deliri visionari felliniani, al mondo della pubblicità, al carrierismo plastificato e falso della televisione e al macabro "turismo dell'orrore".
Le scene legate agli artificiosi mutamenti del viso fanno facilmente pensare ad un omaggio agli estremi cambiamenti facciali cosmetici di Brazil (film 1985) di Terry Gilliam. (Wikipedia)
---
Pappi Corsicato continua a non essere preso sul serio dal cinema italiano. Passata la sbornia per i Vesuviani, il movimento-non-movimento inventato dalla stampa per raccontare cosa succedeva a Napoli quando Corsicato, Martone, Capuano, Dionisio e De Lillo muovevano i loro passi nel mondo del cinema italiano, il regista de I buchi neri non solo ha continuato a muoversi ai margini della produzione nazionale, ma ha progressivamente sviluppato un cinema fortemente politico e formalmente avanzato.
Guai, però, a dirlo troppo forte. Per molti, troppi, Corsicato è ancora il pazzariello che gioca a fare l’Almodovar napoletano anche se fra i due esistono differenze abissali. Tanto per dirne una, lo spagnolo non ha mai osato un film visionario e sperimentale come Chimera. Ma tant’è. 
A osservare da vicino la filmografia di Corsicato, dall’esordio di Libera che regalò al nostro cinema la geniale Iaia Forte, si nota una progressione formale irresistibile. Sempre renitente alla tentazione di ripetersi, il regista ha dato corpo a un universo filmico unico e originale.
Dotato di uno sguardo strategicamente impuro, in grado di coniugare la cinefilia più esigente con le innovazioni del design e dell’alta moda, Corsicato ha dato vita a un vero e proprio cinema dell’inorganico attraversato da profonde scosse di erotismo insurrezionale. 
Nel suo cinema gli oggetti, in perfetta coerenza con i presupposti di una società terminalmente capitalista, hanno usurpato il posto dei corpi. I corpi, di conseguenza, diventano oggetti, del desiderio o meno, entrando, di fatto, a far parte di un’agghiacciante panorama post-umano dove la cristallizzazione della vita è messa in scena come in una sfilata di zombi d’haute couture.
In tutto questo il cinema si offre, ancora una volta, come il segno di una passione insopprimibile. Una passione che ovviamente è anche una disubbidienza, un’insopprimibile tensione al caos. 
In questo senso Il volto di un’altra, ispirato alla lontana al classico Tanin no kao di Hiroshi Teshigahara, esplicita il pensiero-cinema di Corsicato con una precisione ineccepibile. Mettendo in luce, ancora una volta, per coloro che ancora non hanno compreso, la natura politica del suo cinema.
Con una leggerezza da puro genio situazionista della pop-art, Corsicato racconta la storia di una diva sul viale del tramonto dell’audience, sposata con un chirurgo plastico, che dopo essere miracolosamente scampata a un’incidente, decide comunque di fingere di essere sfigurata pur di rilanciare la trasmissione tv del cinico consorte.
Detto della geniale performance di Laura Chiatti che pronuncia probabilmente la più bella battuta dell’anno (ammesso che odiate le ballerine) e di un Preziosi che tira fuori uno charme infido e velenoso come un Karlheinz Böhm d’antan, Corsicato, giocando di citazioni e rimandi visivi, mena fendenti con gioia assoluta coadiuvato dalla complicità di Iaia Forte che si presta per una meravigliosa gag che nemmeno Bombolo e Nando Cicero dei tempi d’oro!
Il volto di un’altra è il cinema italiano che brucia gli steccati fra impegno e divertimento, producendo una geniale ventata d’irriverenza che urla il primato dello stile e dello sguardo.
Il cinema secondo Pappi Corsicato è la resistenza all’idiozia e alla banalità. È il piacere dell’intelligenza che si fa segno e provocazione. È il rifiuto di cedere al discorso dominante. 
Insomma: Pappi Corsicato continua a fare cinema in un paese in cui se ne fa sempre meno ma in compenso se ne parla tantissimo.
Giona A. Nazzaro
---
Il volto di un'altra, una divertida película de terror de Pappi Corsicato

El director de Nápoles vuelve cuatro años después de Il seme della discordia con una comedia sobre la cirugía plástica interpretada por Laura Chiatti y Alessandro Preziosi, presentada a concurso en Roma

La película inicia con lo que parece un baile de fantasmas en un bosque encantado. Bien mirada, la escena parece sacada más bien de La noche de los muertos vivientes. Il volto di un'altra [+] (lit.: “El rostro de otra”), de Pappi Corsicato, segunda película italiana presentada a concurso en el Festival Internacional de Cine de Roma (del 9 al 17 de noviembre), va enseguida al grano al mostrar personas encapuchadas que avanzan por el sendero que conduce a la clínica estética Belle Vie. Son pacientes de operaciones de cirugía estética, en nariz, senos o párpados. Parecen momias. Les vemos luego en los pasillos de la clínica: unas figuras grotescas, masculinas y femeninas, vendadas, pero felices de haberse dado un retoque.
A través de este desfile macabro, Corsicato consigue su objetivo de impresionar al espectador con una imagen potente. Lo que viene después, sobre estos mártires de la perfección, es una comedia irónica sobre las apariencias, la cirugía plástica y la espectacularización de las noticias, repleta de referencias cinematográficas (Almodóvar, los hermanos Coen, Billy Wilder, por citar sólo algunos) y con una fotografía colorida y surrealista (obra de Italo Petriccione, colaborador habitual de Gabriele Salvatores). Y sin embargo algo no funciona.
Bella (Laura Chiatti) es la atractiva presentadora de una programa de televisión sobre la cirugía estética, donde su marido cirujano (Alessandro Preziosi) opera en directo. Es despedida porque la audiencia ha bajado, el público se ha cansado de ver su cara. De vuelta a casa, sufre un accidente que le desfigura el rostro. Bella decide entonces que su marido le reconstruya una cara nueva, para poder volver a conquistar el cariño del público. La noticia genera mucho interés y la gente se concentra enfrente de la clínica donde tendrá lugar la operación. Es precisamente esta clínica, situada entre las montañas salvajes del Tirol del Sur, el escenario de la acción, hogar de personajes como una monja fácil de corromper y obsesionada con las purgas (Iaia Forte, actriz fetiche de Corsicato) o un limpiador con ambiciones de cantante y de revolucionario (Lino Guanciale, protagonista de la nueva película de Susanna Nicchiarelli, que forma parte asimismo de la presente edición del certamen romano).
Corsicato no se ahorra irreverencia y claridad de ideas. Sin embargo, nos preguntamos qué habría pasado si la diabólica pareja protagonista hubiese sido interpretada por actores menos jóvenes y guapos. “He escrito el guión pensando en una protagonista más madura”, ha revelado el director, “pero luego he pensado que una mujer joven y guapa que quisiese operarse era más divertido. Alessandro Preziosi está perfecto en el papel del doctor. Quería que fuese aún más guapo que sus pacientes”. Al margen de la belleza, unos protagonistas más expresivos y con algún matiz más no habrían dañado el producto final: si hay algo que no funciona en la película de Corsicato, son ellos.
Vittoria Scarpa
---
Forbici e bisturi: la chirurgia estetica torna al cinema. “Il volto di un’altra”, ultimo film del regista Pappi Corsicato, tratteggia gli eccessi di un mondo patinato e illusorio. Direttamente sul corpo delle pazienti. E dei pazienti anche. Sì, perché la ricerca dell’eterna gioventù non è una questione di genere.

Nella clinica Belle Vie, immersa nel verde dei monti, scorre una vita parallela e surreale. Donne e uomini, lividi in viso e bendati qua e là, aspettano di cancellare le proprie imperfezioni fisiche e assurgere a vita nuova. Intanto i proprietari della struttura, la conduttrice televisiva Bella – interpretata da Laura Chiatti – e suo marito René, chirurgo estetico – un convincente Alessandro Preziosi –, sono ormai sul lastrico, quando apprendono che Bella è stata rimossa dalla conduzione dello show televisivo in cui René pratica interventi chirurgici agli ospiti. Bella minaccia vendetta, offesa dalla rivelazione inaccettabile che il suo viso ha stancato il pubblico, e a René tocca dover contenere le ire della moglie. Ma con scarsi risultati: Bella si infila in auto e sparisce inviperita, dirigendosi verso la clinica.
Mentre la radio trasmette la minaccia di un asteroide che si abbatte sulla terra, ben altro oggetto si schianta contro il parabrezza della sua vettura: una tazza del water, schizzata dal furgone di Tru Tru – Lino Guanciale –, addetto all’impianto fognario di Belle Vie. Accortosi dell’incidente che ha involontariamente provocato e per non far ricadere la colpa su di sé, Tru Tru raccoglie Bella dall’auto in una maschera di sangue e la accompagna in clinica, raccontando di averla trovata così ridotta passando di lì per caso.
In una sala operatoria in bianco e nero, dove si esorcizza il senso del macabro e persino il sangue non sembra più sangue, allontanate tre infermiere che osservano la scena dietro una grottesca vetrina di occhi, orecchie e labbra posticci – stile non vedo-non sento-non parlo –, in completa solitudine René interviene sul viso di Bella. Completamente fasciato in seguito all’intervento, a nessuno è permesso di vedere quello che René ha annunciato come un volto del tutto sfigurato. Intanto il destino avverso toccato alla donna attira curiosi, giornalisti e fotografi, che si appostano all’esterno della clinica, trasformandola in una sorta di luna park del voyeurismo.
Ne Il volto di un’altra si assiste al trionfo del grottesco. Le pareti avorio della clinica e i suoi luminosissimi corridoi contrastano con i colori accesi e lo stile pop che caratterizzano certe scene. Il film è una continua ricostruzione del surreale. A partire da ciò che causa l’incidente di Bella, il vaso sanitario infranto contro il vetro. Surreale è la cinica suora – interpretata da Iaia Forte – che si aggira per la struttura con l’intento di somministrare purghe ai pazienti. Surreale è la scena degli obesi che tentano, saltellando, di levarsi dal suolo per addentare una mela sospesa in aria. Surreale è l’esibizione dei ventriloqui canterini, capitanati da Tru Tru. E chi più ne ha più ne metta.
In questo mondo ovattato, in cui non esiste un confine netto tra essere e apparire, l’unica cosa che conta sembra essere il successo, da raggiungere – e mantenere – ad ogni costo. Pur di tenere accese le luci di ribalta, Bella è disposta a farsi cambiare i connotati. Pur di arricchirsi e diventare famoso, Tru Tru cede al ricatto e alla tentazione di imboccare facili scorciatoie. Pur di non vivere più all’ombra di sua moglie e di diventare egli stesso protagonista, René trama alle sue spalle ed è disposto a sacrificarla.
Così, mentre si svelano le debolezze e le miserie umane, un pubblico amorfo e sedato sciuperà la possibilità di scoprire la menzogna e smascherare i bugiardi, applaudendo all’inganno come fosse una trovata geniale. Incredula di fronte a tanta ottusità, persino Bella abbandonerà questa platea compiaciuta e compiacente, inevitabilmente destinata ad essere sommersa da litri di feci sgorganti dalle fognature impazzite. In una scena che rende ovvia ogni metafora.
Nadia Ruggiero


Il volto di un'altra: una commedia un po' horror e molto surreale sui nostri tempi

Dopo l'anteprima ufficiale in occasione dello scorso festival di Roma, Pappi Corsicato, assieme allo sceneggiatore Gianni Romoli – anche coproduttore del film - e agli attori Laura Chiatti,  Alessandro Preziosi,  Iaia Forte e Lino Guanciale, presenta Il volto di un'altra alla stampa, in attesa di incontrare il pubblico in sala l'11 aprile, con una distribuzione (Officine Ubu) di un centinaio di copie. Un film raffinato, dalla sceneggiatura semplice, che parla, attraverso i volti, i corpi, gli abiti, le scenografie e le suggestioni dei generi cinematografici, anche dei nostri tempi e dei tempi del cinema. 
E' così che Pappi Corsicato cerca di definirlo: "E' una variazione sui temi della chirurgia plastica e dei media, e anche un po' una metafora di quello che succede oggi. Uno dei temi è che oggi va bene tutto, ogni cosa e il suo contrario, perciò volevo raccontare questo senso di totale sbandamento in cui passa tutto, anche il cambiare faccia, anche il motivo per cui all'ultimo momento la si sta cambiando. Io trovo che quello che succede oggi sia tragicomico, quindi questo film alla fine è un po' una summa dei miei scombinati pensieri su questo. Inoltre mi sono divertito a metterci dentro tutto quello che mi piace: l'arte, la musica, l'estetica e il cinema”. Parlando dei suoi attori, Corsicato dice: “al di là della bravura che dovrebbe essere sempre alla base, per me è importante che abbiano un forte senso dell'ironia e dell'autoironia, altrimenti avrebbero difficoltà a fare certe cose. Mi è capitato che alcuni abbiano rifiutato un ruolo. Credo che loro abbiano accettato di fare il film anche perché ne hanno capito l'ironia”. 
Bellissima, su un paio di tacchi 12 come la conduttrice cattiva del film, Laura Chiatti commenta il suo lavoro col regista: "Per la prima volta ho trovato un personaggio femminile davvero interessante e completo, in grado di esprimere molti aspetti. Quando ho letto la sceneggiatura la cosa che mi ha incuriosito di più e che la visione del film ha confermato, è che ogni scena racconta un genere diverso. E' un film che mi ha arricchito moltissimo perché Pappi mi ha molto bacchettato. Io sono molto pigra e quindi anche nella recitazione tendo sempre ad amare i personaggi realistici perché mi sforzo di meno e invece lui è riuscito a farmi entrare nei panni di questa donna molto lontana da me perché sicura di sé e molto ambiziosa, che vuole essere sempre perfetta ed è disposta a far di tutto pur di arrivare”. 
L'altro superbello del film, il bravissimo Alessandro Preziosi, parla del momento particolare in cui il suo personaggio e quello della moglie, in feroce e sotterranea competizione per le luci della ribalta, sembrano ritrovarsi: “mi piace raccontare la scena del balletto, di questo ballo molto simmetrico e già cult, evocativo di un mondo cinematografico andato, che poi lascia il posto a una grande tenerezza, a un valzer alla massima potenza, un'occasione in cui i due di questa coppia in grande competizione possono ritrovarsi. La scena a letto mi ha ricordato quella tra Tom Cruise e Nicole Kidman in Eyes Wide Shut, e non sto scherzando. Ci sono registi che lavorano con grande determinazione e grande cinismo sui temi che vogliono raccontare, dove gli attori sono solo una funzione rispetto all'immagine del cinema che è più alta in questo tipo di film, poi c'è un momento in cui il regista si avvicina con grande intimità ai personaggi perché deve riuscire a trovare il modo di raccontare il risvolto del loro cinismo: quello è forse l'unico momento del film in cui tutti e tre ci siamo trovati a cercare il modo, sia a livello estetico che a livello umano. per trasmettere quel calore”. 
Iaia Forte, vera e propria musa del regista napoletano di cui ha interpretato - da protagonista o in ruoli minori - tutti i film, parla di cosa le piace tanto nel suo cinema: “Al di là dell'amicizia che ci lega io ammiro molto Pappi perché trovo che in un paese conformista come il nostro è una fortuna che lui riesca ancora ad avere uno sguardo così personale e così libero. Continuo ad ammirare questa sua costante anarchia, perché è molto facile invece farsi inglobare e appiattire dal pensiero comune, e dunque al di là del divertimento come attrice, sempre fortissimo, ho per lui un'ammirazione scevra dall'amicizia”. 
Infine, Gianni Romoli commenta il lavoro particolare fatto sul copione per questo film: “è stato molto lungo, perché è un film che è stato costruito seguendo due piste, una puramente narrativa a cui abbiamo lavorato io, Monica Rametta e Daniele Orlando, e un'altra (forse quella più interessante) solo di Pappi, che era la costruzione di un film il cui contenuto reale non era tanto la narrazione quanto le forme del raccontare. Quando noi ci vedevamo perciò non discutevamo solo della storia, ma dei film visti, delle musiche che suggerivano a Pappi certe situazioni, delle suggestioni strettamente di forma. Il film è una grande contaminazione di forme e di generi molto alti ma anche molto bassi, perché c'è la commedia sofisticata ma anche il trash, l'horror ecc. e questo richiedeva un equilibrio molto forte perché si rischiava di svaccare troppo da un lato o di diventare troppo ostici o raffinati dall'altro. Proprio perché nel film di Pappi c'era un contenuto legato alla forma, era necessario che il plot fosse estremamente semplice e lineare. Per arrivarci però abbiamo dovuto fornire moltissimi materiali e andare all'eccesso per permettergli di asciugare al massimo, perché lui era l'unico che poteva far combaciare questo doppio racconto”.
Daniela Catelli 
---
Corsicato fa esplodere il suo mondo senza un attimo di ripensamento, lo fa crollare sotto il peso delle sue luci e della sua plastica. E il suo film, nonostante i vezzi e i vizi, sembra davvero la purga tanto attesa, necessaria a spazzare via le incrostazioni di un cinema "intelligente"

il volto di un'altraIl momento in cui la grande esplosione dei liquami inonda la linda e illuminata sala di gala della clinica Belle Vie, viene fuori tutto lo sdegno accumulato da Pappi Corsicato per l'ignobile farsa orchestrata sino a quel momento davanti ai suoi occhi. Contrappasso morale necessario. Ma ovviamente quell'esplosione era stata prevista a monte, annunciata e ignorata a più riprese, come una sentenza emessa da una Cassandra completamente impazzita. E ci piace pensare che, prima ancora che i personaggi, quella sentenza riguardasse proprio l'artificio ipercontrollato, la chiusura perfetta. Una sorta di risposta 'immonda' e liberatoria a quello stanco reality che si è impadronito del cinema, andando a posizionarsi nel pericoloso punto di contatto e frizione tra l'immagine e la realtà, tra la menzogna spettacolare e l'esigenza della verità, fino a far prevalere le ambizioni autoriali e le esigenze dittatoriali dello stile sul richiamo sincero e caotico dell'ispirazione. La verità non è tanto il contrario della menzogna, della finzione, quanto della perfezione. Ed è questo l'altro volto mostrato da Corsicato oltre il velo del comune buon senso (la vista?).
La truffa dissimulata, narrativamente parlando, è quella orchestrata dal bel Renè (Alessandro Preziosi), celebre chirurgo estetico e da sua moglie, Bella (Laura Chiatti), una star televisiva di prim'ordine, ma a rischio di licenziamento. Dopo che gli sponsor le hanno tolto la conduzione del programma di prima serata, "la tua faccia ha stancato", il fallimento è prossimo. Ma un incidente rimette in gioco tutto.
Corsicato costruisce un mondo narrativo scintillante, ambientato in una clinica estetica/set televisivo, regno della finzione alla massima potenza. Costruisce dei personaggi finti fuori e dentro. E il suo racconto si apre in un mirabolante "fuoco d'artificio" (letteralmente), capace di passare ironicamente da un genere all'altro, il musical e la commedia romantica, il thriller e il disaster movie, e da un'epoca all'altra del cinema, dal muto a oggi. Un armamentario visivo e una varietà di toni e suggestioni che mostra non solo la profonda vocazione pop-retrò (che dio ci perdoni) di Corsicato, ma soprattutto la sua agilità nel controllo dei materiali, quella capacità di passare con leggerezza attraverso i riferimenti più disparati, da The Artist ad Almodovar, Fellini e Ferreri, facendo convivere l'impossibile. Ma quello che affascina davvero è la continua messa in discussione di questo apparato spettacolare, quest'ostentazione di stile, che invece di diventare una maniera asettica, è sottoposto alla pressione di una critica ironica, a un rovesciamento (e)scatologico. Corsicato fa esplodere il suo mondo senza un attimo di ripensamento, lo fa crollare sotto il peso delle sue luci e della sua plastica. E Il volto di un'altra, nonostante i vezzi e i vizi, sembra davvero la purga tanto attesa, necessaria a spazzare via le incrostazioni di un cinema "intelligente", impegnato a raccontare la decadenza del reale, eppure inevitabilmente condannato a condividerne le paure e le cecità.
---
Bella è l'affascinante conduttrice di un programma che mostra gli interventi di chirurgia plastica. Le operazioni sono eseguite in diretta dal marito René, proprietario di una clinica nel Sudtirolo. Irritata per il suo licenziamento, causato dal calo degli ascolti, viene coinvolta in un incidente d'auto che le sfigura il viso. Quello che sembrerebbe un dramma si rivela però un'occasione di rilancio...

 “Vi sarebbe un modo per risolvere tutti i problemi economici: basterebbe tassare la vanità”. (Jacques Tati).  Questa storia è la rappresentazione della società che odia le scarpe ballerine. È un Narciso 2.0, che, invece che contemplare la propria immagine, contempla il gradimento popolare della propria immagine.
Dopo Il seme della discordia, Pappi Corsicato prosegue sulla stessa linea e raccoglie i suoi personaggi nella casetta di Hansel e Gretel (tra i prati e le mele fiammeggianti del Sudtirolo) appetibile all’esterno quanto inevitabilmente mostruosa. La società delle vetrine, l’essere inteso (solo e unicamente) come essere percepiti, la corsa alla bellezza assoluta sono trattati con i toni della commedia nera. Il regista napoletano dichiara di essersi divertito a rimescolare e ridisegnare i generi: rom-com hollywoodiana, noir, grottesco, farsa, satira di costume, echi almodovariani per produrre un patchwork di citazioni che danno un’idea di cinema figlia dei tempi postmoderni. La locandina stessa è un richiamo nostalgico ai tempi perduti.
La clinica di René, una fabbrica di bellezza dove si svolgono gli interventi di chirurgia plastica, è ritratta come un ridicolo ospedale psichiatrico. I suoi personaggi, sia i pazienti che il personale, sono volutamente tipizzati e arrancano tra oggetti e costumi nel terreno dell’esagerazione. I degenti bendati che saltano insensatamente per il prato come animali allo scopo di rassodare le rotondità ricordano molto le atmosfere di Morti di salute (Alan Parker, 1994) e il salutismo sfrenato del dottor Kellogg, precedente analogo sul discorso dell’ibrido medical-comedy-horror. Lo humor è onnipresente e affidato a situazioni paradossali e slapstick, in un film che colpisce per l’originalità visiva (alcune inquadrature ricordano opere della pop-art). La protagonista Laura Chiatti dà vita a una Bella-bambola sintetica che parte da pellicce e grossi occhiali da sole e si ritrova a vagare per i lussuosi corridoi della clinica in vestaglie di seta e decolleté pitonate: una presentatrice il cui volto ha stufato ma che poi, colpita al viso da un water (!) e sfigurata, si troverà ad affondare in una pozzanghera con un’inattesa possibilità di riscatto. Il marito Preziosi, per l’occasione biondo e semi-intellettuale (una maschera adatta al ruolo del medico star che partecipa a un programma televisivo), un dottore con la sala operatoria in bianco e nero, la tratta proprio come una Barbie, finché lei da oggetto non diventa soggetto, nonché avversaria di visibilità e fama. Scrostando la presentazione dei personaggi da Commedia dell’Arte rimane ben poco: non c’è un’anima, c’è la possibilità di un riscatto non punitivo, ma alla fine nessuno di loro fa un percorso di redenzione.
Il tema è pre-masticato e frequente nei film degli ultimi decenni: per apparire chiunque farebbe qualunque cosa, come infrangere la legge, tradire la propria famiglia, i propri ideali (la sottotrama dell’operaio-cantante Tru Tru, pieno di ideali ma in fondo meschino come gli altri). L’Italietta degli approfittatori ormai è un cliché. Più interessante è il discorso, solo accennato, della stupidità di una massa schiava dell’agenda setting, che interiorizza qualunque messaggio venga passato dai media. Il pubblico viene sedotto con la bellezza ed è facilissimo da ingannare, se allestisci uno spettacolo con le luci giuste e gli abiti di scena sontuosi (per questi ultimi il regista dichiara di essersi ispirato al mondo della moda e al cinema giapponese). Ancora più meritevole, a un livello più profondo, è la riflessione sul volto, sull’identità celata , camuffata e svelata, la necessità di mascherarsi per ritrovare sé stessi e ri-svelarsi, affine a La pelle che abito di Almodovar ma con sostanziali differenze: se il regista spagnolo incantava con una poesia vagamente surreale e dai toni delicati, ne Il volto di un’altra si enfatizza tutto giocando con il simbolismo e la bulimia degli oggetti (wc, animali impagliati, camper, scarpe, giostra, zucchero filato). Emerge una rappresentazione della realtà visivamente molto caricata(come nella particolare “esplosione” finale) ma non altrettanto nel discorso di fondo; forse Corsicato avrebbe dovuto osare di più. Il risultato è comunque godibile e non perde mai il suo status di fiaba grottesca, come se i mostri fossero disegnati con gli Uni Posca dei bambini.
alicegrisa

Giorni d'amore - Giuseppe De Santis (1954)

$
0
0

TITULO ORIGINAL Giorni d'amore
AÑO 1954
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACION 98 min.
DIRECCION Giuseppe De Santis, Leopoldo Savona
GUION Giuseppe De Santis, Libero De Libero, Elio Petri, Gianni Puccini
MUSICA Mario Nascimbene
FOTOGRAFIA Otello Martelli
PREMIOS 1955: Festival de San Sebastián: Concha de Oro (mejor película)
REPARTO Marcello Mastroianni, Marina Vlady, Giulio Calì, Angelina Longobardi, Dora Scarpetta, Fernando Jacovolta, Renato Chiantoni, Lucien Gallas, Cosimo Poerio, Pina Gallini
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Excelsa Film / Omnium International du Film
GENERO Comedia. Drama

SINOPSIS Dos jóvenes campesinos, Angela y Pasquale, prometidos desde hace varios años, siguen posponiendo la boda por motivos económicos. Contando con la aprobación de las familias de ambos, él decide raptarla con el fin de evitar los gastos de la boda. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

Subtítulos (Español)


TRAMA: 
Due giovani contadini, Angela e Pasquale, sono promessi sposi da alcuni anni. Qualche anno prima, quando è tornato a casa dopo il servizio militare, Pasquale avrebbe voluto sposare Angela; ma al paese le nozze, per essere ritenute valide, devono celebrarsi con tutta solennità e richiedono una spesa notevole. Le famiglie dei fidanzati sono povere e il matrimonio viene rimandato d'anno in anno, finché un giorno Pasquale decide di ricorrere ad un sotterfugio. Rapirà Angela in modo che il matrimonio diverrà inevitabile e le nozze verranno celebrate in fretta e semplicità. Il piano tacitamente concordato con le famiglie viene messo in esecuzione; ma strada facendo le cose si complicano. Le famiglie, che dovrebbero fingere di litigare, litigano sul serio. Angela non se la sente di trascorrere la notte con Pasquale, ma alla fine quel che doveva succedere, succede. Malgrado l'incomprensione dei parenti, i due innamorati, che hanno vissuto la loro prima notte nuziale, vanno in chiesa e si sposano.

CRITICA: 
"E' tutto un'altalenare di trasporti e di ripicche, di fremiti e ironie, che dà alla prima parte del racconto un suo frequente incanto, rivelandoci un De Santis quasi inedito, sollecito verso il richiamo delle proprie origini (...). Giova soggiungere che gli attori hanno coadiuvato il regista come meglio non si sarebbe potuto". 
(Giulio Cesare Castello, "Cinema", 146/147, dicembre 1954)

NOTE: 
- CONSULENZA PER IL COLORE: DOMENICO PURIFICATO.NASTRO D'ARGENTO 1955 A MARCELLO MASTROIANNI COME MIGLIORE ATTORE PROTAGONISTA. PREMIO PER LA MIGLIORE FOTOGRAFIA A COLORI AL FESTIVAL DI SAN SEBASTIAN (1955)


Chi vede una frattura tra questa leggiadra favola di campagna e il resto dell’opera desantisiana si sbaglia. In Giorni d’amore il regista comincia il recupero di quella tendenza all’accumulazione dei tratti narrativi che aveva messo in mostra soprattutto nei suoi esordi. Una vena favolistica era sempre stata presente nel mondo interiore di De Santis (basta andare a rovistare tra le sue prime prove letterarie per constatarlo). Era un po’ la controcoscienza del suo impegno sociale, di quel comunismo fiam­meggiante che sostanzia il suo epos. In qualche modo, del resto, Giorni d’amore sviluppa il discorso intrapreso con la storia della popolana Anna Zaccheo. Al centro di entrambi i film è il matrimonio, mito femminile fondante per la società italiana (lo spiega esplicitamente il soggetto di questo sesto lungometraggio del regista). E, non a caso, troveremo il mito del matrimonio al centro di tanti altri film di De Santis, finanche in La garçonnière e in Un apprezzato profes­sionista di sicuro avvenire. Il fatto è che per il regista di Caccia tragica (anche lì la possibilità del matrimonio divideva Giovanna da Lilì Marlene) la storia, il conflitto, l’evento sociale rilevante passa sempre attraverso il corpo femminile, o comunque attraverso un corpo d’amore, attraverso il suo sognare. Il matrimonio può essere tanto un dramma quanto una favola. La Fondi di Giorni d’amore è l’ultima Brigadoon del Neorealismo.
La donna è il centro dell’universo desantisiano: questo vuol dire che spesso la donna è una vittima consacrata. Sul suo corpo – ecco un’altra chiave per analizzare l’erotismo desantisiano – passano le ruote di un carro sovraccarico dei miti e delle menzo­gne della società italiana del dopoguerra. Per questo motivo, probabilmente, le bellezze desantisiane hanno tratti così ben determinati: sono vagamente giunoniche perché devono sopportare il peso di tanti affronti, sono malinconiche perché scontano il peccato della loro diversità, si sono fatte astute perché spesso sono state ingannate, si mostrano superbe perché sono stanche di tante umiliazioni. E il loro aspetto statuario (si pensi alla Mangano di Riso amaro o alla Pampanini di Anna Zaccheo) contrasta sempre con una timida sete di felicità, con la loro predisposi­zione al sogno. Giorni d’amore trasferisce in ambito contadino una problematica molto simile a quella che Un marito per Anna Zaccheo svolgeva in un ambito urbano: l’impossibilità di realizzare il matrimonio. E il matrimonio vuol dire felicità. È rilevante notare come l’am­bito urbano di Un marito per Anna Zaccheo sia legato alla forma del melodramma, mentre quello contadino di Giorni d’amore sia invece legato alla forma della comedy. La terra, cioè il legame con la natura, ha un suo ruolo positivo. Attraverso la terra si può accedere alla felicità. Ripensiamo all’happy end di Caccia tragica, laddove gli uomini della cooperativa tirano addosso al bandito redento manciate di terra in segno di buon augurio. In Giorni d’amore quel tema viene ripreso – ancora una volta nel finale – laddove Angela e Pasquale, presto imitati dal nonno e dagli altri familiari, gettano palate di terra in un fosso. Per anni questo fosso ha costituito il confine tra due piccole pro­prietà: adesso, riempito di terra, diverrà fonte di lavoro per i novelli sposi. E tutti si danno da fare per “riempire quel vuoto di terra”. L’Italia del dopoguerra aveva una gran fame di terra. Dal punto di vista stilistico, sia nel finale di Giorni d’amore che in quello di Caccia tragica, la terra introduce un certo tipo di costruzione della sequenza, basato sul crescendo. È un luogo stilistico che De Santis potrebbe aver derivato da King Vidor (in un’intervista rilasciata a Renata D’Agostino, Gino Frezza, Rosario Rinaldo e a chi scrive, il regista americano spiegava esplicitamente di aver usato questo genere di costruzione nei suoi film e di averlo a sua volta mutuato da David W. Griffith): lo ritroviamo pure nel finale di Riso amaro e in una famosa sequenza di Il sole sorge ancora di Vergano, che Carlo Lizzani analizza bene nel suo saggio su Risa amaro: “Il prete dice le litanie e i contadini rispondono, prima uno, poi tre, dieci, cento, mille ora pro nobis”. Rispetto ad Un marito per Anna Zaccheo, Giorni d’amore, presenta anche un altro importante elemento di novità: si tratta, infatti, del primo film a colori di De Santis. Per questo esordio (la pellicola era la vecchia ma valorosa Ferraniacolor), il regista si servì della collaborazione artistica di un suo illustre com­paesano, il pittore Domenico Purificato, il quale – come sappiamo – aveva un insospettabile passato di redattore di “Cinema” vec­chia serie, al principio degli anni Quaranta.
Purificato, naturalmente, si limitò a fornire una consulenza, dando indicazioni sulla base delle quali sia lo scenografo (Ottavio Scotti) che il direttore della fotografia (il grande Otello Martelli) impostarono il loro lavoro. Il risultato è uno stranissimo naif cinematografico, che si adatta bene al tono lieve del racconto di Giorni d’amore. Giustamente Farassino, nella sua monografia su De Santis, definisce il film un esempio di Neorealismo “non rosa ma caleidoscopico”.
Stefano Masi, De Santis Il Castoro cinema, 1981

A cavallo della tigre - Luigi Comencini (1961)

$
0
0

TITULO ORIGINAL A cavallo della tigre
AÑO 1961
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español e inglés (Separados)
DURACION 104 min.
DIRECCION Luigi Comencini
GUION Luigi Comencini, Agenore Incrocci, Mario Monicelli, Furio Scarpelli
MUSICA Piero Umiliani
FOTOGRAFIA Aldo Scavarda (B&W)
REPARTO Nino Manfredi, Mario Adorf, Valeria Moriconi, Gian Maria Volontè, Raymond Bussières, Luciana Buzzanca, Ferruccio De Ceresa
PRODUCTORA Film 5 / Titanus
GENERO Comedia | Comedia dramática

SINOPSIS Giacinto Rossi es un infeliz condenado a tres años de prisión por simular un robo. Cuando sólo le quedan 10 meses para salir y volver con su mujer e hijos, sus tres compañeros de celda lo incluyen a la fuerza en sus planes de fuga. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

Subtítulos (Español)

Subtítulos (Inglés)


Sinossi
Giacinto Rossi è in carcere per simulazione di reato, deve scontare solo pochi mesi, ma si vede costretto a evadere contro la sua volontà da altri tre detenuti suoi compagni di cella. Una volta fuori, i quattro si dividono in due gruppi e qui cominciano i problemi. A corto di soldi per realizzare il progetto di fuga all’estero, Giacinto si lascia convincere a tornare a casa sua per cercare aiuto e così scopre che la moglie si è messa con un altro. Smarrito, braccato dalla polizia, il poveruomo continuerà a farsi sfruttare dal mondo di lupi che lo circonda.

Riproponiamo uno dei titoli meno conosciuti di Luigi Comencini, maestro della commedia all’italiana classica di cui A cavallo della tigre rappresenta uno degli esempi più originali e riusciti. Opera avanti sui tempi – come dichiarato dagli stessi sceneggiatori Age e Scarpelli -, il film non fu certo un successo commeraciale ma, rivisto oggi, mostra forse meglio di allora, i primissimi anni Sessanta, tutta la sua modernità. Nel raccontare senza mai una caduta di ritmo né di incisività espressiva la parabola di un pover’uomo senza qualità (uno straordinario Nino Manfredi) circondato da un mondo di lupi, Comencini ha costruito un film di amara e caustica ironia, in cui il registro drammatico a quello comico risultano perfettamente miscelati e che fonda il suo impianto drammaturgico sulla volontà di sopraffazione della natura umana. Come nel cinema migliore, la storia raccontata nel film invece di scadere nella caricatura si eleva a metafora impietosa e profetica di una società ottusamente protesa verso le sirene di quello sfrenato consumismo che tanti guasti avrebbe provocato negli anni a venire.
---
La amplitud de la sátira.

Una de las mejores películas de Comencini, una comedia dramática excelente, en clave de sátira social, que cuenta la historia de un pobre hombre encarcelado por fingir un delito, que se verá paulatinamente metido en más y más líos (se fuga coaccionado de la cárcel y se le persigue por una lista de delitos que le hacen uno de lo más buscados y peligrosos delincuentes del país).
Comedia excelentemente dirigida, escrita y estudiada, tributaria del cine de pícaros italiano, dónde la amplitud de la sátira es magnífica, pues es tan sangrante, profunda e íntegra como amarga, melancólica e íntima, haciendo que el espectador se encariñe e identifique absolutamente con este Juan Nadie (espléndido Nino Manfredi), un perdedor resignado, una víctima individual de la sociedad que crean la paradoja de que para él la cárcel es mejor que la calle. Una admirable película, muy desconocida, del más que interesante Comencini.
kafka


Il carcerato Giacinto Rossi (Nino Manfredi) ha ottenuto di poter svolgere la mansione di aiuto infermiere. Lo si vede, nell'immagine di apertura del post, mentre maneggia dei raccoglitori di urina (comunemente detti pappagalli). Lo fa tutte le mattine. E' stato condannato a tre anni di prigione per simulazione di rapina. Il vecchio pescatore che l'ha denunciato ai carabinieri, poi si è pentito, perché Giacinto ha una famiglia (moglie e due figli) che adesso è rimasta in mezzo alla strada. Il pescatore, per farsi perdonare, spesso manda delle vongole a Giacinto, però le vongole arrivano in carcere marce e puzzolenti. Giacinto apprezza il gesto, ma le butta via.
Giacinto, di per sé, non sarebbe un delinquente. Solo che nella vita le sbaglia tutte. Cerca di comportarsi bene in carcere perché vede la possibilità di uscire dal carcere sei mesi prima per buona condotta. Così a Natale rivedrebbe la famiglia a cui è molto affezionato. E' ricco di sentimento ed ha una bella voce. Qui lo vediamo durante l'ora d'aria mentre esegue questa canzone (di Pugliese-Vian):

Il mare
è la voce del mio cuore,
è la voce del tuo cuore
che ci unisce ancora.

I miei baci a te,
i tuoi baci a me
ce li porta
il mare

L'accompagnamento musicale lo fanno due detenuti: uno con il pettine e l'altro con rumori ascellari. Solo che, regolarmente, nel momento di maggiore commozione, sulla nuca di Giacinto arriva un oggetto contundente tirato da qualche detenuto dal cuore duro.
All'interno del carcere c'è una gerarchia occulta fra i detenuti. Qui vediamo (in canottiera bianca), vicino a Giacinto, uno dei tre componenti del gruppo più temuto e rispettato: si tratta de Il Sorcio (Raymond Bussières), noto per la sua furberia e per l'abilità manuale nel costruire aggeggi di ogni tipo.
Un altro componente del gruppo dei tre è il terribile Mario Tagliabue (Mario Adorf), condannato ad una lunga pena per aver ucciso il compare che l'aveva tradito con diciotto biciclettate dopo averlo inseguito per trenta chilometri. Nell'immagine ha l'espressione ancora più cattiva del solito perché un ascesso dentario lo sta facendo soffrire ferocemente.
Il terzo appartenente al gruppo è Papaleo (Gian Maria Volontè), un professionista laureato che ha ucciso con una fucilata un uomo che aveva rapporti con la sua fidanzata. Un forte senso dell'onore, naturalmente, ed una gran voglia di evadere per completare il delitto d'onore: la sua fidanzata, per il momento, l'ha passata liscia. A suo tempo, sul quel delitto d'onore, uscì un paginone su La Tribuna Illustrata.
Tagliabue, Papaleo e il Sorcio hanno preparato un piano di evasione in cui coinvolgono Giacinto, che di per sé non vorrebbe evadere perché spera nella buona condotta. Giacinto serve ai tre perché, raccontandogli delle storie, sanno che finirà per dirle al capo dei custodi, così loro potranno realizzare il piano vero, depistando i custodi. Il piano incredibilmente funziona, solo che i tre si trovano con un evaso in più, proprio Giacinto, che costituisce un inciampo.
Come si vede, il Sorcio non c'è: è andato a Roma promettendo di tornare da loro, ma chi s'è visto s'è visto (riapparirà più tardi). Dei tre che sono rimasti, l'unico ad avere le idee chiare è Papaleo, che vuole ritrovare la fidanzata fedifraga. Gli altri due non sanno esattamente cosa fare. Tagliabue e Papaleo vorrebbero liberarsi di Giacinto.
Ma quando si accorgono che Giacinto, rimasto da solo in mezzo alla strada, è un obiettivo troppo facile per le forze dell'ordine, lo chiamano e lo riprendono con loro.
Nello sguardo di Papaleo si coglie una assoluta determinazione: è riuscito a sapere dove sta attualmente la sua fidanzata. Lascia i due compagni di fuga perché deve vendicare del tutto il suo onore.
Nella fuga si inserisce un episodio drammatico. Giacinto e Tagliabue hanno bisogno di procurarsi degli abiti, per non girare vestiti da carcerati. In una cascina di campagna trovano una giovane donna con un figlio piccolo (il nome dell'attrice non lo so). Tagliabue, in camera, minaccia la madre prendendole il figlio piccolo, così la madre è costretta a dire al carabiniere di passaggio che non ha visto nessun evaso.
Successivamente Tagliabue cerca addirittura di usare violenza alla donna, ma interviene Giacinto, che quando ci sono dei bambini di mezzo diventa un altro uomo e che sottrae la donna a Tagliabue.
Papaleo è arrivato al posto dove si trova la sua fidanzata Olga (Luciana Buzzanca). Si tratta di una colonia estiva in cui la ragazza, che è con la madre, fa la cuciniera. Papaleo penetra nella stanza di Olga, che viene sorpresa mentre si sta lavando la testa e guarda atterrita Papaleo. Che succederà, adesso?
---
Ero arrivato alla scena drammatica in cui Papaleo (Gian Maria Volontè) ha finalmente ritrovato la fedigrafa fidanzata Olga (Luciana Buzzanca) e fra un po' racconterò gli sviluppi di questa intricata situazione. Intanto Tagliabue (Mario Adorf) e Giacinto (Nino Manfredi) hanno rintracciato a Roma (in Via Traversone 21) il Sorcio (Raymond Bussières) che cercava di nascondere il malloppo di una precedente azione criminosa. Naturalmente Tagliabue, come fa sempre in tali evenienze, gli dà un ben meritato liscio e busso. Tagliabue non è un perdonista: durante il film mena di brutto Giacinto almeno tre o quattro volte. Piccole colpe, quelle di Giacinto, Tagliabue cerca soltanto di insegnargli a vivere, ma non è facile, con Giacinto.
La fedifraga Olga è atterrita, e Papaleo (che deve completare il delitto d'onore) l'assale impugnando un coltello... no, si tratta di un cucchiaio carcerario trasformato in coltello, quindi Olga rimane leggermente ferita vicino alla spalla. Sorpresa! Malgrado che la ferita sanguini copiosamente, Olga capisce le ragioni di Papaleo, il fidanzato tradito: lei doveva nascondersi e lui doveva rintracciarla, ad ognuno il suo mestiere.
Infatti fra i sue c'è uno scambio in fondo affettuoso: Papaleo, non essendo riuscito ad ucciderla col cucchiaio carcerario, le versa l'alcool sulla ferita. Olga, rendendosi conto che Papaleo è affamato, gli porta un piatto coperto che contiene polpette preparate da lei per i bambini della colonia. Papaleo sembra gradire, le dice che le polpette hanno un sapore simile a quelle che mangiava in carcere. Non so se sia un complimento o no, ma la situazione fra di loro si tranquillizza: non essendo riuscito il delitto d'onore, Papaleo ed Olga decidono di andarsene insieme: riempiono una valigia e si portano dietro la madre di Olga. Andranno anche loro dal Sorcio.
Quando Papaleo entra in casa del Sorcio, ha l'aria del distinto professionista che è stato prima del delitto d'onore. Gli apre la porta la donna del Sorcio. Dopo una serie di qui pro quo vediamo di nuovo insieme i quattro evasi. Tutto bene, apparentemente.
Ma del Sorcio non ci si può fidare. Già aveva cercato di sottrarsi. Ora, poiché le forze dell'ordine hanno scoperto dove abita, è disposto a tradire, conducendo i poliziotti in casa sua dove ci sono ancora i compagni di evasione. Da cui un tentativo di fuga. Riescono a nascondersi Tagliabue e Giacinto. Papaleo è impicciato dalla moglie, dalla futura suocera, dalla valigia. Mentre sale sulla copertura del cinema , gli si apre la copertura sotto i piedi e Papaleo cade all'interno del cinema: c'est fini.
Tagliabue e Giacinto si nascondono all'interno di una vecchia nave praticamente in disarmo. Giacinto viene a sapere che sua moglie Ileana (Valeria Moriconi), sfrattata da dove abitavano prima, vive in una casa di fortuna non lontana da lì. Mentre Tagliabue, di nuovo in preda all'ascesso dentario, rimane sulla nave, Giacinto va a trovare la famiglia. Scopre che la moglie adesso vive con un certo Coppola (Ferruccio De Ceresa), un poveraccio malato di silicosi, che però è una fortuna che ci sia. D'accordo, è l'amante di Ileana, ma senza di lui non saprebbero neppure dove andare a sbattere la testa. E' affezionato sia ad Ileana che ai bambini, fa quello che può per loro. Dopo qualche schermaglia Ileana e Coppola vengono al dunque: è stata messa una taglia sui due evasi. Basterebbe che ci si mettesse d'accordo: Giacinto racconta a loro dove sta nascosto con Tagliabue e loro incassano la taglia. Giacinto per un po' nicchia, poi si rende conto che è l'unica soluzione: chi penserebbe altrimenti a sua moglie ed ai figli? La taglia su Giacinto è di un milione, ma Ileana e Coppola dicono che serve anche la taglia su Tagliabue, un altro bel milione, così un bambino va a scuola in un buon istituto. Giacinto non vorrebbe tradire l'amico Tagliabue, ma non c'è niente da fare: quei soldi servono. Così Giacinto torna alla vecchia nave in disarmo, estrae con le tenaglie il dente a Tagliague ed aspetta. Dopo un po' arrivano le forze dell'ordine, i giornalisti sono tutti attorno a Giacinto, che hanno individuato come il vero capo della banda degli evasi.
Giacinto si volta e vede la sua famiglia (compreso Coppola) che ha appena beneficato che lo guarda dal molo. Chissà quando li rivedrà e se li rivedrà.
Un film in cui si ride giustamente poco, ma una fusione quasi pefetta fra due generi: il picaresco e il tragico. Solo Luigi Comencini poteva riuscirci. Nel 1960, un anno prima, aveva girato Tutti a casa, un film a cui in fondo A cavallo della tigre è molto simile.

I giorni del Commissario Ambrosio - Sergio Corbucci (1988)

$
0
0

TITULO ORIGINAL I giorni del Commissario Ambrosio
OTROS TITULOS Grazie Commissario, Maledetto Ferragosto
AÑO 1988
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 98 min.
DIRECCION Sergio Corbucci
ARGUMENTO Renato Olivieri, Giorgio Arlorio, Cesare Frugoni
GUION Giorgio Arlorio, Cesare Frugoni, Sergio Corbucci
MONTAJE Ruggero Mastroianni
ESCENOGRAFIA Marco Dentici
FOTOGRAFIA Danilo Desideri
MUSICA Armando Trovajoli
VESTUARIO Bruna Parmesan
REPARTO Ugo Tognazzi, Carlo Delle Piane, Claudio Amendola, Cristina Marsillach, Amanda Sandrelli, Duilio Del Prete, Rossella Falk, Elvire Audray, Carla Gravina, Athina Cenci, Pupella Maggio,Teo Teocoli, Elio Crovetto, Sal Borghese 
PRODUCCION Claudio Bonivento para Numero Uno International, Reteitalia
GENERO Policial

SINOPSIS Il commissario Ambrosio indaga sulla morte di un playboy pregiudicato per droga e prostituzione. La testimonianza di un violinista non convince e questi, messo alle strette, confessa di essere l'assassino. Ma è solo un tentativo per coprire il vero colpevole, cosa che non sfugge a un uomo di grande esperienza come Ambrosio. (Film Scoop)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

Trama 
In procinto di partire per le vacanze con Emanuela Quadri, da anni sua compagna, il gioviale commissario Ambrosio è costretto ad indagare sulla morte di Vittorio Borghi, un libertino danaroso dai molti precedenti penali. Insospettito dalla deposizione esitante di Renzo Bandelli, testimone dell'accaduto - un volinista che vive "separato in casa", con la moglie Giulia e la figlia Sandra - il commissario Ambrosio - a seguito di questa malaccorta testimonianza in parte suffragata da Rosa Cuomo, un'anziana stravagante signora - con l'aiuto del suo fedele collaboratore Luciano mette alle strette Bandelli che ammette di essere colpevole della morte di Borghi avvenuta a causa di un diverbio stradale. Questa confessione non convince il commissario il quale, indagando sul torbido passato di Borghi, scopre che questi, dopo una lunga relazione con la giovane Sandra Bandelli, aveva trasformato la ragazza in una eroinomane: ad uccidere l'uomo era stata lei stessa per liberarsi sia dalla droga sia dalle squallide attenzioni di Borghi.
---
Deludentissima trasposizione cinematografica di uno dei gialli milanesi scritti da Renato Olivieri con al centro la sua più famosa creatura letteraria, il commissario Ambrosio. Quanto di più vicino a Simenon e Maigret si sia mai avuto nel nostro paese. Milano come quella Francia borghese, e soprattutto piccolo-borghese, plumbea, di piccole, anguste vite e piccoli, ignibili vizi nascosti e ipocrisie capaci di produrre il massimo dell’abiezione. Solo che alla regia c’è Sergio Corbucci, ottimo e a volte anche grandissimo regista (Django, Il grande silenzio), ma che non può essere in sintonia con i climi e le tenebre che incombono sui navigli di Olivieri, non può e non sa restituirne l’ambiguità. Tutto inesorabilmente tende verso la commedia all’italiana, peraltro in quegli anni – era il 1988 – ridotta a spettro di se stessa, snaturando il romanzo di partenza. L’inchiesta parte da una strano incidente al parco in cui perde la vita uno che Ambrosio scoprirà essere appartenuto al milieu criminale, spacciatore, sfruttatore di donne. La verità atroce, come spesso anche in Simenon, si nasconde tra le pieghe di un’apparente buona famiglia borghese. Ugo Tognazzi prende quale commissario Ambrosio il posto di Lino Ventura, scomparso subito dopo l’inizio delle riprese. Nel cast ci sono Carlo Delle Piane, Carla Gravina, Amanda Sandrelli, Pupella Maggio, un giovane Claudio Amendola e la sempre imperdibile Rossella Falk. Il film, pur con i suoi limiti, ha almeno il pregio di rircordarci i libri di Renato Olivieri, autore notevole, già storico direttore alla Mondadori del settimanale Grazia.


Una perla di Corbucci purtroppo rarissima ma semplicemente bellissima. Ispirandosi al romanzo "Maledetto ferragosto" di Renato Olivieri, Corbucci, assieme al resto degli sceneggiatori, realizza questo unico film sulla figura sublime del commissario Ambrosio, interpretato straordinariamente da Ugo Tognazzi. Il piano sequenza in cui lui arriva, subito dopo i titoli, in strada, col cappottone e il suo passo lento e malinconico è STORIA. Il giallo è molto coinvolgente e intrigante; il resto del cast se la cava molto bene, Delle Piane e Amendola in primis.
anthonyf


Lazzarella - Carlo Ludovico Bragaglia (1957)

$
0
0

TITULO ORIGINAL Lazzarella
AÑO 1957
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 97 min.
DIRECCION Carlo Ludovico Bragaglia
GUION Ugo Guerra, Giorgio Prosperi, Riccardo Pazzaglia
REPARTO Roy Ciccolini, Rossella Como, Luigi De Filippo, Aurelio Fierro, Madeleine Fischer, Riccardo Garrone, Mario Ambrosino, Terence Hill, Dolores Palumbo, Alessandra Panaro, Tina Pica, Turi Pandolfini, Domenico Modugno, Irene Tunc
FOTOGRAFIA Raffaele Masciocchi
MUSICA Carlo Rustichelli
PRODUCCION Titanus, Compagnia Generale Cinematografica
GENERO Comedia

SINOPSIS Entrambi studiano e si amano. Quando il padre di lei è rovinato, accetta la corte di un amico molto ricco. Equivoco, separazione, lieta fine. Un film Titanus come tanti, d'ambiente napoletano, ispirato all'omonima canzone di Modugno. Grande successo popolare: 3° posto in classifica della stagione 1957-58. (Il Morandini)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

TRAMA
Luciano, che studia, all'Università, s'innamora di Sandra, studentessa di liceo, la quale ricambia il suo amore. Sandra appartiene a ricchissima famiglia, mentre la famiglia di Luciano dispone di modesti mezzi; ma questa differenza di condizione non turba il loro amore, mentre la laurea di Luciano dà loro nuova gioia, accrescendo la speranza di un felice avvenire. Accade che mentre Sandra è in montagna con la famiglia, durante le vacanze, suo padre è costretto a recarsi all'estero, in seguito ad un improvviso dissesto finanziario, che porterà la sua azienda al fallimento. Questo è un grave colpo, che modifica radicalmente le condizioni della famiglia, ridotta ormai in povertà. Presa dallo sconforto Sandra, per venire in aiuto ai suoi, accetta le premure di un amico d'infanzia, molto ricco, e decide di sposarlo. Intanto arriva Luciano, desideroso di passare qualche giorno con lei, ma Sandra gli fa subito capire che ha cambiato idea e non pensa più ad un loro possibile matrimonio. Luciano, che ignora le vere ragioni del brusco cambiamento di Sandra, reagisce violentemente e, tornato a casa, si mette a corteggiare una bella straniera. Dopo qualche tempo, Luciano, che sta per lasciare la sua città per trasferirsi all'estero con l'amica, incontra un giorno Sandra. Ella non si è sposata, uniformandosi al consiglio della madre, contraria ad un matrimonio d'interesse. La famiglia si va riassestando, anche la madre lavorerà per aiutare il padre a rifarsi una posizione. Si chiarisce ogni equivoco; i due sono felici di essersi ritrovati, perché si amano sempre.


Carlo Ludovico Bragaglia, un artigiano totale

Carlo Ludovico Bragaglia (Frosinone 1894 - Capri, 1998) è uomo dai mille record, non ultimo la longevità, perché muore a 104 anni, dopo aver girato una quantità industriale di pellicole, di ogni genere commerciale. Il fratello è Anton Giulio Bragaglia (Frosinone, 1890 - Roma, 1960), meno longevo e meno commerciale, autore futurista impegnato a rinnovare l’arte della fotografia e buon autore teatrale. Anton Giulio Bragaglia lascia solo quattro pellicole: Thaïs (1916), Il mio cadavere (1916), Il perfido incanto (1917) e Vele ammainate (1931). La sua opera surrealista ed espressionista non ha niente a che vedere con la foga produttiva del fratello che si dedica soltanto al cinema di genere e lo percorre in lungo e in largo senza lasciarsi affascinare da intenzioni autorali.
Carlo Ludovico e Anton Giulio Bragaglia sono figli di Francesco, direttore generale della Cines, mentre un altro fratello è Arturo (1893 - 1962), caratterista di modesto spessore. Carlo Ludovico interrompe gli studi per dedicarsi al teatro insieme ad Anton Giulio, fonda la Casa d’Arte Bragaglia (1918) e in seguito il Teatro degli Indipendenti. Si avvicina al cinema alla fine degli anni Venti come fotografo di scena, montatore, sceneggiatore e persino documentarista per la Cines. Non esiste branca del cinema che Carlo Ludovico Bragaglia non abbia sperimentato, grande conoscitore della materia ed esperto tecnico di luci ed effetti. Vele ammainate (1931), girato dal fratello, vede la sua collaborazione tecnica, ma dirige il primo film in proprio a quarant’anni: O la borsa o la vita (1933), insolito per il periodo storico, perché intriso di elementi surreali, anche se la narrazione resta di taglio popolare. Il protagonista è un agente di borsa che crede di aver rovinato un amico, per questo pensa di poter rimediare facendosi uccidere. Ha contratto una polizza vita e in caso di incidente  mortale i suoi eredi potranno rimborsare l’amico dei soldi perduti. La prima pellicola di Bragaglia entusiasma la critica per l’originalità di una storia paradossale e per le molte situazioni surreali. Il film risente della lezione di René Claire e delle suggestioni futuriste, al punto che la  critica è unanime nel definirlo il miglior film di Bragaglia. Sergio Tofano è bravissimo nei panni di uno stralunato protagonista che le prova tutte come aspirante suicida: entra nella fossa dei leoni allo zoo, sale su un aereo impegnato in pericolose acrobazie, finisce in un covo di pazzi fuggiti dal manicomio e accetta un incarico da kamikaze. La pellicola deriva da una commedia radiofonica scritta da Alessandro De Stefani (La dinamo dell’eroismo), sceneggiata dal regista con la collaborazione di Gino Mazzucchi.
Carlo Ludovico Bragaglia dirige ben 64 pellicole, ma nelle successive cambia completamente registro. Il suo stile diventa popolare, il tono è quasi sempre da farsa anche se mai fine a se stessa, cita le comiche del periodo muto, si ispira ai temi teatrali della pochade e della commedia degli equivoci. Bragaglia ama fare cinema popolare destinato al pronto consumo della platea, commedie sentimentali, leggere, interpretate da attori come Porelli, De Sica, Melnati, Viarisio… (Tutta la vita in ventiquattro ore, 1943 - girato in piena guerra mondiale). Tra i suoi attori prediletti troviamo il grande Totò, che guida in alcuni dei lavori migliori, come Animali pazzi (1939), secondo film in carriera del comico napoletano. I telefoni bianchi sono il pane di Bragaglia, su tutti citiamo Pazza di gioia (1940), ma si dedica pure a trasposizioni teatrali importanti come Non ti pago! (1942), interpretato dai fratelli De Filippo al gran completo (Eduardo, autore della commedia, Peppino e Titina). Ricordiamo anche un garbato Barbablù (1941), storia di un misogino che ospita una ragazza scappata di casa per sfuggire al matrimonio. Nel dopoguerra il regista ciociaro gira pellicole a ritmi forsennati e si pone all’attenzione degli storici del cinema come uno dei registi italiani più prolifici di tutti i tempi. Bragaglia fa più attenzione alla quantità che alla qualità, confeziona prodotti validi destinati a un pubblico di bocca buona, dichiaratamente commerciali.
Tra i migliori film girati da Bragaglia che vedono interprete il principe Antonio De Curtis citiamo: Totò le Mokò (1949), Totò cerca moglie (1950), 47 morto che parla (1950), Figaro qua… Figaro là (1950). Totò le Mokò è una parodia dei polizieschi francesi interpretati da Jean Gabin, 47 morto che parla vede un Totò avarissimo che scende all’inferno prima di tirar fuori i soldi, ma soprattutto segna l’incontro tra il principe della risata e Silvana Pampanini, un amore contrastato al quale dedicherà la famosa Malafemmina. Figaro qua… Figaro là è un insolito tentativo di costruire una commedia dalla trama de Il barbiere di Siviglia, ma la sceneggiatura rischia di imbrigliare l’estro di Totò. Le sei mogli di Barbablù (1950) è un altro Totò - movie, l’ottavo interpretato dal popolare comico nell’anno di grazia 1950, questa volta tutto improvvisazione, compreso il numero della marionetta disarticolata. Barbablù è il killer di cinque moglie e ha un petto così villoso da farlo sembrare Mister Hyde. Nel cast anche Sophia Loren, molto giovane, al punto che si fa ancora chiamare Sofia Lazzaro. I film interpretati da Totò girati da Bragaglia e da Steno (per non parlare di Rossellini e di Pasolini) sono a un livello superiore rispetto alle opere di Mattoli, perché si sente la regia e la mano di autori che cercano di imbrigliare il talento comico in una solida struttura narrativa.
Una bruna indiavolata (1951) è una farsa a base di doppi sensi ed equivoci di varia natura interpretata da Ugo Tognazzi e Silvana Pampanini. Soggettisti e sceneggiatori sono Age, Scarpelli, Metz, Marchesi, Vecchietti e Amendola. Pure troppi per un risultato modesto. L’eroe sono io (1952) vede all’opera un altro grande della risata come Renato Rascel, attore dalla comicità slapstick difficilmente imbrigliabile in una trama, che fa coppia con la diva sexy Delia Scala per raccontare una storia felliniana sul mondo dei fotoromanzi. Bragaglia è molto attivo nel peplum, dove lascia alcuni lavori di buona fattura, veri e propri esempi per chi vuole misurarsi con il genere. Il peplum è un tipo di film che ha successo perché non si cura di fare puntuali analisi storiche, ma punta direttamente ai valori fondanti del mito e sulla loro importanza nella realtà contemporanea. Maciste, Ercole, Ursus, Thaur, Goliath diventano i portavoce dei desideri e delle aspirazioni delle masse. Carlo Ludovico Bragaglia gira La cortigiana di Babilonia (1955), La Gerusalemme liberata (1957), Annibale, (1959) - un film storico più che un peplum -, Gli amori di Ercole (1960), Le vergini di Roma (1961), Ursus nella valle dei leoni (1961). Sono interessanti anche alcuni film storici (Il segreto delle tre punte, 1952) e diverse pellicole cappa e spada (A fil di spada, 1952 - La spada e la croce, 1958).
Bragaglia si ricorda anche per molte commedie sentimentali garbate e di buon successo come Lazzarella (1957) e Io, mammeta… e tu (1958), tratta da una canzone di Domenico Modugno e interpretata dal popolare cantante insieme a Marisa Merlini. È permesso maresciallo? (1958) è ancora una buona storia d’amore che risente del successo dei fotoromanzi, interpretata da Peppino De Filippo, Memmo Carotenuto, Lorella De Luca e Giovanna Ralli. Le cameriere (1959) è un giallo rosa con Andrea Checchi e Valeria Morriconi, ambientato in un condominio, che vede un gruppo di cameriere a caccia d’un ladro.
La carriera di Bragaglia finisce in farsa con due modesti lavori che vedono in campo un buon cast di comici poco amalgamato tra loro. Il primo è I quattro monaci (1962), una farsa di ambientazione storica interpretata da Aldo Fabrizi, Erminio Macario, Peppino De Filippo e Nino Taranto, quattro ladruncoli travestiti da frati. L’ultimo film di Bragaglia è I quattro moschettieri (1963), un cappa e spada comico ancora una volta interpretato da Aldo Fabrizi, Nino Taranto, Erminio Macario e Peppino De Filippo. Ci sono anche come comprimari interessanti Carlo Croccolo, Lisa Gastoni, Georges Rivière, John Francis Lane, Francesco Mulé e Alberto Bonucci. Bragaglia lascia il cinema con una farsa approssimativa, ben recitata dagli attori, ma senza molto nerbo come parodia dell’opera di Alexandre Dumas.
Gordiano Lupi

Le castagne sono buone - Pietro Germi (1970)

$
0
0

TITULO ORIGINAL Le castagne sono buone
AÑO 1970
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 108 min.
DIRECCION Pietro Germi
GUION Pietro Germi, Piero De Bernardi, Tullio Pinelli, Leo Benvenuti
REPARTO Gianni Morandi, Stefania Casini, Nicoletta Rangoni Machiavelli, Milla Sannoner, Memè Perlini, Gigi Reder, Patricia Allison, Giuseppe Rinaldi, Steffen Zacharias, Cinzia Sperapani, Corrado Solari, Amedeo Trilli, Elisabetta Bramini, Silla Bettini, Giancarlo Nanni, Fortunato Cecilia, Anna Maria De Mattia, Pino Ferrara
FOTOGRAFIA Aiace Parolin
MONTAJE Sandro Lena
MUSICA Carlo Rustichelli
PRODUCCION R.P.A./RIZZOLI FILM
GENERO Comedia

SINOPSIS L'altalena d'amore tra un giovane regista finto cinico e una studentessa sportiva, garrula e pura è il tema del più brutto film di P. Germi, in altalena, lui, tra la misoginia e la mitizzazione della donna (vergine). (Il Morandini)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

TRAMA: 
Luigi Vivarelli, un giovane regista cinico e donnaiolo, conosce, in occasione di una trasmissione televisiva, una studentessa, Carla Lotito, orfana di padre, che si è trasferita dalla Campania a Roma presso sua sorella Teresa, separata dal marito. Abituato alle facili avventure, Luigi si trova questa volta alle prese con una ragazza diversa dal solito: moderna, sportiva, cameratesca, Carla ha conservato un'immacolata purezza di sentimenti, crede nella bontà, nella fratellanza, nell'amore del prossimo. Prima di cedergli, vuole essere sicura dei sentimenti di Luigi e quando, durante una gita ad Amalfi, in cui l'ha presentato a sua madre, cade finalmente fra le braccia del suo ragazzo questo preferisce allontanarsi, deciso, pur volendole bene, a conservare la propria indipendenza. Ripresa la sua solita vita, Luigi ritrova, in casa di un medico, Teresa, che, delusa dall'ultimo amico, ha tentato di uccidersi. A quella vista si commuove, ripensa a Carla, scopre di amarla più che mai e, ormai disposto a cambiar vita, si precipita da lei.

Le castagne sono buone. E sono buoni anche i sentimenti, la famiglia, la vita sana, i pensieri onesti. Non sono buone, invece, le droghe, le proteste, le avanguardie progressiste, le barbe hippy, le erotomanie. Questa la tesi controcorrente, ma tutt’altro che sbagliata, del film di oggi, diretto da Pietro Germi e scritto, con lui, da Leo Benvenuti, Pieno De Bennardi e Tullio Pinelli. A sostegno di questa tesi, già anticipata in chiave rurale da Serafino, ci sono proposti, in chiave cittadina, i casi di una brava ragazza, Canla, che si innamora di un regista della TV, Luigi, tipico esponente della gioventù di oggi.
Gian Luigi Rondi. Il tempo


Trama
Luigi Vivarelli è un regista televisivo, nonché impenitente donnaiolo. Durante le riprese di una trasmissione sul tema del disagio giovanile, conosce Carla Lotito, studentessa di architettura fuorisede, e ne è subito attratto. Ma Carla non è come tutte le donne frequentate da Luigi: cattolica praticante, crede nei veri, semplici valori della vita ("le castagne sono buone", come le scrisse il padre morto su un biglietto in un momento di sconforto) e cerca di renderne partecipe il suo spasimante.
Ella ha una sorella, Teresa, che è il suo esatto contrario: assai disinibita, attrice di teatro sperimentale (durante una recita, lo spettacolo viene interrotto dall'irruzione della polizia che arresta tutti gli attori per oscenità), e con figlioletta a carico avuta da padre ignoto.
Luigi è molto scettico: egli è un uomo profondamente sfiduciato ("la maggior parte delle persone non vale neanche la pena di incontrarla"), mondano e superficiale, e non crede nella solidarietà umana: una sorta di reality-cam da lui girata in una strada di Milano, dove un attore finge un malore e stramazza al suolo senza che nessuno lo soccorra, sembrerebbe confermare le sue "teorie", causando l'allontanamento di Carla.
Luigi così per qualche tempo si dedica al lavoro, e si fa negare in ufficio e al telefono. Solo poco dopo, pentito, ritorna da Carla, e la accompagna insieme alla nipotina al di lei paese natale. Qui, ospite della madre della ragazza e dei suoi amici, assapora per la prima volta quella vita semplice e spensierata che ella ostenta. Ma un nuovo rifiuto di Carla a "concedersi" porrà fine alla parentesi felice.
Ritornato a Roma, durante una sera pokeristica a casa di un amico, Luigi reincontra Teresa, ubriaca e sotto l'effetto di stupefacenti. E grazie alla cattiva reazione dei suoi compagni, mosso a pietà per la prima volta, il giovane saprà aiutarla, e mediante lei- ed un documentario sui "veri valori" che egli gira subito dopo- si riconcilierà definitivamente con Carla, con l'intenzione di metter su famiglia al più presto.

Commento
Nonostante la presenza di Gianni Morandi e la sceneggiatura dei fidi Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi e Tullio Pinelli, il film è considerato dalla critica[senza fonte] come il peggiore di Germi, ormai in fase calante dopo la fortunata stagione della commedia all'italiana.

Location
* Le scene del paese sono state girate a Cetara, in Provincia di Salerno, dove ancora oggi il ricordo delle riprese del film è ancora vivissimo tra gli abitanti.
* Altre scene sono state girate a Castel San Pietro Romano, in Provincia di Roma, e sulla spiaggia di Sperlonga.
---
Bhe, in effetti le castagne sono solo un simbolo in questo film di Pietro Germi del 1972.
E' la storia di un regista televisivo, Luigi Vivarelli, donnaiolo e superficiale che conosce ed è attratto da Carla Lotito, studentessa di architettura e cattolica praticante.
Carla per esprimere il proprio credo nei veri, semplici valori della vita utilizza "le castagne sono buone" come aforisma, ripetendo un'espressione del padre morto.
Da questo amore fra due caratteri opposti e l'arrivo della sorella Teresa, attrice fallita ed assai disinibita, si sviluppa un film non straordinario; anzi generalmente considerato il peggiore di Germi.
Il film porterà Luigi a lasciare la sua vita da vitellone, iniziare un film sui "veri valori" e metter su famiglia assieme alla cattolica Carla.
E' interessante però notare come le castagne diventino simbolo di questa ricerca di una normalità nella tradizione e nella semplicità.
Sono finiti gli anni '60, iniziati da Fellini con la "Dolce vita"; le ricette per un ritorno alla realtà sembrano oscillare da "formidabili quegli anni" di chi si rifugia (e talora sfrutta abilmente) l'impegno in politica e coloro, come Germi, che indicano un ritorno ad uno stato più semplice, legato alla natura e garantito dai valori della tradizione.
Un aspetto minore è il notare come il consumo delle castagne fosse letteralmente crollato dopo la guerra: le castagne ricordavano quegli anni di privazioni, di fame, di povertà, cose da cancellare nell'Italia del boom.
Anche a causa dell'abbandono della montagna e dei tagli indiscriminati dei boschi, in pochi anni si passa da una produzione nazionale di circa 6 milioni di quintali a poco più di 500.000.
Le castagne nei mercati all'ingrosso costano meno delle mele.
La ripresa inizia proprio nei '70, quando le stesse pulsioni emotive, filtrate dal tempo, si trasformano: non più "povertà" ma "semplicità", non più "fame" ma "ricerca della moderatezza".
Le castagne ricordano tempi (della cui durezza si è persa la reale misura) in fondo meno complessi, in cui i "valori" garantivano un andamento rassicurante, in completa antitesi con la destrutturazione di regole della tradizione attuate nel decennio precedente. Quindi non una vera reazione, ma un semplice stato momentaneo in cui nascondersi dall'irruzione di un mondo in cambiamento visto come troppo accelerato.
Pulsioni che però saranno destinate ad esercitare un impatto permanente sui decenni successivi, basti pensare ad alcuni aspetti del complesso pensiero di SlowFood, e soprattutto ai vari epigoni minori, che sembrano offrire un approdo, "ovviamente" per il week-end ed a pagamento, dalla realtà quotidiana.

La Orca - Eriprando Visconti (1976)

$
0
0

TITULO ORIGINAL La orca
AÑO 1976
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACION 90 min.
DIRECCION Eriprando Visconti
GUION Roberto Gandus, Lisa Morpurgo, Eriprando Visconti (Historia: Eriprando Visconti)
MUSICA Federico Monti Arduini
FOTOGRAFIA Blasco Giurato
REPARTO Rena Niehaus, Gabriele Ferzetti, Flavio Bucci, Carmen Scarpitta, Bruno Corazzari, Piero Faggioni, Piero Palermini, Michele Placido, Miguel Bosé, Otello Toso, Jacopo Tecchi, Vittorio Valsecchi, Enzo Consoli, Gianni Bortolotti, Eleonora Morana
PRODUCTORA Serena Film '75 / Serena
GENERO Thriller. Drama | Crimen. Erótico

SINOPSIS Gino, Paolo y Michele (calabrés emigrado a Pavía) son tres desarraigados, que se dedican al contrabando y a la búsqueda de dinero fácil. Cuando reciben el encargo de secuestrar a Alice, hija de un rico industrial, ejecutarán su labor del modo que pueden, porque no son profesionales y durante un mes tendrán a su merced a la joven de dieciocho años, viviendo en unas condiciones deplorables en un caserío abandonado. Será el más joven e inexperto de los secuestradores, Michele, quien se encargue de la custodia de Alice y entre ambos se desarrollará un perverso juego de seducción, amor y odio, que tendrá consecuencias en el desenlace de la historia. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

Subtítulos (Español)


La giovane studentessa Alice viene sequestrata a scopo di riscatto e portata in un casolare in campagna. Dovrà convivere con i suoi aguzzini, instaurando un rapporto a sfondo sessuale con uno di essi....

Film  scabroso, che suscitò molto scalpore alla sua uscita negli anni ’70, per alcune scene molto esplicite, la pellicola è opera matura del nipote di Luchino Visconti, Eriprando Visconti, figura singolare del cinema italiano di quegli anni.
Di suo si ricorda il seguito di La Orca, ovvero Oedipus Orca e film come Una spirale di nebbia (che vede tra le attrici la musa di Truffaut, Claude Jade) e Malamore. Si ritirò presto dalla vita cinematografica attiva, per problemi di salute, ma seppe con le sue opere innovare, spingendo oltre la camera, esplorando senza pudori i corpi umani e la sessualità.
Un cinema d’autore per l’accuratezza dei dettagli, per la ricercatezza della fotografia, delle scenografie, per la scelta sempre calibrata delle musiche (in La Orca sperimenta le musiche elettroniche prodotte dal sintetizzatore e composte dall’allora in voga Federico Monti Arduini-Il Guardiano del Faro), ma che sa osare anche partendo da storie che, a prima vista, potrebbero sembrare banali, ma comunque radicate nel contesto sociale di quegli anni (anni settanta).
La storia è infatti la storia di un rapimento a fine di estorsione: una giovane studentessa viene rapita da una banda di squinternati, che la segrega in un casolare della provincia pavese e chiede un cospicuo riscatto al padre. Questi, tuttavia, non si lascia raggirare, costringendo la figlia a un prolungato sequestro ove dovrà subire le sevizie del gruppo di deliquenti.
Ma ciò che è singolare è il rapporto che si viene a costituire tra la ragazza (interpretata da una magnifica e bravissima Rena Niehaus) e uno degli aguzzini, un giovane Michele Placido.
Si tratta di una vera e propria sindrome di Stoccolma, come già avevamo visto ne Il portiere di notte della Cavani, ma con dei risvolti particolari.
L’amore tra carceriere e prigioniera è un amore morboso: Placido si lascia andare a molte fantasie erotiche che realizza a volte di soppiatto, altre volte apertamente; la ragazza non sembra turbata da questo comportamento, ma lo asseconda e lo stimola, salvo poi rinnegarlo nel finale.
È proprio il finale che ci sorprende perché rivela la natura ambigua della protagonista, e ne svela le pulsioni più profonde, sovvertendo le carte in tavola.
Vi è in nuce una critica di Visconti alla società, quasi che la gente semplice, debba fare i conti con l’ambiguità di certa borghesia altolocata, che ne approfitta della propria posizione per tenere un atteggiamento moralmente ambiguo.
È un sentire comune di certo cinema di quegli anni, basti pensare al cinema di autori come Aldo Lado, che tratteggia figure molto ambigue in pellicole come L’ultimo treno della notte.
I personaggi, seppur spesso macchiettistici, sono ben calibrati e costruiti, rifacendosi a degli stereotipi tipici del cinema di genere.
Le scene esplicite  consigliano la visione di questo film ad un pubblico adulto, e potrebbero comunque turbare i più sensibili.
Erotismo e critica sociale si intersecano regalandoci una pellicola che potrebbe richiamare per i suoi toni, (con i dovuti distinguo) il cinema messicano di Carlos Reygadas. Un cinema che cerca strade nuove nel panorama del film d’autore.
Francesco Carabelli


La Orca es un filme extraño. No por su tema o su significado, más bien por lo serio que toma una trama que no da para mucho, aún con eso, no se hace un filme aburrido, lento quizá, pero técnicamente pasable.
La Italia de los setentas vivía una época de criminalidad como en pocas fechas. Con la Brigada Roja ‘ocupando’ Italia en los setentas, todo a su alrededor cambió, incluido el cine. Es justo por esos años que van naciendo y reapareciendo géneros de acción y horror que de una u otra manera reflejan el momento que se vivía en la Roma. Los giallo, con un tono más slasher y en casos, sobrenatural tuvo como contraparte el llamado eurocrime o poliziotteschi, policías contra criminales que en la mayoría de los casos viajaban por varias partes de Europa para hacer el filme más exótico y en contadas ocasiones se les añadía elementos de comedia.
Es en estos tiempos cuando el filme de Eriprando Visconti (sobrino de Luchino Visconti) aparece en pantallas, y aunque el planteamiento de un secuestro parece un tema ‘natural’ de la época, el director decide añadirle mucho drama y resulta en un revoltijo superfluo de erotismo y un extraño síndrome de Stendhal.
El filme inicia con una mañana común, una chica sale de su casa para encontrarse con una amiga de la escuela al parecer. Por otro lado, un hombre llega en tren y asecha a su primera víctima: Un hombre que baja de su auto para dirigirse a otro lugar. Su auto desaparece en pocos segundos. El ladrón se reúne con otros tres hombres a lo largo del camino, pero no vemos la relación que tiene con ellos, no hay nada de diálogo y parecería algo que ellos ya han hecho antes por la naturalidad y monotonía con que actúan.
Tres de ellos van en el auto robado y secuestran, a pleno día a Alice (Rena Niehaus) rumbo al colegio. Gente a su alrededor logra ver la escena pero los criminales escapan a toda velocidad. En otra parte de la ciudad, otro hombre alista su camioneta para encontrarse con sus colegas después del secuestro y prestarles la camioneta, para así después dirigirse a la casa abandonada donde Alice pasará los siguientes días confinada.
Cada filme de secuestros, y más allá, la relación de la víctima con sus plagiarios, tiene algo diferente, lejos de ser algo predecible y que al final en la mayoría de filmes, los criminales tienen su merecido, en pleno desarrollo de la trama debe haber algo único que no se haya visto antes. Si se quiere llegar a extremos, puede agregársele un tono sobrenatural o un twist que defina al filme no por su subgénero sino por su elemento sorpresa. Desgraciadamente, Visconti intenta agregarle el tono sexual al filme, pero aunque eso llega quizá a definirse bien en la cinta, todo a su alrededor, incluyendo los demás personajes carecen de ese elemento no-predecible.
Incluso, el director sigue a uno de los plagiarios a su hogar, intentado ilustrar la vida detrás del hombre, pero esto no es solo innecesario sino que parece una excusa para tener otra escena sexual con su pareja. Ese personaje junto a los otros tres, están dentro de una mafia que por fuera distribuye cigarros a comercios, pero también en este ambiente, Visconti intenta darle el trasfondo de la corrupción, y aunque cumple denotando la historia de ese tiempo en Italia, en el filme tiene poca o nada de relevancia.
En la película, el tema central es Alice y su influencia sexual sobre sus secuestradores, pero específicamente sobre uno de ellos, el más joven llamado Michele (Michele Placido) quien es el que se queda en la casa cuidándola y alimentándola mientras los otros arreglan la propia extorsión y sus problemas personales con la mafia que los empleó para el acto.
Niehaus, de nacionalidad alemana y quien un año después del estreno del filme sería portada de Playboy Italia, en el papel de Alice exuda la sensualidad que la caracteriza y eso lo utiliza a su favor, tratando de hacer que su captor se enamore de ella, y no tarda mucho en lograrlo. Este elemento en sí luce, a primera vista con mucho potencial, y tomar el punto de vista de Alice, pero Visconti no lo hace, se enfoca más a sus captores dejándola a ella como una traidora que se muestra ya al final del filme. Sin duda es manipuladora, e incluso podría decirse que ella, la típica adolescente no comprendida por sus padres, le gusta ser abusada y atada, aunque llega a hartarse de ello y tarde o temprano tomará su decisión.
Pero como Alice, Michele parece ser un personaje complejo. No tarda mucho en tener una fijación por ella y lo que representa como mujer ‘esclavizada’. A él le gusta tenerla a su merced, entrar de noche mientras ella duerme, a desvestirla y tocarla. Tiene también, recurrentes sueños con ella que rozan lo surrealista, haciendo aún más grande su deseo de no separarse de ella y llegar a confiar, quizá demasiado, en Alice quien tiene sus propios planes.
La Orca, tiene un desenlace ya muy utilizado pero dentro de lo que cabe, muy realista. En los filmes de secuestros solo hay de dos: la protagonista la libra y los criminales son castigados o la capturada se les une y realmente no es la persona ‘buena’ que nos venden desde un inicio. Un filme que bien rompe con este esquema puede ser The Disapearance of Alice Creed con Gemma Arterton, filme cuyo final, es muy original, desgraciadamente no como el filme de Visconti. Su secuela Oedipus Orca, se centra en uno de los protagonistas, pero llega a ser más que innecesaria centrándose solamente en el libido de este y sin trama aparente. Sin embargo, por los dos personajes protagonistas y sus íntimos momentos de conversación, llega a ser atrayente, haciendo olvidar a la mayoría de la audiencia, que aquí hay un villano y una plagiada, aunque, quizá nos equivoquemos con ese adjetivo que le damos también a ella.

Cuori senza frontiere - Luigi Zampa (1950)

$
0
0

TITULO ORIGINAL Cuori senza frontiere
AÑO 1950
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 87 min.
DIRECCION Luigi Zampa
GUION Clare Catalano, Piero Tellini
MUSICA Carlo Rustichelli
FOTOGRAFIA Carlo Montuori
PREMIOS 1952: Círculo de críticos de Nueva York: Nominada a Mejor película extranjera
REPARTO Gina Lollobrigida, Raf Vallone, Erno Crisa, Cesco Baseggio, Enzo Staiola, Ernesto Almirante, Gino Cavalieri, Fabio Neri, Mario Sestan
PRODUCTORA Lux Film
GENERO Drama | Años 40

SINOPSIS Después de la Segunda Guerra Mundial, los aliados designan una ciudad no identificada en el área de Trieste como parte de Yugoslavia e Italia parcialmente. Una línea blanca de demarcación divide la ciudad en dos y la gente del pueblo tiene poco tiempo para decidir a qué lado de la línea quiere vivir. Esto lleva a la división de los hogares, las familias, los amigos y la iglesia y las tensiones son altas. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Costados con HJ Split)

Carlo Gaberscek su CUORI SENZA FRONTIERE (1950) di L. Zampa
I drammi del dopoguerra in Cuori senza frontiere con la Lollo e Raf Vallone

Nell'immediato dopoguerra e fino alla metà degli anni ’50 in Italia viene prodotto un alto numero di film a sfondo bellico, relativi alla prima e soprattutto alla seconda guerra mondiale. Tra questi ultimi un piccolo gruppo di pellicole è incentrato sulla questione di Trieste e il confine orientale. Film sull’esodo istriano come La città dolente (1949), sui campi profughi in Donne senza nome (1949), le laceranti divisioni territoriali in Cuori senza frontiere (1950), sull’occupazione jugoslava in Trieste mia! (1951), pur costruiti con un impianto di tipo melodrammatico per adattarli alle esigenze del grande pubblico, mettono in scena eventi, condizioni, tragedie, drammi molto attuali. Sono film che inaugurano quello che molti anni dopo verrà definito il “cinema di frontiera”. In particolare, il regista Franco Giraldi ha sentito molto questo tema, realizzando una trilogia conclusasi con il film La frontiera (1996). Anche Porzûs (1997) di Renzo Martinelli va inserito in questo contesto; ma già una scena del film Penne nere (1952), ambientato in Carnia durante l’occupazione cosacca, accennava alla complessità della lotta per il confine orientale. Si tratta della scena (girata nei dintorni di Villa Santina) in cui gli alpini, reduci dall’Albania, appena ritornati sulle loro montagne, hanno uno scontro con un gruppo di partigiani jugoslavi presenti nella zona. Nel corso degli anni ’90, in relazione ai mutamenti politici, alla crisi della Jugoslavia e le conseguenti guerre, si sviluppa una notevole pubblicistica dal punto di vista storico e memorialistico intorno alle vicende dell’esodo istriano-dalmata e delle foibe, e il 10 febbraio 2005, in occasione del Giorno del Ricordo, istituito con la legge n. 92, 30 marzo 2004, la Rai trasmette in prima serata Il cuore nel pozzo, di Alberto Negrin, una miniserie (ambientata in Istria, ma girata a Tivat in Montenegro) sulla tragedia delle foibe e dell’esodo.
Cuori senza frontiere, uscito nel 1950, diretto da Luigi Zampa e interpretato da Raf Vallone, Gina Lollobrigida, Erno Crisa, Cesco Baseggio, Enzo Staiola, è ambientato in un piccolo paese del Carso goriziano diviso in due dalla “linea bianca”, la linea di frontiera fra Italia e Jugoslavia tracciata dalla Commissione Internazionale dei Territori creata in base al Trattato di Pace e agli accordi del 9 agosto 1947. La scena iniziale, con la panoramica del paese e la voce fuori campo che illustra sinteticamente la situazione, sembra tratta (come nel caso di altri film di quel periodo) da un cinegiornale. Entro mezzanotte gli abitanti devono scegliere se essere italiani o jugoslavi. Ma i bambini del paese non si rassegnano a quella forzata separazione e fanno sparire uno dei paletti di demarcazione. Ne nasce un forte clima di tensione tra le due parti che culmina in una sparatoria in cui uno dei bambini viene gravemente ferito. Nella generale commozione, le divisioni e le contrapposizioni sembrano per un momento essere superate e le guardie di frontiera lasciano passare il camion che porterà il bambino all’ospedale di Gorizia; ma la voce fuori campo spiega che egli morirà e che la linea bianca andrà oltre quel paese “… per nazioni intere su fino al nord, fino a dividere un continente dall’altro”. Luogo centrale del film è dunque un confine politico-militare, anzi la costruzione di un confine, con paletti, linee di demarcazione, filo spinato, cavalli di frisia, sbarre, guardie armate che dividono ciò che prima era unito. La vicenda di un piccolo paese, un microcosmo in cui la volontà di dividere che viene imposta dall’alto fa esplodere contrasti, disperazioni, risentimenti, minacce, diffidenze, incertezze, emozioni, passioni, crisi di identità e di appartenenza, diventa quindi metafora di una tragedia molto più vasta. Come racconta il critico cinematografico triestino Tullio Kezich, che fu segretario di produzione del film ed ebbe anche una piccola parte come tenente jugoslavo della Commissione Internazionale, il copione prese spunto da un tema di attualità: le immagini del cimitero di Gorizia diviso in due dal confine. Si decise però di girarlo (nel 1949) a Santa Croce, Monrupino e dintorni, un paesaggio carsico che sessant’anni fa appariva molto diverso da quello di oggi, uno scenario aspro e spoglio ed irto, molto adatto al rafforzamento della rappresentazione drammatica. Quali i motivi della scelta del Carso come location di Cuori senza frontiere, un film di budget contenuto che, come altri contemporanei, poteva essere girato prevalentemente in studio o nei dintorni di Roma? Nel 1949 siamo nel pieno della guerra fredda e nel vivo della questione di Trieste. In tale contesto il Carso (che, tra l’altro, era una location cinematografica inedita), già fissato nell’immaginario collettivo, e proprio con quelle connotazioni di paesaggio aspro e roccioso, come luogo della grande guerra patriottica, veniva ad assumere un alto valore simbolico. Un luogo fortemente evocativo, sacralizzato, che, trent’anni dopo, veniva violato e diviso da un rigido confine. (Messaggero Veneto, 8 febbraio 2010)

Articolo pubblicato in occasione della proiezione di Cuori senza frontiere al Cinema Teatro Sociale Gemona, mercoledì 10 febbraio 2010.
---

Il set triestino di ''Cuori senza frontiere'' (Il Piccolo 14 ago)

Nell’era della mondializzazione può accadere che un film ambientato a Trieste venga girato a Buenos Aires. In passato la città, i suoi esterni, i suoi dintorni, divenivano indispensabili specie se la vicenda, per motivi politici o storici, o letterari, li sceglieva per il teatro dell’azione. Ne parlo per esperienza, essendo stato una volta indirettamente coinvolto, per essere precisamente nel 1949, quasi alla vigilia della mia definitiva partenza per Roma, quando arivò con la sua troupe Luigi Zampa, per girare nei pressi di Opicina ”La Linea Bianca”, che prima della uscita cambiò titolo e si chiamò ”Cuori senza frontiere”. La pellicola era prodotta da Carlo Ponti per la Jux Film, la società fondata nel 1934 da Riccardo Gualino, uomo d’affari torinese, che si distingueva per la sua grande cultura. Aveva dato vita a una compagnia di produzione e di distribuzione, che in tempo di guerra e nel dopoguerra rappresentò l’unica vera Major mai esistita nella storia del cinema italiano, una grande società privata, che avrebbe tenuto a battesimo autori quali Renato Castellani, Luigi Comencini e Giuseppe De Santis, e dato prestigio a registi già avviati come Riccardo Freda, Pietro Germi, Alberto Lattuada, lo scrittore Mario Soldati e, per l’appunto, Luigi Zampa.
”Cuori senza frontiere” trattava un tema di drammatica attualità: la laboriosa definizione della provvisoria linea di confine tra la Jugoslavia di Tito e la parte di Venezia Giulia sotto il Gma (Governo militare alleato), in attesa che il trattato di pace desse finalmente un assetto stabile alla nostra frontiera orientale. L’Italia era stata sconfitta e ciò la metteva in stato di grande inferiorità; a conti fatti senza voce in capitolo.
La situazione, all’aprirsi delle trattative, era in sostanza gestita dalle due «superpotenze», che nel frattempo erano entrate in conflitto tra di loro, la cosiddetta guerra fredda. Il confine con la Jugoslavia era divenuto un tratto della «cortina di ferro», che separava i paesi dell’Europa orientale, soggetti alla tutela sovietica, dai paesi dell’Europa occidentale, i quali non potevano muovere foglia senza il consenso degli Stati Uniti. Le due «superpotenze» avevano trovato una intesa, agendo senza troppi riguardi verso i due paesi confinanti. Si erano accordate tracciando una linea di confine, che in diversi punti attraversava al proprio interno città e villaggi, addirittura dividendo le abitazioni dai terreni di loro proprietà. La «Linea Bianca» del titolo originario, per l’appunto.
Prima di iniziare le riprese, si procedette alla preparazione, che vide impegnati sul posto il direttore di produzione, lo scenografo, il direttore della fotografia e i loro rispettivi assistenti. Il direttore di produzione, che lavorava per Carlo Ponti, era allora Bianca Lattuada, sorella del regista Alberto, la quale, appena giunta a Trieste, mi pregò di darle una mano risolvere alcuni problemi con le autorità locali. Personalmente non conoscenvo Bianca; ma ero amico di suo fratello, allora presidente della Cineteca italiana di Milano, la principale fornitrice di «classici» ai circoli del cinema, della cui fderazione ero divenuto il segretario generale. Per prima cosa coinvolsi a mia volta Tullio Kezich, il quale, collaborando alla conduzione della Sezione spettacolo del Circolo della Cultura e delle Arti, aveva avuto anche lui occasione di conoscere Alberto Lattuada, durante i nostri frequenti viaggi a Milano per allestire il programma del nostro circolo.
Per Tullio fu quella l’occasione di gettare le basi del secondo aspetto dell’attività in seno alla «macchina cinema», come produttore, oltre che come critico e autore.
Fu quello, se ricordo bene, l’ultimo incarico che ebbi a Trieste, prima di trasferirmi definitivamente a Roma: una divertente parentesi nell’attività quotidiana, che tra l’altro mi consentì di frequentare Gina Lollobrigida e Raf Vallone, i due protagonisti del film. La «Lollo» non era ancora giunta al culmine della popolarità, mentre Raf Vallone, ex calciatore del Torino, aveva appena debuttato in ”Riso amaro” di De Santis, troncando la carriera di giornalista iniziata nella edizione piemontese dell’«Unità». Anche Tullio e io ci prestammo un giorno a interpretare due piccoli ruoli. Erano tempi quelli, in cui i nostri registi non facevano caso al grado di professionalità degli attori. Tanto, col doppiaggio si rimediava a tutto. Le poche parole che dovevamo pronunciare erano oltretutto in slavo, poiché Tullio vestiva i panni di un partigiano di Tito e io quelli dell’ufficiale sovietico incaricato a tracciare con il parigrado inglese e americano la tormentata linea di confine. La parte di Tullio, se ricordo bene, era più impegnativa della mia. Me la cavai, ripetendo come una litania lo Svoboda Narodu, che, insieme a Smrt Fascismu apriva i programmi della radio titina.
Ogni tanto giungeva da Roma qualche regista per parlare con gli attori, e prenotarli per interpretare il loro film in corso di allestimento. Fu in quella occasione che conobbi di persona Giuseppe De Santis, il nostro regista e, prim’ancora, il nostro critico di culto, cioè da quando, in tempo di guerra, scriveva sul quindicinale «Cinema», il quindicinale diretto allora da Vittorio Mussolini, figlio del duce, che non s’accorgeva di tenere tante serpi in seno. Erano state proprio le convincenti recensioni di De Santis, in radicale contrasto con quelle dei critici ufficiali, a impartirmi, senza che me ne rendessi conto, le prime lezioni di antifascismo. Vallone aveva preso dimora in un albergo di Opicina e una sera ci invitò a cena in una trattoria del Carso, dicendo che gli sarebbe piaciuto conoscere qualche nostro amico. Di certo vennero Fulvio Anzelotti e Gianni Tamaro, ma non escludo che ci fossero anche Gianpaolo De Ferra, Giorgio Vidusso e qualcun altro ancora. Ricordo che bevemmo del terrano in tale abbondanza che alla fine eravamo tutti un po’ alticci. Ma non tanto da divertirci, quando uno di loro, versando l’ennesimo bicchiere al suo vicino di tavola, esclamò: «Dai, bevi! Tanto g’avemo el mona che paga!». Sperammo che Raf non avesse sentito, o perlomeno capito. E così è stato, prché altrimenti penso che la serata sarebbe finita in modo più imbarazzante.
Dal suo canto la Lollobrigida, che non era ancora la primadonna del nostro cinema, la «maggiorata fisica» di ”Altri tempi”, la «Bersagliera» dei ”Pane, amore...”, era ospitata a casa di Anna Gruber Benco, nipote della scrittore Silvio Benco, appena scomparso dopo avere dato alle stampe ”Contemplazione del disordine”, la sua ultima opera, probabilmente la più importante. Un’amicizia dovuta alla scoperta di essere state entrambe, nella loro infanzia, «amiche di Topolino».
Zampa aveva con sé due aiuti, uno era Bolognini, inadatto al ruolo. Piuttosto pasticcione, non passava giorno senza che combinasse un guaio. «Vedrai che Bolognini diventerà un regista di successo», mi disse Zampa, forte della sua esperienza. Profezia che puntualmente si avvrò. Bolognini infilò una serie di film graditi, sia alla critica che al pubblico.
Non ricordo quanto durò il tempo delle riprese. Certamente non più di due-tre mesi. Tuttavia, alla fine del secondo mese si respirava già aria di chiusura. Arrivò Carlo Ponti e si portò via metà della troupe dicendo che gli era necessaria per iniziare le riprese di un altro film. Così Zampa si trovò d’improvviso a doversi arrangiare con una troupe appena necessaria per girare un’opera prima a basso costo. Mai lo sentii protestare per il torto subìto da un produttore, che gli doveva molto grazie al successo dei film precedenti girati per lui. Se al posto suo ci fosse stato un regista prepotente, com’era già allora il giovane Giuseppe De Santis, le cose sarebbero andate diversamente. Pur avendo un ruolo quanto mai marginale, le riprese di ”Cuori senza frontiere” furono per me assai illuminanti sul mestiere del regista, quando deve far fronte alle pretese del produttore, e sui problemi che insorgono durante le riprese di un film.
CALLISTO COSULICH
---

“... dopo la seconda guerra mondiale... il confine fu arretrato di una trentina di km fino ai sobborghi orientali della città [Gorizia], escludendo la linea ferroviaria transalpina con la   stazione di Montesanto e le frazioni di Salcano, San Pietro e Vertoiba. Il comune fu così ridotto a  due quinti del suo territorio e perdette il 15% della sua popolazione. ... oltre il confine gli      Jugoslavi fondavano la città gemella di Nova Gorica...”. 
AAVV, Friuli Venezia Giulia (Touring Club Italiano, 1982)

...
La Venezia Giulia, come è noto, vive tra il 1945 e il 1948 una situazione di tragica incertezza, situazione che invece si protrae fino al 1954 per Trieste. Nel capoluogo del Friuli la guerra finirà solo allora, quando la popolazione avrà finalmente la certezza di poter tornare sotto l’amministrazione italiana e potrà considerare scongiurato il pericolo di divenire parte della Jugoslavia di Tito. 
Furono anni luttuosi nei quali le forze di occupazione slovene e croate si abbandonarono a ogni genere di vendetta, strage, pulizia etnica, infoibamento e quant’altro. In particolare nel maggio- giugno 1945, durante i tristemente famosi quaranta giorni di occupazione di Trieste e Gorizia, le truppe titine massacrarono migliaia di civili a vario titolo (ex fascisti, aderenti ai partiti italiani, carabinieri, poliziotti e componenti della GdF) per potere spezzare la resistenza della popolazione nei confronti dei nuovi occupanti. 
Purtroppo nel periodo 1945-48 le truppe jugoslave, protette da Stalin, trovarono completo appoggio nella sciagurata politica antiitaliana del partito comunista di Togliatti il quale si adoperò fattivamente per favorire il passaggio di Trieste agli slavi. 
Questa materia drammatica e scottante, ancora in piena evoluzione nel 1950, viene trattata con indecente leggerezza ed evidente faziosità da Luigi Zampa nel mediocrissimo Cuori senza frontiere (settembre 1950; 90 min.), pellicola prodotta dalla solita Lux e sceneggiata da Piero Tellini e Stefano Terra. Vi si racconta di un immaginario picolo paese che viene spaccato in due dalla linea Morgan (la linea del confine provvisorio, stabilito da una commissione interalleata che divise la zona A amministrata dagli angloamericani, dalla zona B abbandonata - seppur provvisoriamente - alla Jugoslavia). Il riferimento palese è ovviamente a Gorizia, che venne realmente divisa in due città autonome (nasceva allora Nova Gorica). 
Regista e sceneggiatori trattano la materia con il piglio leggero della commedia quasi umoristica, per poi virare bruscamente nelle ultime sequenze verso un dramma cupo e strappalacrime che culmina nella morte del piccolo Pasqualino (Enzo Stajola, già protagonsita di Ladri di biciclette). Senza troppa fantasia gli autori raccontano delle problematiche tipiche di una popolazione spaccata in due dall’oggi al domani da un confine artificioso; raccontano di bambini divisi che si lanciano pietre “lungo il confine”; del solito triangolo amoroso - mai così superficialmente abbozzato - tra uno scampato alle persecuzioni comuniste (Raf Vallone), un fiero comunista di origini slave e una bamboleggiante e ottusa Donata (Gina Lollobrigida; basti dire che in una sequenza promette amore eterno a Vallone e in quella successiva varca la frontiera slava - con la famiglia - per ricongiungersi al precedente fidanzato... ); raccontano infine dei sacerdoti cacciati dalla zona comunista, dei piccoli furti e delle liti continue che avvengno lungo il confine e lasciano largo spazio al gruppo di bambini ai quali vengono affidati deliranti e del tutto inappropriati dialoghi sulle questioni sociopolitiche derivanti dalla divisione del paesino (in un’atmosfera di fastidiosa inverosimiglianza).
La pellicola è scadente da qualunque punto la si voglia considerare. Ciò che più la rende insopportabile, consiste però nel fatto di avere propinato agli Italiani una visione semirosea di un gravissimo problema nazionale, inventando la presenza di una sostanziosa parte (nel racconto sembra essere la metà esatta della popolazione) che preferisce passare in Jugoslavia, in omaggio alla propria fede comunista. Questo clima da Peppone e Don Camillo (i libri di Guareschi sono già stati editi) è profondamente manipolatorio nei confronti della realtà storica. In quelle zone gli slavi erano una minoranza e anche gli strati italiani filocomunsiti divennero presto poca cosa di fronte alle crudeltà titine e al taglio meramente nazionalistico che andava assumendo l’annesione della Venezia Giulia. Basti dire che nelle elezioni comunali triestine del 1949 i partiti filo slavi raccolgono poche migliaia di voti rispetto alla stragrande maggioranza della popolazione la quale, pur votando per differenti partiti, si schiera compattamente nel fronte italiano. Questo voler addolcire lo scontro e voler mostrare entro un’aura di sostanziale simpatia il mondo comunista slavo, arricchito da un foltissimo  umero di “entusiasti” Italiani, è una menzogna politica grave. Tanto più che nel 1950 non solo erano note le crudeltà del 1945 (gli infoibamenti innanzitutto), ma era perfino noto che gli sfortunati comunisti italiani che avevano fatto l’errore di passare dall’altra parte nell’epoca staliniana della Jugoslavia, ora si trovavano in larga parte nei lager, controllati con sospetto come simpatizzanti di una potenza (l’URSS) di colpo divenuta nemica. 
Con il film di Zampa siamo insomma di fronte alla consueta ambiguità dei settori massonici piemontesi: la Lux Film porta avanti una politica di fraterna simpatia con le forze comuniste, pur cercando di distinguersi da esse. Si veda tra l’altro con quanta antipatia vengono descritti i politici nazionalisti italiani che giungono nel paesino per fornire un sostegno attivo in una fase tanto delicata: gli autori, tanto comprensivi con i comunisti italiani passati con la Jugoslavia, li ritraggono come un gruppo di ciarlatani e di mestatori, interessati a strumentalizzare le disgrazie degli abitanti locali. 
Insomma la Lux porta avanti in ambito filmico la stessa ambigua politica editoriale della torinese Einaudi, la quale pubblicherà addirittura i testi di Gramsci e la storia del Partito comunista italiano (in cinque ponderosi volumi) redatta da Paolo Spriano, storico ufficiale del partito di Togliatti (una storia, tra l’altro, in cui, neppure una volta, vengono citati i quotidiani rapporti che legavano strettamente i dirigenti comunisti e l’ambasciatore sovietico a Roma... ). Einaudi e Lux prendono appena le distanze dal totalitarismo sovietico e non esitano a offrire il loro concreto e prestigioso contributo alla causa del PCI le cui origini, tra l’altro, si intersecano con la storia della città di Torino (dove operarono Gramsci e Togliatti). Il falsificante film di Zampa si inserisce a pieno titolo in questo atteggiamento di ambiguità politica dei settori “colti” della città piemontese. 
La critica militante nicchia di fronte a questa favoletta edulcorata e parla in genere di sproporzione tra argomento e realizzazione. In ogni caso non ricopre di insulti il lavoro come aveva fatto invece con l’ottimo film di Bonnard dedicato a Pola ovvero La città dolente (1949; vedi) nel quale la tragedia dell’esodo veniva affrontata senza infingimenti. Per certi versi si può perfino pensare che questo filmetto complessivamente rassicurante (un bambino muore, è vero, ma si ricordi che si è trattato solo di un incidente di fronte al quale le due fazioni in lotta ritrovano addirittura un’inaspettata sintonia) sia stato girato proprio con l’intento di contrastare la pellicola di Bonnard e altre possibili iniziative culturali di matrice anticomunista che avessero per argomento il delicato tema dei confini orientali. 
...
---

Che il realismo fosse già presente nella cultura italiana dai tempi del verismo di Verga ci sono pochi dubbi, per quanto la realtà popolare fosse già stata protagonista nella pittura, nell’opera lirica, nel teatro e nel romanzo. Ma dalla metà degli anni Quaranta ai Cinquanta il cinema si fa portavoce di problemi nazionali ed inaugura un nuovo stile, che, senza falsa retorica, rinnovato nei contenuti e nella tecnica, farà scuola.
Il Neorealismo viene consacrato a livello internazionale nel 1946, quando  il festival di  Cannes  conferisce  il premio  Gran  Giuria  a  Roma  città  aperta  di  Roberto  Rossellini, una delle prime opere del cinema di Liberazione che ha avuto il coraggio di sostenere la guerra partigiana contro il fascismo e la dittatura.
Non solo: il filone non è mera propaganda politica, come poteva essere stata quella mussoliniana, ma reagisce al mondo patinato dei telefoni bianchi filmando la vita popolare semplice e quotidiana nelle cosiddette “esterne”, usando immagini spoglie che non avessero particolari effetti tecnici, facendo recitare accanto agli attori professionisti  anche  i  non  professionisti,  dando  così  spazio  a  nuovi  tipi  di improvvisazione.
I film di Rossellini (Paisà-1946), Vittorio de Sica ( Umberto D., Sciuscià-1946, Ladri di  biciclette-1948),  Giuseppe  de  Santis  (Riso  Amaro-1949)  e  Luchino  Visconti (Rocco e i suoi fratelli, Senso) in modo diverso ed originale recuperano le tematiche nazionali di una certa rilevanza mescolandole ad un forte senso per il melodramma e per il gusto dello spettacolo, nel caso specifico di Visconti, senza però tradire mai un
forte impegno sociale nel descrivere e riportare l’amarezza e la difficoltà della vita reale.
Nel 1950 Luigi Zampa, lo stesso che anni più tardi girerà il medico della mutua (1968) o Bello Onesto emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata (1971) firma la regia di Cuori senza Frontiere, un film che affronta il dramma di un paese di campagna diviso tra Italia e Jugoslavia, raccontando l’assurdità della demarcazione della linea di confine e le conseguenze che la popolazione subì.
Nel cast  una giovanissima e doppiatissima Gina Lollobrigida (Donata), Raf Vallone (Domenico), Cesco Baseggio (Giovani Sebastian, padre di Donata e di Pasqualino) e i due futuri critici cinematografici Calisto Cosulich e Tullio Kezich, rispettivamente nel ruolo di un ufficiale sovietico e di un tenente jugoslavo.
Proprio dalla testimonianza di quest’ultimo, che è anche segretario di produzione, si evince che il film originariamente intitolato La linea bianca prende spunto da un tema d’attualità, ispirato probabilmente dall’immagine del cimitero di Gorizia divisa in due dopo la divisione dei confini, in seguito all’assemblea dell’Onu del 9 agosto 1947.
Proprio in questo paesino, presumibilmente del Carso goriziano, arriva un giorno la Commissione internazionale che deve delimitare i territori confinanti. 
Soldati di ogni nazionalità scendono dai camion, scaricano i paletti e il filo spinato, tracciano la netta linea bianca di demarcazione così come stabilito sulla carta, attraversano campi, cimiteri, chiese, e addirittura un campo da bocce.
Il sindaco con la voce strozzata dalla commozione avvisa i cittadini che da quel giorno in poi, in base a quella linea fresca di vernice, a occidente sarà repubblica italiana a oriente repubblica jugoslava. Ciascuno ha  tempo entro mezzanotte per scegliere con chi stare, dopodiché la zona verrà presidiata dai soldati che, armati di mitra, sono autorizzati a sparare a chiunque oltrepassi il confine.
Il paese ne viene distrutto psicologicamente e territorialmente: i bambini, protagonisti fin da subito in una serie di primi piani che fungono da presentazione allo spettatore, non possono più giocare sulla collina perché è stata divisa in due, il contadino non può   vendere il toro perché il mercato è rimasto fuori dal confine, al prete hanno diviso l’oratorio dalla chiesa, a Giovanni Sebastian, padre di Pasqualino, uno dei bimbi che vediamo giocare nelle prime sequenze del film, e di Donata, è disperato perché gli resta la casa ma non il campo da coltivare.
Le famiglie, in poche ore, devono decidere il da farsi e il proprio destino, qualcuno lo fa  senza  il  minimo  dubbio,  come  il  fidanzato  segreto  di  Donata,  Stefano  che, sostenuto dalla sua fede politica, decide immediatamente di attraversare il confine e cerca di convincere il futuro suocero, ancora riluttante, a fare altrettanto.
Passa la mezzanotte e il giorno successivo, mentre Giovanni valuta ancora la propria scelta, Pasqualino portando la mucca al pascolo scorge un uomo ferito al di là del confine. E’ il primo profugo, il primo clandestino, della Storia e del film,  Domenico, che il bambino con l’aiuto della sorella porta subito in salvo nella loro casa.
Nella fretta della situazione perdono di vista la vacca, che, inconsapevolmente, attraversa definitivamente il confine, lasciandosi prendere dai soldati jugoslavi, che li ammoniscono per aver salvato un profugo e si accaparrano la bestia come fosse una sorta di ricompensa.
Il ritrovo di Domenico vale a Donata un nuovo amore clandestino e alla famiglia Sebastian una fotografia come baluardo dell’italianità, ma i problemi sono altri, il campo di Giovanni ormai è di qualcun altro e anche la vacca che era fonte del loro sostentamento è andata perduta. Decide così di attraversare il confine con i suo cari aiutato da Stefano, per recuperare e cose perse e per poter garantire un nuovo futuro alla propria famiglia.
L’unico che subisce in modo più diretto ed immediato l’onta di essere diventato “un traditore” è senza dubbio il bambino, Pasqualino, deriso e mortificato dagli altri ragazzini che non lo accettano né da parte slovena né da parte italiana.
Solamente quando Stefano, con un colpo di testa, annuncia in casa Sebastian, a sorpresa, il suo matrimonio con una sbigottita Donata, anche i bambini, capeggiati dal fratello minore di lui, lo riconosceranno finalmente come uno di loro, facente parte della stessa famiglia.
Così Pasqualino entra a far parte dell’“altra” banda: i ragazzini, gelosi e indispettiti dalla situazione che stanno vivendo, non riescono a far altro che sfogarsi l’uno contro il gruppo dell’altro, riconoscendo nella differenza d’identità l’unico motivo valido di scontro. Ma un sasso lanciato vicino all’occhio di Pasqualino e il rischio di fargli del male per davvero li fa ridimensionare e ragionare su quanto sta accadendo.
Nella logica lineare e coerente dei bambini, la miglior cosa, individuato il problema è eliminarlo alla radice per non doverlo più riconoscere né farci i conti. 
Dal momento che nessuno li può vedere perché il luogo è impervio e lontano dal paese, sconfinano e gettano dalla rupe uno dei paletti che demarca le zone di confine.
Non immaginano nemmeno le conseguenze: i Grandi, divisi nelle due fazioni, italiana e slovena temendo che sia un tentativo per modificare i confini e rubare la terra si accusano l’un l’altro, e chiedono di rimettere al suo posto il paletto entro un orario stabilito.
Il clima è tesissimo, nessuno sospetta che siano stati i ragazzini e Pasqualino, che si sente in colpa per quanto accaduto, d’accordo con gli altri bambini recupera il paletto all’imbrunire, caricandoselo sulla schiena con l’intenzione di rimetterlo al suo posto. Contemporaneamente, nel paese, Domenico ha scavalcato il confine per riprendersi Donata e portarla via con sé, ma Stefano li sorprende e con il mitra in mano cerca di uccidere il rivale. Nella confusione e tensione generale agli spari dei due seguono gli spari al confine, Pasqualino, ingobbito dal peso del legno come se fosse in una Via Crucis, viene ferito e cade a terra. Donata accorre, recupera il corpo accorgendosi che il  fratello  respira  a  fatica,  lo  riporta  in  casa,  ma  il  medico,  scuotendo  la  testa sconsolato, suggerisce di portarlo subito all’ospedale.
Mentre il climax drammatico s’intensifica, la famiglia Sebastian, di fronte all’intero paese e alle guardie attonite, caricato il bambino su un camion, attraversa il confine, ma è troppo tardi e la voce fuori campo che ha accompagnato molte sequenze del film, ci annuncia la morte di Pasqualino e l’inesorabile linea bianca che resterà per sempre, non solo a dividere in due il paese ma un continente intero.
Palese il collegamento alla Guerra fredda, che ci era già stato suggerito da alcune scelte un po’ manichee del film, quali ad esempio quelle di tingere di biondo i bambini e gli attori che impersonificano gli sloveni, lasciando mori gli italiani.
Il film fu girato dopo lo scisma di Tito, che nel 1948 provocò la sospensione da parte dell’Urss di qualsiasi collaborazione economica con la Jugoslavia e la definitiva condanna con l’accusa di Deviazionismo e  di intesa segreta con gli imperialisti.
Con l’esclusione dalla Cominform, la dirigenza juogoslava cominciò a sperimentare una politica estera autonoma basata sull’equidistanza tra i due blocchi, ma si inasprirono i rapporti tra sloveni e croati da un lato e minoranze italiane dall’altro.
La percezione per gli emigrati e dei profughi della linea di frontiera, in questi anni è duplice. Dall’Italia verso la Francia il cammino si apre proprio come cammino della speranza (ricordiamo Fuga in Francia di Mario Soldati, del 1948e ancora con Raf Vallone il film di Germi, del 1950, Il cammino della speranza) verso una terra promessa  dove  fuggire  e  ritrovare  la  libertà  perduta,  dall’altra  parte  verso  la Jugoslavia si chiude, percepita solo come meta che i profughi italiani in Istria cercano di varcare per ricongiungersi alla madrepatria.
Il film parte da presupposti reali, basti pensare che il protagonista dell’intera pellicola è la linea bianca, il confine appunto, perno materiale e simbolico di tutta la storia. 
È  uno  dei  rari  film  in  cui  il  confine viene  visto  e  guardato. Si  vede  come  lo costruivano e misuravano, si vedono i paletti, la vernice bianca pitturata al suolo, il filo spinato. Sicuramente in questo la realtà è stata rispettata, anzi fin dall’inizio del film, la prima macro-sequenza che descrive il paese, non ha nulla da invidiare ai cinegiornali dell’epoca.
Anche la scelta scenografica è una scelta realistica, le riprese infatti non da studi di Cinecittà, ma per la maggioranza, e per gli esterni, da sfondo al film è il Carso triestino, nella zona che va da Santa Croce e Monrupino e gli stessi bambini, attori non professionisti, sono stati scelti, come si faceva all’epoca, un po’ per la strada un po’ attori del luogo, se si nota hanno uno spiccato accento dialettale, a marcare e sottolineare la verosimiglianza della zona di cui si sta parlando nell’intera pellicola.
Si deduce quindi che i presupposti realistici ci siano, ma il film non può essere considerato un film neorealista tout court e si dubita anche che questa fosse stata la volontà del regista e della sceneggiatura stessa.
Il titolo è emblematico, allude ai cuori del bambini, che innocenti non capiscono il motivo di tanta agitazione attorno al problema del confine, ma vivono forse più di altri il dramma del distacco e della separazione oppure allude ai cuori del triangolo amoroso di Donata, Stefano e Domenico?
Non lo sapremo mai, ma quale che sia la risposta, il sapore melodrammatico del film impregna numerose sequenze e  dialoghi impedendo alla  trama  di decollare  e  di convincere appieno lo spettatore. La scelta stessa di modificare il titolo del film, da La linea Bianca a Cuori senza frontiere denota un cambiamento di registro che non va trascurato. Da un protagonista “fisico” come un confine di stato, che avrebbe potuto far molto discutere e che sarebbe potuto essere motivo di realismo quasi documentaristico si passa a un titolo dal sapore melò se non melenso.
E’ chiaro e palese che i costumi cambiano e che riguardare una pellicola sessant’anni dopo può far sorridere chi non sa come le questioni sociali e familiari venissero gestite all’epoca. Ma una vera opera d’arte resta perenne e immutata negli anni.
Il dramma di un film neorealista sia per la scarnità del suo racconto che per la verità che esso cela non si smentisce mai.
Un film, come questo che si nutre di dialoghi un po’ troppo teatrali e melodrammatici o che manifesta le emozioni dei protagonisti solo con un riduttivo gioco di sguardi degne di un fotoromanzo non può essere annoverato, se non per il  coraggio di affrontare il tema del confine italo-jugoslavo, spesso bistrattato, in un film da ricordare.

La Cotta - Ermanno Olmi (1967)

$
0
0

TITULO ORIGINAL La cotta 
AÑO 1967
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español e inglés (Separados)
DURACION 49 min.
DIRECCION Ermanno Olmi
GUION Ermanno Olmi (Historia: Giacomo Leopardi)
MUSICA Elvio Favilla
FOTOGRAFIA Idelmo Simonelli (B&W)
MONTAJE Carla Colombo
REPARTO Giovanna Claudia Mongino, Luciano Piergiovanni
PRODUCTORA Radiotelevisione Italiana (RAI)
GENERO Drama. Comedia | Mediometraje. Telefilm

SINOPSIS Andrea es un chico de quince años que ha decidido poner a prueba sus técnicas para ligar. Siempre optando por lo racional y el concepto industrial aplicado al amor, sucumbe, sin embargo a sus deseos. Andrea, un muchacho de quince años (digamos dieciseis) que nos conduce a traves de su pasión, autocontrol, dominio, fracaso, lo contrario o todo al mismo tiempo. Como en cualquier romance de un chico de quince años. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

Subtítulos (Español)

Subtítulos (Inglés)

TRAMA DEL FILM RACCONTI DI GIOVANI AMORI: 

1° episodio: La cotta - Andrea, quindicenne intelligente ma non troppo impegnato negli studi, prende una cotta per Janine e si illude che il suo sia il vero ed eterno amore. Ma al primo contrattempo, Andrea è già pronto ad innamorarsi di un'altra ragazza, questa volta però molto più matura di lui. Costei, onestamente, cerca di fargli capire che il vero amore non lo si riconosce in una "cotta", ma lo si deve costruire lentamente, soffrendo. Andrea non l'ascolta, convinto di essersi innamorato definitivamente. 

2° episodio. La regina - Graziella vuole a tutti i costi diventare attrice di teatro. Conosce un ragazzo che la stordisce con le idee più strampalate ma che si innamora di lei e, per poterla attirare a sé, la tradisce nei suoi ideali artistici. Il ragazzo, quando si rende conto di averla perduta, ha una reazione violenta: la prende a schiaffi. E Graziella andrà a Milano, colpita dal fascino del mondo del teatro. 

3° episodio: Il ragazzo di Gigliola - Gigliola e Roberto si vogliono bene, ma non si conoscono veramente. Un giorno il ragazzo scompare e Gigliola viene a sapere che è stato arrestato per furto. Assiste al processo e, proprio allora, Gigliola ha l'impressione di conoscere veramente il suo ragazzo attraverso le parole del P.M. e dell'avvocato difensore. Gli vorrà ancora più bene perché sa che Roberto ha veramente bisogno di lei. E lo aspetterà.

CRITICA: 
"I tre episodi di amori giovanili, prodotti per la televisione, sono freschi, ma forse eccessivamente didascalici e quindi meno convincenti. Anche la lentezza del ritmo narrativo contribuisce a diminuirne l'efficacia immediata su un pubblico normale. (...) Il tema dell'amore tra adolescenti e giovani con le sue fiammate improvvise e le sue inevitabili delusioni è trattato con estrema delicatezza." 
(Segnalazioni cinematografiche, vol. 65, 1968)

NOTE: 
IL FILM E' COMPOSTO DA TRE EPISODI: LA COTTA, LA REGINA, IL RAGAZZO DI GIGLIOLA. LA DURATA E' QUELLA COMPLESSIVA DEI TRE EPISODI.


Un quindicenne milanese conosce una francesina appena arrivata in Italia, inizia a frequentarla, si illude di non farsi coinvolgere ma ovviamente ci casca come una pera matura. Mediometraggio realizzato per la Rai, in pratica sviluppa il versante sentimentale de Il posto (1961), dalla timida infatuazione fino all’appuntamento mancato a una festa di Capodanno. È un tenero, delicato e vivace ritratto di un’adolescenza maldestra, con tanta voglia di crescere ma altrettanta incertezza sul da farsi, e ha un finale amarognolo accostabile a quello del truffautiano Antoine e Colette (1962). La prima parte, che mostra l’assolutizzazione dell’amore tipica della gioventù, trova un correttivo nel colloquio fra il ragazzo e la donna matura (cioè di poco più di vent’anni), che con pacatezza e buon senso cerca di educarlo a gestire i propri sentimenti; ma va sottolineata anche la confezione non banale, con fulminei flashforward che riflettono i desideri allucinati del protagonista.
jonas
---

L’amore fugge, soprattutto negli adolescenti: lo aveva già detto Truffaut e Olmi lo ribadisce, raccontando i facili turbamenti sentimentali di un sedicenne vivace e romantico. Lo stile registico persegue l’autenticità attraverso i dialoghi, freschi e spontanei come gli attori che li pronunciano, e il forte risalto sull’ambientazione milanese, ma guarda anche a tecniche più sperimentali, innestando flash con le possibili situazioni immaginate dal giovanissimo protagonista. Come ne Il posto, un altro capodanno triste per ragioni amorose.
• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: A scuola; il metodo della “lista”, «concetto industriale applicato agli svaghi»; Andrea che gira il film con gli amici.
Homesick

In una nebbiosa Milano di fine d'anno, dove i taxi sono la Seicento Multipla e i tassisti si affidano alle rotaie del tram per trovare la via, Andrea, quasi sedicenne, ha le sue teorie sull'amore, che vedrebbe organizzato industrialmente, per eliminare i tempi morti del corteggiamento. Cambia in fretta i suoi pensieri quando è alle prese con la sua prima cotta per Janine. Perfetta la descrizione dei sentimenti giovanili anche grazie ad un bravo L. Piergiovanni (Andrea) e alle sue immaginazioni. Divertenti gli adulti in sottofondo.
Saintgifts

La strega in amore - Damiani Damiano (1966)

$
0
0

TITULO ORIGINAL La strega in amore
AÑO 1966
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 109 min.
DIRECCION Damiano Damiani
GUION Damiano Damiani (Novela: Carlos Fuentes)
MUSICA Luis Bacalov
FOTOGRAFIA Leonida Barboni (B&W)
MONTAJE Nino Baragli
REPARTO Richard Johnson, Rosanna Schiaffino, Gian Maria Volonté, Sarah Ferrati, Margherita Guzzinati, Vittorio Venturoli, Ivan Rassimov, Ester Carloni, Giovanni Ivan Scratuglia, Elisabetta Wilding
PRODUCTORA Arco Film 
GENERO Terror. Fantástico 

SINOPSIS Una viuda madura pone un anuncio en un periódico solicitando un bibliotecario. En realidad ya ha elegido a un apuesto joven, galante y mujeriego, pero necesita que se presente solicitando el puesto de trabajo. La dama vive en un viejo palacio con su bellísima hija, a quien utilizará como cebo, para convencer al recién llegadopara nque asesine al marido de la chica. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

Trama:
Sergio, un giornalista, proprio mentre si sente stanco dei suoi rapporti con l'amante, spinto dalla curiosità, si reca nel misterioso e vecchio palazzo di una anziana signora per informarsi della natura del lavoro che gli viene offerto. Ma oltre alla vecchia Consuelo, che lo invita con un buono stipendio a riorganizzare la biblioteca ed i manoscritti audaci del defunto marito, gli si presenta nel corso della visita una affascinante ragazza, Aura, della quale non tarda ad innamorarsi. Quando scopre che nella casa alloggia anche un certo Fabrizio, che si qualifica come suo predecessore, per liberarsi di lui accetta i più penosi compromessi e un giorno nel corso di una colluttazione finisce per ucciderlo. Aura nel frattempo è scomparsa e Sergio, vittima quasi di un sortilegio, non sa spezzare le catene che lo tengono inchiodato in quell'equivoco e magico ambiente, dove Aura non è che la reincarnazione di Consuelo. Solo quando scopre la giovane donna nelle braccia di un uomo, e si rende conto che è destinato a fare la stessa fine di Fabrizio, trova la forza di ribellarsi e brucia la vecchia strega rompendo così l'incantesimo.

Critica:
"(...)"La strega in amore" (è una) commedia sentimentale costruita intorno a Rossana Schiaffino e punta tra le più basse della filmografia del regista" 
(L. Miccichè "Il cinema Italiano delgi anni '60", Marsiglio Editori)
---
Assunto da una vecchia signora come bibliotecario, Sergio, un giornalista-scrittore senza lavoro, scopre nell'antico palazzo un'affascinante giovane, ma scopre anche che è la reincarnazione della padrona di casa. La scelta stessa del soggetto _ dal romanzo Aura del messicano Carlos Fuentes, sceneggiato con Ugo Liberatore _ indica l'ambizione di fare un film macabro-fantastico di qualità, quasi una moderna variazione sulla favola di Circe. Lo conferma il ricorso a G.M. Volonté, come precedente vittima e schiavo della misteriosa e vampirica, che lo stesso Sergio uccide. Ma sono ambizioni che si riducono a velleità.AUTORE LETTERARIO: Carlos Fuentes (Il Morandini)


El personaje de la bruja en la novela Aura y su versión cinematográfica 
...
La strega in amore: El estereotipo cinematográfico de la mujer mágica

Para su película, Damiano Damiani realiza una serie de cambios argumentales en la historia de Aura. La trama se resume de la siguiente manera: una viuda madura pone un anuncio en el diario solicitando un bibliotecario que realice la traducción de unos antiguos libros de literatura erótica. En realidad, la mujer ya ha elegido a un atractivo joven, galante y mujeriego, pero es preciso que éste se presente para reclamar el puesto. El hombre acudirá hasta un antiguo palacete, donde vive la señora en compañía de su hermosa hija, a quien usará para manipular al huésped y convencerlo de asesinar al marido de la joven.
La adaptación, descrita como una obra representativa del cine erótico-fantástico italiano de los 60’s,  suprime ciertos elementos de la historia original, por ejemplo la traducción de las memorias del general y el hecho de que el joven sea la reencarnación de Llorente. Con esto, se anula la idea mítica del eterno retorno, de la innovación del pasado. En cambio, se añade un triángulo amoroso, conformado por Sergio Logan (en la novela Felipe Montero), Aura y su esposo Fabrizio. El triángulo degenerará en asesinato, que, conforme avance la historia, se intentará reproducir en un ciclo constante para saciar la vanidad de Consuelo/Aura. Estas diferencias influirán notablemente en la caracterización física y psicológica de los personajes identificados con la bruja, hasta distanciarlos de sus modelos literarios.
Si Consuelo y Aura en la novela remiten a arquetipos, en la obra cinematográfica remiten a estereotipos femeninos de perversidad. La bruja anciana sabia que revela un conocimiento alternativo de la historia y engendra simbólicamente la identidad verdadera del hombre, o bien, la joven hechicera que encanta por amor, son sustituidas en el filme por dos personajes femeninos más cercanos a la villana y a la femme fatale.
En el filme, los rasgos físicos de la viuda y de Aura cambian. Consuelo Llorente en La strega in amore no es la anciana de 109 años de la obra de Fuentes, de pelo cano, cuerpo encorvado y rostro infantil de tan viejo, sino una mujer madura y elegante, con toques de coquetería, que no rebasa los 60 años. Aura tampoco es la chica de 15 años; es toda una mujer que desplegará su erotismo para dominar al varón y utilizarlo a su conveniencia. Para interpretarla, el director escogió a la actriz Rosanna Schiaffino, la llamada “nueva diosa italiana del sexo” en la década de los 60’s. Con la elección de Schiaffino, quien gozaba de gran popularidad al momento de rodarse la cinta, se buscó atraer a la audiencia masculina.
Damiani enfatiza la belleza de la actriz constantemente con el uso de diferentes tipos de tomas y movimientos de cámara: el plano general convierte el cuerpo femenino en un fetiche al atraer la atención del espectador sólo en él y despertar su deseo. Desde la perspectiva del personaje de Sergio, la cámara enfoca el rostro de Aura, se detiene en sus ojos y en sus labios, luego baja hasta sus senos. El close up a los ojos acentúa una de las características principales que desde la novela definen a Aura: la mirada hipnótica, insinuante.
La cinta de Damiani presenta “el horror y el sexo magistralmente mezclados”, anuncia su afiche promocional. El personaje de Aura es la representación de la fantasía masculina: La  belleza asesina, la voluptuosa hembra que busca destruir al hombre, a través de la manipulación sexual. Por ello, la relación entre la mujer y el bibliotecario se muestra netamente sexual. El erotismo que plantea el texto cinematográfico es uno estereotipado, lejano al erotismo con fuerte carga simbólica de la obra de Fuentes.
En la película, se eliminan todos aquellos aspectos que caracterizan ala Auraliteraria como una hechicera: la preparación y oficio de los rituales que inician a Felipe en el conocimiento de lo sobrenatural (la elaboración de la muñeca vudú, el holocausto del macho cabrío, la apertura de su cuerpo-altar en el aquelarre amoroso). Despojada de su halo mágico, lo único que tienela Auracinematográfica es su cuerpo y su sensualidad.
La imagen de la bruja estará más asociada a Consuelo. La verdadera bruja enamorada a la que se refiere el título de la película no es otra que la viuda. Como ocurre con su modelo literario, a ella se asocia el conocimiento herbolario, la preparación de brebajes para desdoblarse y adquirir una apariencia más joven. Sin embargo, Consuelo más que una bruja sabia corresponde a una bruja malvada diabólica. Esta interpretación se reafirma con uno de los diálogos de Sergio (“Amo al diablo”)y con uno de los títulos alternativos de la cinta en Latinoamérica: “Las diabólicas del amor”. La mujer mágica entonces es equiparada con un ente infernal y corrupto.
El estereotipo de la bruja malvada en el cine encuentra su origen en la creencia medieval de que las brujas representaban la encarnación del mal diabólico: “la brujería representaba una adhesión voluntaria e interesada de la bruja a los mandatos del Mal, con el fin de obtener una serie de poderes sobrenaturales con los que alcanzar sus deseos perversos” (Agúndez San Miguel, 2009, p. 258).
El “amor” que ofrece la bruja Consuelo es un sentimiento corrompido que choca con la verdadera esencia del Eros. Para alcanzarse, exige el sacrificio de una víctima (Fabrizio, el esposo de Aura). La vieja consigue la enajenación amorosa del bibliotecario mediante el maleficio, la posesión demoníaca de su víctima. El amor engendrado por la magia negra constituye una aberración que debe ser castigada: Al final del filme, Consuelo es conducida por Sergio a una hoguera, donde el fuego la consume mientras su imagen y la de Aura se superponen en un juego visual. La bruja mala comparte la muerte con sus antecesoras y sólo con su extinción la maldad y el caos termina. 
---

Anche nel genere gotico Damiano Damiani, il più eclettico regista italiano, ha lasciato un segno. "La strega in amore" viene generalmente considerato un corpo estraneo al filone inaugurato anni prima da Freda e Bava, ma in realtà ne condivide gli stilemi di base, a partire da un erotismo insinuante che si fonde via via al soprannaturale. In questo è fondamentale il gran lavoro del direttore della fotografia Leonida Barboni e la qualità degli interpreti, perfettamente a loro agio nei ruoli. Il sottile gioco al massacro che Damiani orchestra soffre di alcune lungaggini, in particolar modo nella fase centrale caratterizzata dalla presenza di Volontè, ma alla lunga cresce, inquieta e seduce. Almeno quanto la sensualissima Rosanna Schiaffino. 
Kronos

Tuppe tuppe, Marescià! - Carlo Ludovico Bragaglia (1958)

$
0
0

TITULO ORIGINAL Tuppe tuppe, Marescià! (E' permesso, Maresciallo?)
AÑO 1958
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 92 min.
DIRECCION Carlo Ludovico Bragaglia
ARGUMENTO Ettore Maria Margadonna e Luciana Corda
GUION Ettore Maria Margadonna e Luciana Corda
REPARTO Peppino De Filippo (Percuoco), Giovanna Ralli (Carmelina), Roberto Risso (maresciallo dei carabinieri Stelluti), Lorella De Luca (Maria), Memmo Carotenuto (brigadiere dei carabinieri Baiocco), Aroldo Tieri (Angiolino, il notaio).
PRODUCCION Danilo Marciani
FOTOGRAFIA Raffaele Masciocchi
MONTAJE Mario Serandrei
MUSICA Carlo Savina
ESCENOGRAFIA Alfredo Melidoni
VESTUARIO Giulia Mafai
GENERO Comedia

SINOPSIS Don Percuoco regresa a su pueblo tras haber hecho fortuna en Francia, y ahora busca esposa. La joven Maria, que regenta un bar, es la elegida, pero ella no está por la labor; ya que está enamorada del tímido sargento. Este es Pietro Stulleti, personaje creado en "Pan, amor y fantasía", que no es capaz de declararse. Para vengarse, Percuoco abre un café enfrente del de Maria y contrata como camarera a Carmela, una hermosa romana que revolucionará a los hombres del pueblo con sus encantos. Esto provocará más de un lío. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

Un affresco gustoso di un Italia tipicamente rurale del dopoguerra con il paesino sperduto del centro Italia, la gente semplice, le persone di riferimento nel sindaco e la sua giunta, il maresciallo dei carabinieri di fresca promozione e il bar come centro di aggregazione. Manca il parroco ma ne fa più che degnamente le veci il notaio con una personale lotta all'immoralità e alla facilità di costumi che l'arrivo della procace Carmelina, una splendida Giovanna Ralli, ha portato in paese. Lei è stata assunta da Percuoco, Peppino De Filippo, un muratore arricchitosi in Francia e tornato in paese per sistemarsi. Carico di soldi e non più giovanissimo è seriamente invaghito della giovane barista Maria che naturalmente lo respinge essendo a sua volta innamorata dell'imbranatissimo Maresciallo della locale stazione dei Carabinieri. Percuoco per farla cedere ha aperto un bar ultra moderno con tanto di Juke-box nella stessa piazzetta e ha assunto la bellissima Carmelina come cameriera in grado di attirare tutti gli uomini del paese nel suo bar essendo le donne ancora lontane da un'emancipazione che permetta loro di uscire la sera come i mariti. Non pago, Percuoco ha anche acquistato il palazzo del bar di Maria che è costretta a pagargli l'affitto e con la quasi assenza di clienti è in procinto di capitolare alle avances del Percuoco. Un aiuto finanziario le viene offerto dal Maresciallo che è ancora lungi dal dichiararle il suo amore anche perché il regolamento vieta che un comandante possa innamorarsi di una del luogo nel quale opera. Un altro aiuto le viene dalla "crociata" che il misogino notaio sta portando contro la licenziosità di quel luogo e della sua avvenente cameriera riuscendo ad aizzare le mogli del paese contro i loro mariti "sporcaccioni" che passano le serate nel nuovo bar. Riuscirà nel solo intento di apprezzare anche lui le grazie femminili di Carmelina sposandola, mentre il Maresciallo con accento veneto, trasferito in un altro paese dal suo comando, partirà in corriera con la sua amata Maria. E Percuoco? Niente paura non è rimasto col "cerino in mano" e si è sistemato con una sua vecchia fiamma dimenticata di un paesino vicino e che incontratala fortuitamente ha saputo risvegliargli l'antica passione. Tutto è bene quel che finisce bene per i protagonisti, mentre per quell'Italia semplice sembra che le cose siano andate decisamente peggio. Tra le tante belle canzoni si ricorda la famosissima Tuppe, tuppe Marescià che è sottotitolo e spunto per il film.

TUPPE - TUPPE MARISCIÀ'
(De Mura, Gigante, Aracri - 1958)


Nisciuno cchiù fatica a stu paese,
songo arze 'e tterre, 'e ppiante só' seccate.
'A gente nun ragiona, è giá nu mese.
'Sta cosa nun pò ghì,
no, nun pò ghì, no,
e si nisciuno parla, mo parl'i'.

Tuppe-tuppe mariscià',
arapite, sò' n'amico.
Mo ve conto, mo ve dico
pecché só' venuto ccà.
Tuppe-tuppe mariscià',
arapite mariscià.

'A sapite a Carmilina
ca sta 'e casa 'ncopp''a scesa?
E' na mala chiappa 'e 'mpesa,
vuje ll'avit''a fá arrestà.
Mo ve dico mariscià',
mo ve conto marisciá'.

Nisciun'ommo 'e stu paese
da Carmela s'è salvato.
Ogneduno è affatturato
pe' nu vaso ch'essa dà.
Jammo, ja', mariscià'.

Pe' capriccio e no p'ammore,
cu nu vaso 'e fuoco ardente,
avvelena a tanta gente.
Nun 'e fà cchiù ragggiunà.
E na legge nun ce sta?
Pruvvedite mariscià'.

'Ntuono 'e Cuncetta, Mineco, Pascale,
Vicienzo, Ciro, só' arredutte mieze.
'O farmacista e 'a giunta comunale,
nun sanno cchiù parlà,
no, cchiù parlà, no,
che guajo pe' stu paese mariscià'.

Tuppe-tuppe mariscià',
......................

Marisciá' vuje nun parlate?
Ma pecché nun rispunnite?
Mariscià', che ve sentite?
Nun 'ngarrate cchiù a parlà?

//////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////

Non lavora più nessuno in questo paese,
le terre sono arse, le piante sono seccate.
La gente non ragiona, è già un mese.
Questa cosa non può andare,
no, non può andare, no,
e se nessuno parla, ora parlo io.

Toc-toc maresciallo,
aprite, sono un amico.
Ora vi racconto, ora vi dico
perchè sono venuto qua.
Toc-toc maresciallo,
aprite maresciallo.

La conoscete Carmelina
che abita sulla discesa?
E' una poco di buono,
voi dovete farla arrestare.
Ora vi dico maresciallo,
ora vi racconto maresciallo.

Nessun uomo di questo paese
da Carmela si è salvato.
Ognuno è stregato
per un bacio che lei dà.
Andiamo, dai, maresciallo.

Per capriccio e non per amore,
con un bacio di fuoco ardente,
avvelena tanta gente.
Non li fa più ragionare.
E una legge non c'è?
Provvedete maresciallo.

Antonio di Concetta, Mineco, Pasquale,
Vincenzo, Ciro, sono mezzi arresi.
Il farmacista e la giunta comunale,
non sanno più parlare,
no, più parlare, no,
che guaio per questo paese maresciallo.

Toc-toc maresciallo,
....................

Maresciallo non parlate?
Ma perchè non rispondete?
Maresciallo, cosa vi sentite?
Non riuscite più a parlare?


Don Percuoco torna al paese dopo aver fatto fortuna en Francia e cerca moglie. La bella Maria, opera un bar, es la prescelta, ma lei non ne vuole sapere: é innamorata del timidissimo maresciallo non riesce a dichiararsi. Percuoco decidir allora di prendere Maria por fama e apre un caffé di fronte al suo dove chiama un servire da Roma la procace Carmela. Presto tutti gli uomini del paese disertano bar il di Maria por accorrere un vedere le grazie di Carmela, suscitando le ira del notaio, difensore della pubblica moralità e delle mogli. ¿Ven irá a terminar?
Ana Isabel

I baci mai dati - Roberta Torre (2010)

$
0
0

TITULO ORIGINAL I baci mai dati
AÑO 2010
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 80 min.
DIRECCION Roberta Torre
GUION Roberta Torre, Laura Nuccilli
REPARTO Donatella Finocchiaro, Pino Micol, Giuseppe Fiorello, Carla Marchese, Martina Galletta, Alessio Vassallo, Tony Palazzo, Valentina Giordanella, Gabriella Saitta, Lucia Sardo, Piera Degli Esposti
FOTOGRAFIA Fabio Zamarion
MONTAJE Osvaldo Bargero
MUSICA Federico Di Giambattista, Andrea Fabiani
PRODUCCION Rosettafilm, Nuvola Film, en collaboración con Adriana Chiesa Enterprises, Regione Siciliana, Sicilia Film Commission e Cinesicilia
GENERO Comedia  / Drama

SINOPSIS Periferia di Catania, oggi. Manuela ha tredici anni, lavora come apprendista parrucchiera, vive con i genitori e la sorella. Una ragazza come tante. Fino alla notte in cui una statua decapitata della Vergine Maria le rivolge la parola. (Gli Spietati)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)


Trama del film I baci mai dati: 
Manuela, tredici anni vissuti a Librino, un quartiere modello, periferico e degradato di Catania, un giorno si inventa di poter fare miracoli. La gente non desidera che crederle e da quel momento irrompe nella sua vita un'umanità affamata e bisognosa che le chiede di tutto: dal posto di lavoro perduto alla vincita al Totocalcio. Mentre sua madre Rita intravede la possibilità di farne un commercio, Manuela si spaventa e vorrebbe smettere di fare la santa, ma non è più così facile. Perché suo malgrado un miracolo succede davvero.
---
Roberta Torre e il suo cast presentano I baci mai dati 

Ha già fatto Venezia, Mosca, il Sundance di Robert Redford. Insomma l'ha presa larga il film di Roberta Torre I baci mai dati, che arriva nelle nostre sale il prossimo 29 aprile. 
Il cast e la regista milanese, siciliana d'adozione, ci hanno parlato di questa storia "miracolosa", che unisce toni favolistici, melodramma, un pizzico di spiritualità e una vivacità di colori notevole. 
Nell'infuocata periferia di Librino, sobborgo di Catania (costruito dall’architetto giapponese Kenzo Tange per essere qualcosa di decisamente diverso), la giovanissima Manuela (Carla Marchese) dice di aver visto la Madonna in sogno. Tanto basta per cambiare la sua vita e quella dei suoi familiari. La piccola diventa improvvisamente una “santa” a cui tutto il paese chiede aiuto, la mamma Rita (Donatelella Finocchiaro), una manager che accoglie in casa tutti i bisognosi di un incontro, ricevendo in cambio grandi quantità di doni floreali e denaro. Un equilibrio fragile che porterà a scontri, situzioni comiche e una svolta imprevista. 
Roberta Torre ha fatto tesoro dell’esperienza estera del suo film. “Non ho voluto dare una particolare connotazione regionale alla mia storia, volevo solo fosse ambientata in una periferia, a quel punto è arrivata Librino. Le reazioni ricevute dagli spettatori non italiani mi hanno sorpreso - dice la regista - ho capito che, al di là del contesto regionale, il fulcro di tutto erano i messaggi trasmessi. Una parola che suona così antica e che non uso mai, tuttavia sono stati proprio i rapporti, le emozioni e anche la commozione a lasciare il segno”. 
Dagli Stati Uniti le è stato chiesto come mai un Paese dove regna tanta bellezza sta vivendo un tale momento di degrado. "Una domanda che sinceramente in Italia non mi è stata mai posta," ha detto Roberta, la quale ritiene possa essere difficile, ma non impossibile, trovare la bellezza anche a Librino, quartiere satellite fatto di palazzoni e cemento. 
“La Sicilia, luce, caratteri, colori particolari: questa terra per me è come un palcoscenico del mondo, una regione che è luogo di un immaginario potente, per questo non smette di affascinarmi e di essere fulcro del realismo delle mie storie. In un momento di così triste immaginario e povera realtà, mi piace vivere in un posto che mi faccia scoprire le nuove strade della fantasia”. 
Le chiediamo cosa rappresentano le figure femminili, vere o sognate, che nel film compaiono con la loro femminilità vistosa, i capelli cotonati, un trucco deciso su visi anche angelicati: “Credo faccia sempre parte del mio immaginario favolistico e da fumetto. Fin dai primi film ho sempre raccontato delle favole, pur se includono toni inquietanti o poco rassicuranti”. 
La lavorazione de I baci mai dati, dopo un iniziale sospetto e diffidenza dei locali, è stato accolto con gentilezza e disponiblità. “Nelle periferie lavoro da sempre, in quei contesti mi trovo bene, quelli in cui il contemporaneo trova le sue forme prima di ogni altro luogo. Probabilmente ormai fa parte di me”. 
A distanza di otto anni (da Angela) Roberta Torre e Donatella Finocchiaro si ritrovano. “E’ stata la mia mamma artistica – dice Donatella – in questo anno pieno di commedie quella di Roberta ha segnato nuovamente il mio debutto, in una storia che unisce ai toni comici, il realismo e l’onirico”. 
Interpretare una donna con una femminilià così provocante? “Non è stato facile all’inizio, ammette divertita, questa nuance biondo Librino, le unghie laccate, stretta in abiti leopardati e tacchi alti, non è un’immagine che mi appartiene, ma ho avuto fiducia in Roberta”. 
Donatella interpreta una donna sopra le righe, vistosa, accattivante, ammaliatrice, molto presa da sè. “La causa scatenante, lo snodo di tutti i rapporti nel film è proprio la visione della Madonna che mia figlia dice di aver avuto. Da quel momento ci si accorge di come tutti nel paese sentano il bisogno di sperare in qualcosa ed essere ascoltati da qualcuno”. 
Le donne qualche bacio lo conservano da parte (più che non darlo) sapendo quale sarà l’occasione buona? “Mi viene in mente mia nonna quando diceva, in dialetto siciliano, che i bambini si baciano solo di notte, quando dormono. Forse sì, c’è un perchè abbastanza antico nel dosare l’affettività. Ma nel film assistiamo a una bella svolta”. 
Nel cast de I baci mai dati ci sono anche Giuseppe Fiorello, Pino Micol e Piera Degli Esposti, nel ruolo di una parrucchiera che nel suo coloratissimo negozio legge anche le carte. “Mi piace aggiustare la testa fuori e dentro” spiega  l’attrice, che si è divertita molto a interpretare questo ruolo, aggiungendo alla figura una sana crudeltà. “E’ l’unica che dubita dei poteri di questa ragazza, in realtà è un po’ invidiosa perché fino a quel momento ci aveva pensato lei a rendere felici o meglio a illudere (con le altissime acconciature e un giro di carte) le sue clienti”. Le chiediamo quale è il ruolo che vorrebbe nel prossimo futuro: “il commissario, spero proprio che a forza di dirlo qualcuno accolga la mia idea. Mi affascina e inoltre penso di essere portata per le indagini, nella mia testa ho risolto anche qualche caso”. 
I fedeli alla piccola Manuela chiedono soprattuto lavoro e fama, in una lunga processione che costringe l’esordiente Carla Marchese ad indossare abiti “da suora” e ascotare pazientemente. 
“Al contrario del mio personaggio che inventa la visione della Madonna per attirare l’attenzione, io cerco di non farlo mai, i miei compagni hanno saputo solo ora che ho girato un film”. 
Quindici anni, un’esperienza sicuramente piacevole, che in futuro (adesso pensa a studiare) magari ripeterà, e una sintesi del film genuina. I baci mai dati per Carla è “emozionante, dolce e divertente”. 
Giulia Pietrantoni 
---
Quando la Madonna ti parla in sogno, sia vero o no, qualcosa succede. Succede che Librino può diventare il centro del mondo, i paesani dei fedeli, la musica, silenzio, e una ragazzina, santa. 
Con spirito e spiritualità laica la regista che si fece adottare dalla Sicilia, e si trovò benissimo, mette in scena il suo film sui miracoli. Agrodolce, allegro e misterioso. 
Deciso da lei, illustrato da lei, scritto da lei insieme a Laura Nuccilli, I baci mai dati ha l'impronta di Roberta Torre, che cambia di volta in volta, non si adagia, ha coraggio, a volte sbanda. Ben fatto. Chiedersi se la Madonna possa veramente aver detto qualcosa a Manuela (Carla Marchese) non è fondamentale, non lo capisce neanche la protagonista, che confesserà una bugia, ma secondo me qualcosa aveva visto, il sogno era sfocato. Invece ha senso che il solo sospetto dello stato di grazia di quella ragazza, vivacizza un'intera comunità, quella che ha richieste e paure lecite, molte stranezze e soprattutto desiderio di essere ascoltata. 
La regista milanese ha bisogno dei sogni e dei colori pop per affondare nel senso di realtà. Per rendere quella periferia catanese, né blanda, né fasulla, servono i palazzoni in cemento e i cartamodelli da collezione, l'autenticità di una casa come tante e il parrucchiere/cartomanzia dalle avvolgenti tinte rosso/viola (decisamente troppo almodovariano). Un miracolo, ha pensato Roberta, può avvenire solo dove il reale di una famiglia mezza sfasciata, impetuosa e non comunicativa, fa spazio all'immaginazione (di carrellate di donne ammaliatrici dalle teste cotonate). 
Decisamente femmine di un sud fantasioso e rituale, nella versione vera, o in prorompenti visioni felliniane, le donne occupano la scena. Rita (Donatella Finocchiaro), mamma sguaita e affaccendata, che nel dono della figlia crede solo per profitto (fiori e denaro arrivano in quantità), indossa orgogliosa i suoi abiti fascianti. Manuela, scontenta ma paziente, deve indossare invece quelli più adatti ad accogliere i "fedeli". Adolescente a intermittenza, lei, a quella corte non sa proprio cosa dire, perchè non ha visto niente, però piano piano inizia a sentire. 
La rivoluzione estetica (che aveva accompagnato il grottesco e surreale musical di Tano) non si ripete, questo film è sicuramente più imperfetto e indeciso nell’amalgamare i suoi elementi, ma non per smania di strafare. Senza addentrarsi nel mistero della fede, Roberta Torre preferisce piuttosto mostrare la speranza che si vuole mantenere e regalare ad ogni costo. Volutamente ironico, ancor più decisamente melodrammatico e onirico I baci mai dati non è spiegato o troppo parlato, i miracoli d’altronde sono da prendere così. 
Giulia Pietrantoni 
---
Una freschezza narrativa e visiva che offre il respiro di una 'speranza'

Estate. Catania. Librino, quartiere satellite. Manuela ha tredici anni, una sorella maggiore che si sta infilando in giri pericolosi, una madre che non sa bene che fare della propria vita e un padre che c'è e non c'è. È un'esistenza come tante la sua fino a che un giorno la statua della Madonna che è stata eretta nello spiazzo antistante la sua abitazione diventa qualcosa di più di un monumento. Le parla o, almeno, così sembra. Da quel momento la vita di Manuela e di chi la circonda si trasforma radicalmente. La voce si diffonde e la sua abitazione diviene meta di persone che chiedono di ricevere una grazia. Diviene anche occasione di arricchimento per sua madre e di stress per lei. Finché un giorno...
Roberta Torre è tornata. Non possiamo che constatare con piacere che, dopo il passo falso di Mare Nero, la regista milanese (ma siciliana adottiva) ha ritrovato la freschezza narrativa e visiva del suo cinema migliore. La visionarietà del suo fare cinema diede origine a una piccola rivoluzione estetica con Tano da morire. Si poteva parlare di mafia con un musical in cui il grottesco si sposava con il surreale. Che cosa di meglio di un miracolo, si potrebbe pensare, per intervenire con le scelte stilistiche di cui sopra? Ma la regista, per sua e nostra fortuna, non ama ripercorrere territori già esplorati o, meglio, integra il suo passato cinematografico con un nuovo modo di narrare.
C'è ancora un negozio di parrucchiera (antro della fattucchiera Degli Esposti) in cui Manuela vorrebbe apprendere un lavoro se non le venisse impedito. Ci sono sogni in cui donne con capelli di zucchero filato si lasciano pettinare. Ma c'è, soprattutto, un'umanità alla disperata ricerca di qualcuno che sia disposto ad ascoltare le sue lacerazioni, i suoi bisogni, talvolta le sue pretese che sfiorano l'assurdo involontario ("Vorrei che la Madonna facesse trovare un lavoro al mio fidanzato in un supermercato. Nel turno dalle 3 alle 8 del pomeriggio, che è il migliore). 
È un'umanità disposta a credere a chiunque sembri credere in lei. Così Manuela (che a sua volta vorrebbe essere compresa e ascoltata ricevendo quei baci che non ha mai avuto e che di conseguenza non ha dato) è costretta a trasformarsi in una sorta di fabbrica della speranza. Ma di vera speranza si tratta? Roberta Torre non ci vuole dare una risposta. Ci vuole offrire invece il respiro di una possibilità. Un respiro misterioso, come quello iniziale che percepiamo distintamente sotto il telo che ricopre la statua della Madonna.
Giancarlo Zappoli 
---
C'è un nuovo problema all'orizzonte per il cinema di Roberta Torre. La cineasta milanese, che si innamorò della Sicilia e che lì decise di ambientare i suoi lavori da regista, non riesce più ad affrescare quel territorio così presente (al pari dei protagonisti) nei suoi lungometraggi. Dopo l'esordio di "Tano da morire", l'abilità della Torre di contaminare i colori e i volti reali dell'isola con il suo innato spirito per un cinema fuori dalla realtà, ricco di citazioni pop e spunti fantasiosi, si è un po' appannata. Anche se, in ogni caso, la scelta di spaziare tra i generi e variare (e anche di molto) il tono del racconto metteva in luce un talento comune a pochi colleghi, almeno in Italia.
Con "I baci mai dati", la Roberta del cinema italiano tira fuori dal cilindro un copione-farsa, una commedia degli equivoci ambientata a Catania, dove l'adolescente Manuela, un po' annoiata e un po' trascurata dalle persone care che la circondano, decide di mettere un po' in subbuglio la sua vita inventandosi l'abilità di parlare con la Madonna. E così, la novella Bernadette si trova a ricevere a domicilio le visite di tutta una fauna umana di quartiere che esprime i più disparati desideri, chiede le più improbabili intercessioni alla piccola. E il dono fasullo di Manuela diventa anche un modo per sua madre, un ex reginetta di bellezza, per sognare di metter su un vero e proprio business, un modo per uscire da un anonimato di periferia in cui, malauguratamente, è finita con l'arrivo della mezza età.
Sempre attenta nei particolari della messa in scena, la Torre anche stavolta è raffinata nelle scelte stilistiche, nell'uso di primi piani e inquadrature che si soffermano sui particolari più paradossali e grotteschi della vicenda. Ma l'obiettivo finale resta confuso. Da una parte, appunto, l'aspirazione a una "alta" commedia degli equivoci ambientata in un'improbabile quartiere catanese, dall'altra una sorta di coming-of-age all'italiana, un racconto di formazione sull'importanza dei baci "non dati", dell'affetto non ricevuto da parte di una ragazzina. Entrambi gli spunti, in verità, sono interessanti e avrebbero meritato maggior elaborazione. Perché la sensazione che incombe è che il cinema della Torre, proprio quando si allontana dal suo mondo dell'assurdo, fatto di musical beffardi e di una Sicilia da cartolina onirica, e si cala di più in un mondo vero composto da volti reali, perde di fascino e, forse, si ibrida fino allo snaturamento.
E per quanto gli interpreti siano bravi e le scelte cadute su di loro azzeccate, resta il dubbio che, ad esempio, il personaggio di Donatella Finocchiaro, la madre bellissima e "decaduta", sia stato tratteggiato più con il gusto di mettere in scena un carattere "strappa-sorrisi" piuttosto che con una profondità degna di "neoverismo" siciliano.
Giancarlo Usai


Esce a breve distanza dall'omonimo film di cui è regista (presentato alla 67° edizione della Mostra del Cinema di Venezia, candidato a due Nastri d'argento, di cui uno proprio per il soggetto), I baci mai dati di Roberta Torre. Un romanzo breve e intenso, che amplia e arricchisce il film con l'approfondimento dei rapporti familiari e l'evoluzione psicologica e sentimentale della giovane protagonista. Resta, come tratto inconfondibile, la visionarietà e la vena evocativa che caratterizza i migliori film della Torre.

Manuela ha tredici anni e vive a Librino, estrema periferia di Catania: palazzi di cemento uno dietro l'altro contrassegnati da lettere, dove a stento arriva la posta. Sua madre Minuccia è un cane che scodinzola riconoscente. Suo padre Giovanni è un cane bastonato. Il Dio che ogni tanto le appare è un cagnolino abbandonato, perché nessuno si è mai preso cura di lui e si sente molto solo. Anche i compagni di classe sono animali dello zoo, mentre sua sorella è una scimmietta rompicoglioni. Solo Giuseppe è diverso, bello e stronzo da star male.
Una notte la grande statua bianca della Madonna nella piazza principale perde la testa. Tutti gridano e si disperano, è un presagio cattivo, ma Manuela sa dov'è, glielo ha rivelato la Madonna in persona. È nel garage dei Lo Sicco, divisa in due, dietro le tazzine di porcellana. Così Manuela diventa la ragazzina del miracolo, e tutti adesso le prestano attenzione, come si fa con un giocattolo nuovo, per chiedere un piccolo intervento divino anche per sé. Minuccia odora l'affare, e apre la casa a orde di questuanti. Ma Manuela pensa solo a Giuseppe e ai suoi baci, ha le spalle troppo piccole e fragili per sostenere tutta l'infelicità e il dolore del quartiere. Decine di persone al giorno, che vengono a chiedere un lavoro per il figlio nel supermercato sotto casa, nel turno dalle 3 alle 8 del pomeriggio, che è quello migliore; un fidanzato bello e ricco; un seno nuovo; una comparsa al Grande Fratello o in qualche trasmissione della De Filippi. Poi padri strangolati dai debiti, disoccupati, disperati, con figli e mutuo da pagare. Manuela guarda tutto quel dolore, che prima non sospettava neppure esistesse, e guarda sua madre, adesso così premurosa, come mai era stata, intascarsi rotoli di soldi da quei disgraziati. Manuela sa quanti baci ha ricevuto da sua madre. Sa il numero preciso. Venticinque, in tutta la sua vita, uno più uno meno. Baci distratti, dati quando non ne poteva fare a meno, e scordati in fretta.
Manuela non riesce più a dormire la notte. Le preghiere le rimbombano nelle orecchie. Sono tutti affamati, quelli che vanno da lei, hanno un bisogno disperato di essere ascoltati. La Madonna non le parla più. In verità, non le ha mai parlato: quel giorno aveva visto i Lo Sicco giocare a pallone in piazza e colpire la testa della Madonna, che si era staccata e rotta.
Ma alla fine le cose possono cambiare, perché il finale lo decidiamo noi. Ci costringono alla bugia, che è come una lunga notte, ma si può scegliere di rivedere la luce. Così, scappando di casa, Manuela riesce a farsi ascoltare dalla madre, a confessare la sua bugia e a sentirla, per la prima volta, madre, a sentirsi, per la prima volta, figlia. Il grande miracolo sta forse qui, nel ritrovarsi, nel recuperare affetti che parevano distrutti e perduti per sempre .
Un libro e un film che parlano dell'Italia di oggi, dei problemi quotidiani delle persone comuni, dei pericoli dell'isolamento, delle speranze che la disperazione della povera gente ripone in una fede che sconfina nella superstizione. Viene fuori, soprattutto dalle pagine del romanzo, un urgente bisogno di sacro e autenticità. Lo dimostra anche il proliferare di romanzi, saggi, pellicole che si interrogano sul ruolo della religiosità e della fede nella società del consumismo e della spettacolarizzazione: solo per citare i più recenti, Habemus Papam di Nanni Moretti e Corpo celeste di Alice Rohrwacher. Quest'ultimo condivide con il film/romanzo della Torre molti temi: le protagoniste sono due adolescenti con una famiglia sgretolata e poco presente, l'azione ha luogo in una periferia del sud Italia, le due giovani si trovano a fare i conti con una spiritualità confusa, in crisi, vicina alla superstizione. E poi c'è un "miracolo" finale, che sposta il focus su un piano diverso, in cui umano e divino confluiscono per ricordarci che il sacro sta, semplicemente, nell'amore per sé e per gli altri.
---
Manuela ha 13 anni e vive in una famiglia grottesca, ma inquietantemente realistica, una famiglia che la ignora. Probabilmente per attirare l'attenzione su di sé si inventa di aver parlato in sogno con la Madonna, che le ha rivelato dove si trova la testa della sua statua appena inaugurata in una piazza del quartiere, rotta accidentalmente e poi nascosta da alcuni ragazzini. Dopo il ritrovamento della testa, la vita di Manuela cambia radicalmente, non solo perché diventa oggetto di devozione da parte degli abitanti del quartiere, ma soprattutto perché la madre coglie l'occasione per trarne guadagno e iniziare un dubbio percorso di ascesa sociale. Un meccanismo di mercificazione del sentimento religioso ben noto che accompagna beatificazioni, santificazioni o rivelazioni come quella di Manuela, del quale fanno parte, oltre al business dei pellegrinaggi e dei gadget sacri, anche le varie fiction televisive a tema. Un meccanismo ben sviscerato dal film di Marco Bellocchio L'ora di religione, senza dubbio il primo illustre riferimento cinematografico che viene in mente guardando I baci mai dati, l'ultimo film di Roberta Torre applaudito a Venezia e al Sundance Festival. "In realtà ho molto apprezzato il film di Bellocchio, L’ora di religione, è un autore che amo profondamente, ma non ho pensato al suo film quando ho iniziato a lavorare a I baci mai dati. L’idea è nata da un mio racconto, la storia di questa ragazzina che si inventa di parlare con la Madonna, una sorta di reminiscenza di 'Bernadette' versione truffaldina", ci dice la regista. Quello che hanno in comune i due film è sicuramente l'indagine della speculazione sul sentimento religioso, ma Roberta Torre è più attenta al sentire popolare, alle reazioni della gente e alle conseguenze personali che questa vicenda ha sulla sua giovane protagonista.
I baci mai dati è ambientato a Librino, quartiere satellite di Catania nato a metà degli anni Settanta e diventato in seguito alle varie storie di tangenti e abusivismo una zona degradata, segnata dalla criminalità. Isolati di casermoni dalle strutture modulari e ripetitive, uno spazio urbano che ricorda quello dei film del dopoguerra o le periferie romane di Pasolini, nati da una costruzione selvaggia, disordinata e poco rispettosa sia dello spazio urbano che dei suoi abitanti. Anche la comunità che lo abita ci ricorda un po' l'umanità che ruota intorno alle periferie italiane del cinema del dopoguerra, alla quale però Roberta Torre dà una connotazione tutta personale, propria del suo immaginario di regista: il prete che cerca di arginare il degrado e la criminalità e abita una chiesa kitsch dai cui soffitti pendono due enormi angeli dorati che sembrano precipitare al suolo, la parrucchiera-fattucchiera datrice di lavoro di Manuela che legge i tarocchi e trasforma tutte le donne in sorta di drag queen, l'uomo politico di dubbia moralità, eppure rispettato, di cui Rita diventa l'amante nella speranza di potersi sistemare. E poi ci sono gli abitanti di Librino, anche loro un po' grotteschi, ma che nell'esporre a Manuela preoccupazioni e richieste ci sembrano così vicini. Roberta Torre dice: "Il Sud è da sempre ricco di religione e religiosità, e dunque il rapporto con il miracolo e il miracoloso è più ricco che altrove. Faccia parte di una propensione fatalista, o invece di un reale sentimento religioso, questo è difficile dirlo. Nelle richieste di miracoli che ho raccolto, però, era evidenziato soprattutto il rapporto con il reale. Ho fatto una lunga preparazione per il film, in cui ho voluto far parlare dei veri miracoli che avrebbero potuto chiedere gli abitanti di Librino, e la maggior parte di loro mi chiedeva una cosa sola: un lavoro". Del resto il lavoro, prima della criminalità e dell'immigrazione, è la preoccupazione principale della maggior parte degli italiani, anche se i nostri media lo minimizzano o non ne parlano affatto. Quella che sfila di fronte a Manuela è un'umanità che ha perso fiducia nello Stato, nell'istruzione, nella religione ufficiale, e vede come unica speranza l'affidarsi alla Madonna perché solo un intervento dall'alto sembra poter porre fine a situazioni frustranti e in alcuni casi drammatiche. 
Centrale nel film è il rapporto di Manuela con la madre, e il titolo è principalmente riferito alla loro relazione fatta di lontananza e di reciproca indifferenza. Rita (Donatella Finocchiaro) è una donna superficiale, più interessata al suo aspetto che alla sua famiglia: ignora Manuela, se non per rovesciarle addosso le sue frustrazioni, caccia il marito di casa perché esasperata dalla sua indifferenza, ma non prova in nessun modo a capirlo, diventa l'amante di un uomo politico piacione perché la vede come la via più veloce per cambiare la sua vita, non fa altro che mettere in mano alla figlia maggiore dei soldi e spingerla tra le braccia dello stesso politico di cui sopra. Rita è davvero la madre prototipo che sta dietro a molte vicende di cronaca più o meno politica a cui ormai ci siamo abituati. "Su Rita Roberta mi ha suggerito di guardare all'aspetto e alla presenza scenica di Simona Ventura che, in quanto donna dello spettacolo, lavora molto con la sua immagine. Così Rita è un po' la Ventura, un po' Lory Del Santo", ci dice Donatella Finocchiaro. Il suo aspetto esteriore, il modo di vestirsi e di muoversi, non poteva che avere radici televisive dato che i suoi desideri e le sue aspirazioni provengono da lì. Allo stesso tempo la Finocchiaro dice di aver pensato ai personaggi di madri interpretate da grandi attrici italiane, prime fra tutte la Loren e, soprattutto, la Magnani. Così Rita è anche un personaggio complesso che deve venire a patti con le sue frustrazioni e che comunque resta l'unico collante della famiglia, essendo la sola a lavorare e ad occuparsi della casa. Manuela, interpretata dall'esordiente Carla Marchese, è invece in nell'età in cui cerca il proprio posto nel mondo e si sente smarrita senza la madre e senza attenzioni. Solo il padre sembra capirla quando, ormai cacciato di casa, fa la coda e le va a parlare, portandole in regalo un asciugacapelli e dei pettini rosa, perché sa che il sogno della figlia è fare la parrucchiera. Il loro percorso, seppur con tutte le differenze del caso, ricorda quello di un'altra coppia madre e figlia: Maddalena Cecconi (Anna Magnani, non a caso) e Maria in Bellissima di Luchino Visconti. In entrambe, Rita e Maddalena, vi è la stessa volontà di riscatto sociale attraverso le figlie, entrambe sono disposte a sconvolgerne la vita, a partire dal modo di vestire (Manuela sarà costretta ad abbigliarsi in modo più consono a una santa) fino alle abitudini quotidiane. Ma se alla fine Maddallena Cecconi ritorna in sé e capisce di star facendo del male alla sua bambina, Rita non ha questa consapevolezza. Deve essere Manuela, da questo punto di vista sicuramente più matura di lei, a sbatterle in faccia il suo disagio e, infine, a salvarle tutte e due. 
Ma "i baci mai dati" sono anche quelli che Manuela riceve da Ersilia, una ragazza rimasta ceca dopo aver assistito bambina all'assassinio del padre tabaccaio. Dopo la riconciliazione, madre e figlia tornano a casa determinate a cominciare insieme una vita più normale, ma ecco accadere il vero miracolo del film. Ersilia ha riacquistato la vista dopo aver avuto un paio di incontri con Manuela. Potremmo pensare che la protagonista non c'entri nulla, che la ragazza riacquisti la vista perché, proprio parlando con Manuela, è riuscita ad elaborare il suo dolore. D'altronde la sua cecità ha origine psichica non fisica. Ma resta un dubbio, perché tra le due ragazze si era instaurato un rapporto molto stretto e di reciproca empatia e, dopo un loro incontro, avevamo visto Manuela fare un sogno travagliato con al centro la statua della madonna, che ricorda da vicino quello della rivelazione sul nascondiglio della testa. Dubbio che si rafforza, ma che rimarrà tale fino alla fine, se pensiamo alla bellissima scena iniziale, quella dell'inaugurazione della statua della Madonna nella piazza di Librino, segnata da una soggettiva della statua che, attraverso il lenzuolo che la copre, si muove tra i palazzi e le persone accorse, fissando infine il suo sguardo su Manuela. Come se la protagonista fosse davvero stata scelta tra gli altri dalla Madonna per realizzare un suo progetto.
I baci mai dati è un capolavoro di equilibrio, e non solo nell'affrontare il tema religioso o quello dei rapporti famigliari e delle dinamiche sociali. Lo è soprattutto dal punto di vista della messa in scena, dell'equilibrio tra vicende personali e collettive, tra momenti narrativi e onirici, tra rappresentazione realista ed esagerazione pop. E poi perché nel film di Roberta Torre possiamo riscontare talmente tanti riferimenti cinematografici che c'è solo l'imbarazzo della scelta. Molti film e registi illustri sono stati scomodati, da Bellocchio a Buñuel, passando per tutto il nostro cinema del dopoguerra, e più lo si guarda e più se ne trovano. Pensiamo ancora una volta alla sequenza iniziale che ricorda l'inizio di Bellissima, de La dolce vita, di Mamma Roma. Eppure questi riferimenti non sono citazioni dirette e calcolate, sono qualcosa di sotteso, sono stati assimilati così profondamente che emergono senza alcuna forzatura nell'immaginario personale e riconoscibile di Roberta Torre. Tra le poche autrici che negli ultimi anni hanno saputo mettere in scena i problemi attuali del nostro paese e dare forma alle nostre inquietudini e ai nostri problemi a volte drammatici, togliendogli pesantezza ma non spessore e complessità. 
Valentina Rossetto   
---
Preceduto, nella proiezione veneziana, dall’orribile corto Niente orchidee, in cui lo spettatore ha già il privilegio di apprezzare l’inespressività di un Beppe Fiorello che ritroviamo, somma fortuna, nel lungometraggio che segue, l’ultima opera di Roberta Torre è un tentativo, abbastanza fallimentare e moralmente ambiguo, di satira sociale in forma di commedia grottesca. La regista di Tano da morire riscrive maldestramente un’ideale pagina di cronica “azzurra” (l’apparizione della Vergine e la beatificazione istantanea della sventurata, e menzognera, giovane veggente) cercando di abbozzare un ritratto socioculturale della pagana Sicilia, alla maniera di un Pietro Germi. Al di là degli evidenti difetti di montaggio e dell’approssimativa messa in scena, dovuti, a quanto si racconta, a problemi produttivi di “ordine greco” (per dirla con Godard), I baci mai dati non convince già a livello di scrittura ed è persino irritante nell’accondiscendenza ed empatia con la quale descrive gli eventi e tratteggia i caratteri. Alla fine, a tutti i personaggi, anche ai più “mostruosi” ed indifendibili, viene riservata una carezza assolutoria che non ha nulla dell’umana pietas e molto dell’italica ipocrisia. Non si chiedevano a Roberta Torre cinismo e tantomeno uno sguardo rivelante superiorità e disprezzo, ma semplicemente coerenza e coraggio. La regista, infatti, non osa spingersi oltre il confine che separa la favola dall’assurdo, timorosa di poter urtare la sensibilità di un pubblico al quale, anche se incapace di credere, deve essere almeno concesso il diritto di non sentirsi mai chiamato in causa. Come lo spettatore, nessuno è del resto direttamente tirato in ballo: né la religione (alla fine, perché non si dovrebbe concedere alla povera gente il diritto di sognare?), né la politica (il parlamentare fedifrago non è certo un brav’uomo, ma almeno è un buon amante), né le istituzioni familiari. Il film, a cui non si perdona un finale penosamente ricattatorio, resta una piccola cosa inoffensiva ma non innocua, essendo complice del “sistema” che non vuole (o non può) stigmatizzare. Dio è forse morto, ma continua a vedere e a provvedere.
Manuel Billi

La grazia di un film italiano che parla del sacro senza scadere nell’agiografia o nel facile sberleffo. Un piccolo film stonato, disarmonico ma non bamboleggiante, saturo eppure ridotto all’essenziale. Un racconto per immagini che, in un’epoca in cui tutto deve essere chiaro, netto, spiegato, sceglie la strada dell’allusione e del collage, cammino tortuoso e lussureggiante, anche quando le immagini sono letteralmente fatte di nulla (il prologo, un intreccio di trasparenze e pause musicali, è una dichiarazione d’intenti). Una regia che non teme di immergersi nei colori e nei suoni di un’utopia in via di smantellamento (il quartiere di Librino, opera di Kenzo Tange), né di cibarsi con avidità dei più disparati riferimenti cinematografici (gli adolescenti soli e in lotta di Truffaut, citato fin dal titolo, ma anche le surreali unghiate del primo Almodóvar e, perché no, il furore rappresentativo del Greenaway di The Baby of Mâcon). Un racconto (a)morale in cui la religione non è che uno degli aspetti della condizione e della follia umana: ossessionati dal desiderio di “elevarsi”, sublimando la quotidianità, i personaggi inseguono i rispettivi fantasmi, si ritrovano prigionieri di una rete di fughe illusorie e aspettative deluse, finiscono per constatare l’inutilità di ogni simulazione. La durezza (reale, non simulata) si scioglie nell’abbraccio inatteso, la parola che non riusciva a formarsi, quasi per magia, si fa strada fino alle labbra, l’esistenza (ri)acquista un senso. Ed è allora che il sogno (l’incubo?) si avvera.
La Madonna ha fatto la grazia.
Il film, prodotto nel 2009 e presentato nel 2010 al festival di Venezia, ha trovato solo in questi giorni la strada degli schermi nostrani.
Stefano Selleri

6 giorni sulla terra - Varo Venturi (2011)

$
0
0

TITULO ORIGINAL 6 giorni sulla Terra
AÑO 2011
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACION 103 min.
DIRECCION Varo Venturi
GUION Varo Venturi, M. Luisa Fusconi
MUSICA Jordan Balagot
FOTOGRAFIA Daniele Baldacci (director of photography) Varo Venturi
REPARTO Massimo Poggio, Laura Glavan, Marina Kazankova, Ludovico Fremont, Varo Venturi
PRODUCTORA Deusfilm
GENERO Ciencia ficción. Intriga. Thriller | Extraterrestres

SINOPSIS Cuenta una historia de abducciones y posesiones, que se centra en el doctor Piso, una atrevido científico que hace años que estudia el inquietante fenómeno de las abducciones alienígenas a través de la hipnosis. El encuentro con la joven Saturnia lo llevará a los descubrimientos más sorprendentes, conduciéndolo a una realidad escondida por milenios tras los bastidores de la historia. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

Subtítulos (Español)


Cuando el verano pasado os hablé de 6 Giorni Sulla Terra, un film italiano de ciencia ficción que descubrí un día viajando de enlace a enlace por páginas de cine que me llevaron hasta una web italiana que comentaba el film, tenía claro que iba a ser muy complicado que la película acabará cayendo en mis manos. Pero esa es precisamente la magia de internet, que cualquier cosa por rara y extraña que sea puede acabar con unos subtítulos y colgada para descargar y disfrutar.
6 Giorni Sulla Terra es un film como mínimo curioso que mezcla varios géneros como la ciencia ficción, el terror y el thriller, y que además lo hace de manera bastante notable en algunos momentos a pesar de las limitaciones de su bajo presupuesto y de su a ratos pobre puesta en escena.
El tema de las posesiones ya lo tenemos a estas alturas más que visto, pero ¿que sucedería si en vez de tener a una joven poseída por el demonio nos encontramos con que el intruso es nada más y nada menos que un ser alienígena? ¿Y si a todo eso le sumamos una trama de conspiraciones y de secretos escondidos por milenios que serán revelados mientras los protagonistas huyen y esconden a la joven afectada que es perseguida por los gobiernos para hacerse con ella y los misterios que esconde? Pues todo eso es 6 Giorni Sulla Terra, un refrito con un poco de todo, un coctel un tanto más agitado que mezclado.
El protagonista es el doctor Piso, un científico que estudia el inquietante fenómeno de la abducción alienígena, cosa que le causa no pocos problemas a la hora de encontrar financiación para sus estudios y entre el resto de sus colegas. Hasta que un buen día aparece en la puerta de su casa una joven llamada Saturnia, que primero toma por una fan más obsesionada con los aliens, pero que en realidad, como descubrirá más tarde a través de la hipnosis, está realmente poseída por un ente alienígena.
6 Giorni Sulla Terra quizá peca de ser un proyecto demasiado ambicioso para los pocos medios de los que dispone, su director Varo Venturi se empeña en compensar a base de efectismos propios de videoclip, algo que hace que los primeros minutos del film sean caóticos y de difícil comprensión, y a través de filtros que le dan a todo el film un aire oscuro y apagado incluso en exteriores. A veces parece un telefilm barato o una telenovela a bajo contraste, y a veces el efecto está más logrado. Cuando deja de lado los experimentos visuales el film gana bastante, logrando tener una trama atractiva y con suficiente elementos para mantener el interés a pesar de no ser del todo perfecta.
Es una lástima que el final, que no tiene otro nombre que ridículo y absurdo, deje en evidencia todo el conjunto que hasta el momento se iba aguantando a base de buenas intenciones y de simpatía. 6 Giorno Sulla Terra es de todas maneras una rareza y una curiosidad como mínimo recomendable para todos aquellos que se atrevan a adentrarse en una producción de ciencia ficción italiana y que no esperen un gran despliege de medios.
dragón negro
---
In un periodo di risveglio di coscienze, giusto perché la fine del mondo è vicina, è senz'altro appropriato andare alla scoperta di se stessi... ma riscoprirsi possessori di un'anima è il primo passo verso la ricerca della verità... alla ricerca di altre forme di vita. Che sia possibile che un film italiano riesca nel difficile intento di offrire qualcosa di diverso dalle solite "scurregge mentali"? 
Il progetto del film 6 giorni sulla Terra nasce sulla base degli studi degli esperti ufologi italiani, in particolare sui libri di Corrado Malanga, il famoso professore dell'università di Pisa. Nei suoi trattati si parla di rapimenti alieni, studiando i racconti dei così detti addotti (i rapiti) tramite la tecnica dell'ipnosi regressiva.
Se tutto ciò può sembrare pura fantascienza, è importante guardare la cosa dall'altro lato dello specchio, e rendersi conto che la fantascienza si ispira spesso proprio a questi studi e a queste esperienze.
In parole povere, la questione è questa: gli alieni non possiedono l'anima (quella parte multidimensionale di noi che potrebbe permettergli di vivere in eterno), e durante i famigerati rapimenti fanno di tutto per estrarla dal nostro corpo. Fino ad oggi hanno sempre fallito. L'anima sembra essere fatta per stare unicamente all'interno del nostro guscio fisico.
Indubbiamente la filmografia sugli addotti e su queste storie è pressoché infinita, ma è curioso vedere come anche l'Italia voglia metterci del proprio. Ultimamente era già capitato con il buon fumetto The Secret (recuperabile per iPhone e iPad), ma con questa pellicola il regista cerca di darci qualcosa in più di un semplice film.
La scelta della storia, dei personaggi, delle ambientazioni e probabilmente anche dello stile registico, dei giochi di luce e infine dei dialoghi, richiama molto fedelmente i vari video del professor Malanga facilmente reperibili sul sul tubo, diventando una sorta di "copia di mille riassunti" per arrivare più facilmente al pubblico.
Tuttavia la strada intrapresa, apprezzabile per chi è interessato al fenomeno, diventa fantascienza di bassa lega, specie se si fa il confronto con i colossi americani. Gli effetti speciali da primo anno di corso universitario di 3D Studio Max non sono per niente efficaci e la regia, per quanto originale e piacevole, potrebbe lasciare insoddisfatti i palati abituati solo ai grassi saturi americani, che inevitabilmente finirebbero per confondere lo stile europeo con l'amatorialità.
In realtà 6 giorni sulla Terra scorre bene, affascina, intriga e si impegna ad essere il più verosimile possibile, facendoci dimenticare per un attimo il motivo per cui odiamo tanto la cinematografia italiana moderna.
Senz'altro il film è studiato esclusivamente per interessati di fantascienza focalizzata sugli alieni, ma non è da escludere che possa avvicinare a questa cultura anche lo spettatore medio. 
Non mi stupirei se un giorno diventasse un piccolo cult.
Lancil9


Siamo tutti abdotti?

Il dottor Piso, un coraggioso scienziato, studia da anni l'inquietante fenomeno delle alien abductions (rapimenti alieni) attraverso l'ipnosi. L'incontro con la giovane Saturnia lo porterà a scoperte ancor più sconvolgenti, conducendoci nella realtà nascosta per millenni dietro le quinte della storia... (sinossi)
«C'è uno spettacolo più grandioso del mare, ed è il cielo, c'è uno spettacolo più grandioso del cielo, ed è l'interno di un'anima» (da “I miserabili” di Victor Hugo).
Essere introdotti al film da un preludio del genere è innegabile che crei delle aspettative non da poco nello spettatore che, con più o meno consapevolezza, ha scelto di andare a vedere 6 giorni sulla Terra di Varo Venturi – già fuori dagli schemi per Nazareno (2007).
Senza fare voli pindarici, ma cavalcando l'atmosfera del Festival di Cannes appena conclusosi, si potrebbe anche pensare di trovarsi di fronte a un'aurea vagamente malickiana in versione intimista - trattandosi di anima. Come precauzioni prima dell'uso, ci preme informare che se si sceglie di andare alla proiezione del film di Venturi bisogna o essere “abdotti” (ma non è questo il destinatario primario a cui il regista e la sua troupe sembrano rivolgersi) o essere disposti a sgomberare la mente dagli schemi precostituiti e credere che quello che scorre sotto i nostri occhi sia Realscienza almeno per quei 101'. Il punto rischioso risiede proprio nell'ottica con cui guardarlo. Ai titoli di coda ci si direbbe: è solo un film di fantascienza, ma le intenzioni investite nel lavoro e anche nella promozione non combaciano con questa idea («un film che propone la denominazione Realscienza per una nuova onda cinematografica, con il desiderio di contribuire ad una percezione più elevata della nostra realtà» dalle note di regia).
Il motore che dà avvio al film prende ispirazione, infatti, dalla realtà. Il nostro dottor Piso (Massimo Poggio) nella fiction è l'alter ego del prof. Corrado Malanga, ricercatore presso l'Università di Pisa, il quale è uno degli scienziati più accreditati rispetto al fenomeno delle alien abductions. Il nostro Piso convinto delle sue ricerche, certificate da dati sperimentali, e animato dal proposito di liberare l'umanità rapita internamente da questa forza aliena, con coraggio rende pubblico il risultato a cui è pervenuto. Conseguenza immediata: l'allontanamento dall'ambiente universitario. Con umiltà e allo stesso tempo con la forza della diversità dei punti di vista, viene istintivo allinearsi con lo scetticismo accademico. Sentirsi dire, vedere in un film che il nostro cervello sarebbe un contenitore perfetto per un alieno6_giorni_sulla_Terra_testo perché siamo “contenitori” di energia (l'anima) reperibile solo negli esseri umani...beh, col beneficio del dubbio, credo sia naturale non riuscire ad accettarla come verità.
Rispettando che si tratti di ricerche scientifiche – seppur si discosti dal filone canonico – e non essendo questa la sede in cui discutere di alien abductions, dando onore al merito, un pregio bisogna riscontrarlo in questa operazione: il coraggio. Forse non siamo noi pronti, ma di certo girare un film  che in qualche modo divulga dei risultati di una ricerca calpestando un campo minato com'è l'ufologia e ancor il senso della vita, è senza dubbio un atto di coraggio. Coraggio che a volte però eccede scadendo in uno sviluppo narrativo dall'insipido sapore di gran calderone; seguendo la storia di Saturnia (Laura Galvan) ci si imbatte in un esorcista (lo stesso Venturi), in uno sciamano, nei servizi segreti francesi, nelle viscere segrete della Roma sotterranea – per il resto, meglio non svelare troppo i risvolti da thriller investigativo che sottendono il disegno. 6 giorni sulla Terra scanditi dal metronomo, 6 giorni sulla Terra come furono i 6 giorni in cui Dio creò il mondo, 6 giorni sulla Terra – una frequenza.
Se si risale alla radice etimologica di “alieno”, potremmo pensare che in fondo stiamo solo assistendo all'evidenza di quell'altro da noi che fa parte di noi, siamo noi (configurando il tutto su un piano psicologico e a cui forse sarebbe più semplice avvicinarsi). Ma ancora una volta si finirebbe per tradire il proposito con cui è nato e si è sviluppato il progetto perché quell'alieno, si sostiene, è un altro essere che abita in noi. Il problema è che nonostante il realistico modo di Venturi di seguire i volti dei personaggi, in particolare nel corpo a corpo tra l'abdotto e il suo alieno o tra l'abdotto e il dottore che vuole liberarlo, al di là dell'impegno degli attori (in particolare Poggio e la Galvan) di rendere credibili i loro personaggi, la sceneggiatura non riesce a sostenere solidamente quella che loro vorrebbero assumessimo come verità, sia pur calibrata con gli elementi di finzione. Accettando anche che le voci durante le scene di ipnosi siano state registrate nel corso di reali sedute ipnotiche su persone abdotte, 6 giorni sulla Terra vola col trascorrere dei minuti più verso il fantasy che verso il real (un plauso è d'obbligo per gli effetti 3D di Mauro Baldissera, già curatore della tecnica in Avatar).
Non ci avrà convinto che quella sia la verità sulla nostra esistenza, però un obiettivo l'ha raggiunto: stimolare a documentarsi sui filoni della scienza. Se gli alieni esistano e vivano veramente nei nostri cervelli, ad ognuno di noi spetta la propria ardua sentenza...
Maria Lucia Tangorra (17-06-2011)

Dopo mezzanotte - Davide Ferrario (2004)

$
0
0

TITULO ORIGINAL Dopo mezzanotte
AÑO 2004
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACION 88 min.
DIRECCION Davide Ferrario
GUION Davide Ferrario
MUSICA Banda Ionica, Daniele Sepe, Fabio Barovero
FOTOGRAFIA Dante Cecchin
PREMIOS Premios David di Donatello: Mejores efectos visuales. 9 nominaciones
REPARTO Giorgio Pasotti, Francesca Inaudi, Fabio Troiano, Francesca Picozza, Pietro Eandi, Andrea Romero, Gianpiero Perone, Francesco D'Alessio, Gianni Talia, Andrea Moretti, Silvio Orlando
PRODUCTORA Rossofuoco
GENERO Drama

SINOPSIS Martino es un joven callado y solitario. Trabaja como vigilante nocturno en el Museo del Cine de Turín, donde puede dar rienda suelta a su gran pasión por el cine. Amanda trabaja en un local de comida rápida. Vive en La Falchera, a las afueras de la ciudad, y sueña con una vida mejor. Angelo, su novio, roba coches. Una noche, huyendo de la policía, Amanda entra en el mundo de Martino, en el museo, situado en la espectacular Mole Antonelliana. Allí, la magia de las imágenes y los números se entremezclan para tejer una singular historia de amor a tres bandas. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

Subtitulos (Español)


"Guardami mi costa quattro anni di emarginazione. Alla fine, insieme allegro e disperato, decido di fare tutto da solo. Più che raccontare una storia, ho un bisogno quasi fisico di fare un film. Mi guardo intorno e i miei occhi incrociano la Mole e il Museo del cinema. Comincio a immaginarmi chi potrebbe vivere lì: un custode notturno... Così nasce Dopo mezzanotte, un pezzo dopo l’altro, senza sceneggiatura, con pochissimi soldi e con l’esperimento estetico-tecnologico del digitale in alta definizione. Autoprodotto tutto da me, all’inizio viene rifiutato da tutti i distributori; poi, dopo la presentazione a Berlino, diventa un successo internazionale... E’ stato come ricominciare da capo, una specie di seconda “opera prima”. Credo che Dopo mezzanotte sia un piccolo film pieno di grazia."
(Davide Ferrario)


Tre personaggi: il solitario Martino che fa il custode nel museo del cinema di Torino presso la Mole Antonelliana e rivede di notte vecchi film; l'Angelo, ladro d'auto e tombeur de femmes di periferia; Amanda, donna ufficiale dell'Angelo che lavora in un fast food ma, dopo essersi ribellata al capo, per sfuggire alla polizia si rifugia nella Mole. 
I due personaggi maschili cercano di condividere la donna che non sa decidersi per l'uno o per l'altro. Sarà la morte dell'Angelo, causata da un fortuito colpo di pistola di un improbabile metronotte a decidere le sorti del trio.
Il nuovo film di Ferrario parte da questi tre personaggi e vuole essere un omaggio al cinema: in primis il cinema muto di Buster Keaton, di cui è debitrice la figura del maldestro Martino e la sua storia d'amore con Amanda. Il secondo grande debito è con François Truffaut, soprattutto col film "Jules et Jim", citato nella pellicola di Ferrario e esplicitato nel ménage à trois della trama.
Il lavoro di Ferrario ha fatto incetta di premi all'estero ed ora è uscito in Italia. E' un film a basso costo, di quelli che gli americani chiamano low budget, in cui il regista si impegna anche nel ruolo di produttore e sceneggiatore. Le intenzioni dell'autore sono di fare un film sull'amore per il cinema, per quel cinema che oggi non esiste più, come le vecchie pellicole hollywoodiane.
La pellicola parte da una contrapposizione di due luoghi estremi: il quartiere periferico della Falchera e il centro della città costituito dalla Mole Antonelliana e dal museo del cinema in essa contenuto.
Una contrapposizione intrinseca ai personaggi: l'Angelo è il re della Falchera, fa il ladro d'auto e è a capo di una simpatica banda di delinquenti che vive appunto nel malfamato quartiere periferico.
L'attività criminosa della banda viene presentata positivamente, spingendo l'acceleratore sul grottesco. I "banditi" della Falchera sono personaggi divertenti, molto vicini ai ladri d'auto di "Totò contro i quattro" di Steno. L'altro attore di questa commedia è Martino, un Buster Keaton al gusto di "bagna cauda", malato di cinema, che passa le sue giornate a riprendere, con una vecchia telecamera, il film della sua vita. Per lui non esiste una realtà se non mediata dal mezzo cinematografico.
Egli vive nella Mole Antonelliana, nel museo del cinema, luogo virtuale tout court, ha i tempi comici di Buster Keaton, ne riproduce involontariamente le gag e vive una vita completamente estrapolata da ciò che lo circonda. L'unico legame reale di Martino è rappresentato dal personaggio di Amanda.
Il rapporto con Amanda viene mediato dal cinema. Solo quando la ragazza si rifugerà presso di lui potrà entrare nel suo mondo e solo quando le mostrerà il film che ha realizzato potrà dichiararle il suo amore.
Martino si inserisce nel rapporto tra Amanda e l'Angelo ma lo fa alla sua maniera, surreale e comica. Lo stesso Angelo si dimostra una figura positiva anche nel porsi quasi paternalisticamente nei confronti del rivale in amore, che in fondo gli è simpatico nella sua lucida follia.
Assieme ai tre personaggi principali si muovono una serie di macchiette, tra cui l'amica di Amanda, la sgangherata banda di ladri, il metronotte, involontario responsabile della comica morte dell'Angelo.
Il film è ben costruito, inizia e si conclude sulle ceneri dell'Angelo sparse sul pavimento del Museo (le ceneri del cinema?) accompagnato dalla voce narrante di Silvio Orlando che fa da sfondo alle vicende dei tre protagonisti. La chiusura è strutturata come una comica di Buster Keaton: Martino può girare le spalle alla macchina da presa tenendo per mano la sua amata, dirigendosi verso un futuro ignoto.
Molte e dichiarate le citazioni cinematografiche: innanzitutto la scelta del museo del cinema di Torino come location principale; poi Buster Keaton, François Truffaut, il cameo di Alberto Barbera (che tra l'altro è uno studioso di Truffaut), spezzoni di film di Keaton e de "Il fuoco" di Giovanni Pastrone, con il quale è nato il kolossal all'italiana, guarda caso proprio a Torino.
Altri elementi non accessori sono la logica sequenziale della serie dei numeri di Fibonacci, installazione di Mario Merz sulla Mole che serve a Martino per un improbabile calcolo sui sentimenti; la frase di Antoine Lumière (padre dei famosi fratelli) secondo il quale il cinema sarebbe stata un'invenzione senza futuro.
La pellicola è giocata su un timbro grottesco, girata in maniera molto moderna, come accade pressochè in tutto il cinema di Ferrario. L'uso dell'aggettivo moderno in questo caso sottolinea una valenza positiva.
"Dopo mezzanotte"è un film leggero, che vorrebbe far divertire in modo intelligente, secondo le dichiarazioni del regista. In parte coglie nel segno, perché il divertimento è spesso riconducibile all'intelligenza dell'operazione.
Tuttavia alcuni difetti sono evidenti. Innanzitutto la strizzata d'occhio al trash televisivo di estrema attualità (cfr. la canzone "Ricominciamo" di Adriano Pappalardo usata come una sorta inno dalla banda di ladri) non può non far pensare a una certa furberia in fase di sceneggiatura.
Un altro difetto è costituito da una palpabile immaturità di fondo da parte dell'autore. Il film "Tutti giù per terra", ad esempio, era un'operina adolescenziale carina, divertente, moderna, ma che denunciava già un modo di rappresentare la realtà da quindicenne brufoloso.
Lo stesso dicasi per questo "Dopo mezzanotte". Certo operina carina, divertente, ma sempre con un gusto da caporedattore del giornalino del liceo. A questo proposito va citato il passaggio del manifesto con la propaganda gigantografica del premier Silvio Berlusconi con una tirata satirica dell'Angelo morente.
E' giusta la satira politica, condivisibile l'ironia che sprigiona la battuta, tuttavia sarebbe forse giunto il momento di affrontare il discorso in maniera più completa. Va tuttavia riconosciuto il merito a Ferrario di essere un regista coraggioso, se non altro per i temi disparati trattati dalla sua filmografia (cfr. "Guardami" era un film esemplare a questo proposito, intelligentemente spregiudicato).
Un ultimo appunto sulla tecnica utilizzata dal regista. Il film è stato girato in alta definizione, in digitale, un mezzo che senza dubbio mostra ancora notevoli limiti nei confronti della pellicola tradizionale, soprattutto in fase di fotografia.
Anche in questo caso il regista prova a spiazzare lo spettatore con una provocazione; una dichiarazione d'amore al cinema fatta con la tecnica digitale: Antoine Lumière aveva infine ragione?
Livio Marciano
---
Martino y Amanda
Éste es el sexto largometraje escrito y dirigido por Davide Ferrario, que a la vez es crítico de cine, ensayista y novelista. 
La película narra la historia de Martino, un joven callado, tímido y solitario, que trabaja en el Museo del Cine, de Milán, como vigilante nocturno y que vive en una dependencia abandonada del mismo edificio, la Mole Antonelliana. Después de medianoche, proyecta películas del archivo del museo para su propio deleite. Sus preferencias se decantan por documentales de época, por "La llegada del tren" de Lumière y por interpretaciones de Buster Keaton. Entre sus objetos destaca una pareja de fotografías de Marilyn, una imagen enorme de Anita Ekberg y muebles de antiguas películas que ha retirado del almacén del museo. Profesa una admiración secreta y oculta por Amanda, la camarera de un establecimeinto de comidas rápidas, que es novia de Angelo, jefe de una pequeña banda juvenil dedicada al robo de coches y otras fechorías. Un incidente con el dueño del estrablecimiento donde trabaja, hace que Amanda huya y pida refugio a Martino, que la acoge en su morada. Cada día, después de medianoche, la hace partícipe de la magia del cine de archivo y de las filmaciones que él mismo ha realizado. Entre ambos se establece una relación amorosa intensa, mientras Angelo por teléfono le comunica que el denunciante ha retirado la demanda. A partir de aquí, la historia deriva en un amor a tres bandas (Martino, Amanda y Angelo), complementado con un amor nuevo entre Angelo y Bárbara, la compañera de piso de Amanda. El relato recuerda intencionadamente la trama de "Jules y Jim", de Truffaut, con algún aditamento de cine negro.
El director vuelca en la película su pasión por el cine, por la magia de las obras primitivas, por Fellini, Rohmer, Vim Wenders, etc. Martino es una imitación esbozada de Keaton y, a la vez, el "alter ego" de Ferrario.
La fotografía es admirable y de una calidad elevada, lo que permite dar gran profundidad a las imágenes nocturnas y de escasa luz. La música, interpretada por la orquesta Ionica, ofrece composiciones con abundante uso de piano solo, metal y percusión, que crean un clima de agradable frescura y alegría juvenil. Destaca una iluminación muy correcta, que contribuye a la belleza visual de las imágenes. La cámara trabaja con frecuencia al hombro del comeraman al servicio de una lección contagiosa de afición al cine.
Miquel 


"Il cinema è un'invenzione senza futuro" [cit.]
Mi reco al cinema in compagnia di “Jeff” Carlo in una calda serata già estiva. Si parcheggia proprio sotto la Mole 

Antonelliana, ancora ignari della sua importanza nel film. All’entrata del Cinema Massimo ci aspettano, con un pizzico d’impazienza, Chinasky e Zenone: fidi compagni di visione dell’ultima opera di Davide Ferrario “Dopo mezzanotte”. Il film inizia con la voce fuori campo di Silvio Orlando: bella metafora delle vite delle persone che s’intrecciano e si dividono come polvere nel vento. Ed un’osservazione: “Forse sono i luoghi che raccontano le storie meglio dei personaggi”. Una frase importante per una lettura dell’intero film. Mi preme difatti sottolineare il contorno in cui si muovono i protagonisti, più che le vicende dei tre personaggi principali, Martino, Amanda e l’Angelo (così detto). “Dopo mezzanotte” si inserisce nell’iniziativa della “Film Commission Piemonte” (www.filmcommtorinopiemonte.it) di valorizzare Torino e la Regione Piemonte attraverso riprese cinematografiche e televisive. Mettendo a disposizione della produzione cinematografica italiana “Torino insieme a tutti gli altri Comuni del Piemonte, architetture cariche di storia, spazi urbani, parchi, paesaggi che si aprono su pianure solcate da fiumi, su colline e laghi, fino all'arco alpino”.
Nella pellicola di Ferrario Torino è sempre presente come personaggio aggiunto, scandisce i tempi e i motivi, le emozioni e i cambiamenti: dai dialoghi silenziosi di Martino e di suo nonno, sul lungo Po freddo e bianco di foschia, al mondo fantastico in cui Martino vive come custode notturno (dopo mezzanotte) del Museo del Cinema. Come in un basso rilievo dove lo sfondo, invece che stiacciato, circonda e contorna i soggetti, Torino prende vita ed anima, coinvolge e intreccia le vicissitudini degli interpreti. A volte il rimando a Torino è così esplicito e insistente da risultare ridondante e fastidioso, la cornice diviene così tanto protagonista da oscurare la trama. Queste sono forse sensazioni personali dettate dalla condizione di vivere a Torino, resta però da considerare che la città è descritta in modo tale da renderle giustizia. Da menzionare sono i vecchi filmati di “Torino ai primi del ‘900” che Martino rielabora in chiave contemporanea riprendendo ciò che vede con la sua cinepresa a manovella da collezione: le “reginette di Porta Palazzo” di gusto liberty divengono volti e sorrisi delle odierne reginette africane.
Amanda (Francesca Inaudi) lavora in un fast food dove ogni sera si reca Martino (Giorgio Pasotti, figura maldestra che cita le movenze di Buster Keaton e di Chaplin) per il solito panino dal nome inglese. Amanda è la ragazza “ufficiale” (“quindi non necessariamente l’unica”, specifica Silvio Orlando) dell’Angelo (Fabio Troiano), piccolo capo di un gruppetto malavitoso ma simpatico del quartiere “Falchera”. L’atmosfera che si respira è quella di Torino a dicembre, con le luci d’artista presenti in molte scene (illuminazioni ed installazioni di creazione artistica del periodo invernale). I numeri sequenziali di Fibonacci, installazione artistica di Mario Merz sulla Mole Antonelliana, consentono a Martino di pensare che la vita, in fondo, abbia qualche senso logico. La Mole Antonelliana con la magia del Museo del Cinema al suo interno è la casa e il lavoro di Martino. Un’isola di incantesimo fatta di sogni e irrealtà incastonata nel cuore di una Torino reale e riflessiva, 
ma quanto mai diversa dalla visione industriale di città arida di sentimenti. Amanda, dopo la lite all’olio bollente col principale del fast food, fugge dalla polizia e si rifugia nella Mole imbattendosi nel mondo più privato e intimo di Martino: diviene l’unica persona reale ad entrare in contatto coi suoi sentimenti più profondi. La danza delle influenze e della scoperta reciproca ha inizio. D’ora in poi Amanda è divisa fra Martino e il suo mondo fantastico e l’Angelo, il ladro di macchine. Un’incertezza d’amore che è anche insicurezza di vita, altra tematica cara al cinema di un tempo, come il citato “Jules et Jim” di Truffaut sull’inconsistenza della coppia. Sarà solamente il destino a scegliere o a porre la scelta definitiva per Amanda.
La conclusione del film si riallaccia all’inizio, così da dare il senso compiuto di una storia, di un’emozione, di uno scorcio di vita sognata e reale. Mentre Martino abbandona la Mole per una scelta, portandosi dietro con sé lo scrigno cinematografico dove realtà e finzione perdono le sembianze e si confondono creando magia.
cla

La grande bellezza - Paolo Sorrentino (2013)

$
0
0

TITULO ORIGINAL La grande bellezza
AÑO 2013
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español e inglés (Separados)
DURACION 142 min.
DIRECCION Paolo Sorrentino
GUION Paolo Sorrentino, Umberto Contarello
MUSICA Lele Marchitelli
FOTOGRAFIA Luca Bigazzi
REPARTO Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Serena Grandi, Isabella Ferrari, Giulia Di Quilio, Luca Marinelli, Giorgio Pasotti, Massimo Popolizio
PREMIOS 
2013: Festival de Cannes: Sección oficial largometrajes a concurso
2013: Festival de Sevilla: Mejor actor (Servillo)
2013: 4 Premios del Cine Europeo: incluyendo Mejor película y director
2013: Independent Spirit Awards: Nominada a Mejor película extranjera
2013: Satellite Awards: Nominada a Mejor película extranjera
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Indigo Film
GENERO Drama. Comedia | Comedia dramática

SINOPSIS En Roma, durante el verano, nobles decadentes, arribistas, políticos, criminales de altos vuelos, periodistas, actores, prelados, artistas e intelectuales tejen una trama de relaciones inconsistentes que se desarrollan en fastuosos palacios y villas. Gep Gambardella, viejo escritor y periodista dominado por la indolencia y la decepción, asiste a este desfile de personajes poderosos, pero decadentes, huecos y deprimentes. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

Subtítulos (Español)

Subtítulos (Inglés)


Roma, belleza y muerte
La grande bellezza', de Paolo Sorrentino, no es tanto una película como la descripción pautada de todo lo que queda cuando no queda nada; de esa sensación efímera, por pausada y diáfana, que precede a la aceptación tranquila de lo absurdo de todo. De todo esto. No es tanto melancolía como lucidez; no es dolor, es belleza. Sin duda, una obra maestra. Y bella. Profundamente bella. Hasta el ridículo.
Los franceses, con su aquilatada buena mano para según que cosas, llaman al orgasmo 'pequeña muerte'. El sexo, de hecho, está indisolublemente unido a la ceremonia de lo breve, de lo que desaparece. Y así es en todos los órdenes de la vida, incluido en el más rudimentario, en eso tan molesto y lleno de criaturas que pican que es la naturaleza. 'Amorphophallus titanum', por ejemplo, es el nombre como se conoce una de las más curiosas y magnéticas aberraciones del reino vegetal. El 'latinajo' esconde el nombre científico de la flor cadáver, la más grande de todas. La más hermosa y también la más repugnante. La belleza, en definitiva, huele a muerte. Lo dicen los botánicos, los botánicos franceses para ser precisos.
Paolo Sorrentino, lo sabe. Conoce perfectamente el extraño ritual de la decadencia. Y lo sabe por italiano, por romano y por 'felliniano'.
La prueba es su película, la segunda obra mayor que se presenta en Cannes después de la cinta de los Coen. Toda ella transcurre en una Roma mortecina e inútil; excesiva y decadente; exuberante y ridícula; santa y puta. Un escritor que dejó de escribir después de su primer libro cumple 65 años. En todo ese tiempo, desde la primera juventud herida al inicio de la vejez, puede presumir de no haber hecho nada.
Nada más que ver consumir el tiempo ante la evidencia de que nada tiene sentido. Y en ese proceso de vaciamiento, de disoluto vagar por cuerpos extrañas, camas ajenas, fiestas ruidosas y tetas desproporcionadas, el hombre interpretado por un, de nuevo, inmenso Toni Servillo, se confunde con la ciudad que cobija su silencio, su estupidez y su abismo. De hecho, como dejó demostrado Fellini, Roma no es tanto una ciudad como un estado del alma, una inquietud que se alimenta de la carne hasta el desfallecimiento. La urbe más espiritual del planeta (del occidental) no es más que una trampantojo para turistas, paparazzi y desorientados. "Los verdaderos habitantes de Roma son sus turistas", se escucha en la película. Roma como la vida misma.
Sorrentino consigue así crear un mundo propio e infectado cuyas venas se ofrecen de par en par a la sangre de gente como Fellini, De Sica o Risi; un universo operístico que se abre a los sentidos como la flor más gigante, magnética y repugnante. 
Por su cine discurre (un cine que empieza en 'Il divo' y continúa aquí) una Italia herida, televisiva, 'berlusconiana', 'andreotiana', 'tangentiniana', antigua, apolillada y furiosamente reprimida. Pero eso no es más que el paisaje. Lo que importa es otra cosa; importa la certeza de la incerteza. Sólo la nada.
La inmovilidad del protagonista, su incapacidad para dar un paso, no es más que el lejano eco de una derrota, de lo que pudo ser. Como al príncipe Don Fabrizio Salina en 'El gatopardo' o a Alberto de 'Los inútiles' o a Marcello Rubini en 'La dolce vita', a Jep Gambardella (Servillo) todo en este mundo le es ajeno. Sólo el instante de placer vivido y perdido en un sólo segundo de la juventud valió la pena. Y su recuerdo mantiene el inconfundible aroma de la muerte. Tan profundamente ridículo.
Luis Martínez
---
Extraña, también hermosa
(Lo que en una primera visión me amodorraba o me irritaba ahora me resulta magnético)

Me sucede a veces que las condiciones en las que veo una película me provocan miopía ante sus transparentes valores. O al revés. Que crees ver poesía donde solo hay pretensiones y trampas, que después de haber sufrido cuantioso tedio confundes algo atractivo a secas con una obra de arte. Los festivales de cine se prestan a ello. Puede ocurrir que hayas dormido poco y mal, que tu fatiga o tu estado de ánimo nublen la evidencia, que debido a la acumulación de películas te hagas un lío mental cuando llevas seis o siete horas diarias mirando una pantalla. Tus gustos y tus juicios pueden modificarse para bien o para mal cuando ves esa película un tiempo después en tu ciudad, en una sala repleta o en soledad, en el horario que tú has elegido, por placer y no por trabajo.
Vi en el último festival de Cannes La gran belleza. Las referencias aseguraban con embeleso que era La dolce vita de Paolo Sorrentino. No sintiendo ninguna fascinación especial hacia la celebérrima película de Fellini y habiéndome aburrido enormemente con la última entrega de Sorrentino, esa infame Un lugar donde quedarse, imagino que me sentía a la defensiva. Y me pareció sobrecargada, habitada por una fauna de personajes esperpénticos cuya lúdica existencia me daba igual y situaciones agotadoramente caricaturescas, con una intensidad molesta. Y supuso una decepción particularmente lamentable para mí, ya que me habían gustado mucho Las consecuencias del amor e Il divo, dos muestras de una forma de contar historias tan insólita como poderosa.
Pero retorno a ella en Madrid, a las 10 de la mañana, con la sala para mí solo. Por si acaso, porque me quedó la sensación de que la había visto un poco abotargado. Y noto desde el principio el enganche que me provoca el fastuoso lenguaje visual de la cámara de Sorrentino retratando con originalidad lugares y personajes de la Roma matinal. El resto está dedicado a la noche y al amanecer. El protagonista, un profesional del cinismo y del hastío lujoso, vive su frívola existencia cuando llega la oscuridad y duerme de día. Cuando era joven escribió una novela que ha perdurado, pero que aparentemente también le dejó seco. Desde entonces, este dandy que no exterioriza emociones, o cree que estas ya solo forman parte de su juventud, ejerce de cronista mundano, rodeado de friquis millonarios, observando el mundo con gesto elegante desde una terraza enfrente de un Coliseo fantasmal, visitando acompañado de velas los palacios más antiguos y hermosos de Roma, de fiesta en fiesta, soltando vitriolo o irónica comprensión por esa boca a la que siempre acompaña una copa y un cigarro, descubriendo en paseos solitarios al filo del amanecer rincones y momentos dotados de una extraña belleza y de un lirismo transmisible.
Lo que en una primera visión me amodorraba o me irritaba ahora me resulta magnético. Las imágenes están reñidas con lo convencional, el tono esperpéntico adquiere sentido, la música está admirablemente utilizada, el permanente juego de máscaras no es gratuito, esa catarata de imágenes hipnóticas pueden fascinar a la retina. Sorrentino también dispone, como es habitual en casi todo su cine, de un actor admirable llamado Toni Servillo, un tipo que se mueve con idéntica veracidad y fuerza en la sátira y en el intimismo. No me voy a arriesgar revisando más veces La gran belleza. Por si acaso. Para proteger mi último recuerdo de ella.
Carlos Boyero 
---
¿Qué perdemos al escoger un camino u otro en la vida? ¿qué se siente cuando uno ha comprendido hace mucho que escogió una opción equivocada? ¿qué nos queda cuando se esperaba alcanzar la gran belleza y dejamos perder la que ya habíamos conseguido? 
Nostalgia, melancolía, sufrimiento, hedonismo, ausencia, vacío, ironía, soledad… tantas cosas y muchas más, todas ellas en el rostro de Jep Gambardella, el personaje magistralmente pensado por Paolo Sorrentino y admirablemente interpretado por Toni Servillo.
El tandem Sorrentino-Servillo ya nos ha ofrecido creaciones admirables como la del contable de la mafia en “Las consecuencias del amor” o el Andreotti de “Il divo”, y esa química se mantiene y se engrandece a fuerza de mantener la fórmula en esta gran belleza. En la búsqueda de esa gran belleza vamos a ver lo mejor y lo peor del ser humano, desde las creaciones artísticas más deslumbrantes de una ciudad como Roma hasta las mujeres y hombres más estéticamente deseables de la noche romana, pero también lo falso de la belleza y el castigo de intentar permanecer siempre bello, aun a costa de cirugías y dinero.
Jep Gambardella es el Marcello de “La dolce vita” después de 40 años de vida regalada, fiesta permanente, alcoholismo controlado y lujuria al peso. Sólo los 15 minutos iniciales demuestran y ofrecen todo un catálogo de belleza y fauna humana. 
Abriendo con un plano en el que la cámara sobrevuela uno de los espacios monumentales de la ciudad, recreándose en el monumento, sus arcos, sus estatuas, uniendo a la belleza arquitectónica la belleza musical de un grupo de mujeres cantantes, hieráticas y al tiempo poseídas por el magnetismo de lo que están cantando (My heart’s in the Highlands), el sobrevuelo continua hasta la invasión, la ruptura de esa belleza permanente por la llegada del grupo de turistas, en este caso japoneses, y remarcado por una muerte, una persona muere pero eso no afecta a la belleza monumental. La siguiente escena, en ruptura abrupta con lo anterior, como muchas  otras de la película, comienza con una fiesta grandilocuente y hortera en una terraza de un edificio ocupada por gente guapa y vejestorios llenos de dinero, unos están por su atractivo sexual, otros por su atractivo económico. No estamos ante la belleza cierta, sino ante el catálogo de un jardín de las delicias, sexo en estado puro, drogas y alcohol, música monocorde e inarmónica retumbando y provocando el desenfreno, y en medio de todo ello, el 65 cumpleaños de Jep Gambardella, perdido y miserablemente melancólico en medio del baile multitudinario en su honor.
Gambardella es un señor de la noche, pero en su memoria guarda el recuerdo imborrable de una noche de verano, de un faro, una chica y un amor, ése fue el gran error del personaje, desaprovechar esa gran belleza, permitir que Silvia le dejara y dedicarse a un aparente mundo de lujo, con muchas puertas abiertas y muy pocas satisfacciones, en donde todo el mundo mantiene una careta puesta y tiene muy poco que ofrecer. Por eso las caminatas de Jep por Roma son rondas nocturnas o diurnas en permanente búsqueda, o en permanente reconocimiento de fracaso. Cruzarse con Fanny Ardant y reconocer otra belleza, adentrarse en las termas para sentir la inmensa soledad de su vida, recorrer las márgenes del río Tíber hasta acercarse al Castello Sant Angello, tan real todo como fantasmagórico, suspendido en un deseo de realidad idealizado que, choca frontalmente con el ocaso anunciado de una vida vacía, y provoca, tanto la visión de la película con una mueca de sonrisa cuasipermanente como la aparición del dolor emocional en cuanto la verdadera realidad te coloca en el punto de partida con todas las cartas jugadas.
En lo material, Jep ha conseguido la belleza, vive en un gran apartamento clásico con terraza enfrente del Coliseo, ahí organiza sus pequeñas reuniones decadentes donde no duda en contar las verdades de todos los presentes entre los que se incluye, en una gran escena de humillación, ajena, y propia, porque el mismo se identifica con lo dicho. Intenta agarrarse a la última oportunidad de vivir un amor de verdad, pero la muerte está presente a lo largo de la película como el epílogo definitivo a la belleza fugaz de la vida frente a la más permanente de la naturaleza y las artes. Su búsqueda está dirigida a la derrota, pero con una posibilidad de escape, llegada su edad puede decidir no hacer lo que no quiere, y eso es tanto como no querer ver las fotos desnuda de su última amante como recordar su infancia cuando alguien le llama Peppino.
Si las fiestas de La dolce vita o las reuniones de 8 1/2 , dentro de su decadencia y ruina moral, mantienen un cierto estilo, las de “La gran bellezza” terminan arrasadas por la estética berlusconiana y telecinquera de mujeres exuberantes, hombres con la líbido en la boca, colágenos y siliconas, bunga-bunga, diletantismo de opereta y mucho snob dispuesto a dejarse embobar porque en una performance una mujer se lanza de cabeza desnuda contra un pilar del acueducto y no mira, tan siquiera el acueducto romano. Por eso, si las comparaciones con Fellini pueden establecerse, y además no se ocultan, Jep escribió un libro en su vida y después se dedicó al periodismo de farándula, aparecen escenarios de las películas romanas de Fellini, enanos, cardenales mundanos, prostitutas de lujo y de las otras, chulos y puteros….. Sorrentino incorpora el daño añadido del mundo liberal que asola la vieja Europa, la belleza del viejo estilo, igual de decadente, enfrentada a la vulgaridad obscena de una belleza oficial inexistente dirigida por el dinero.
La ironía de la película alcanza a todos los estratos, a los corruptos con la detención de un vecino del inmueble de Jep que grita ser uno de los motores de la economía italiana y se encuentra entre los diez criminales más buscados, a la Iglesia permanentemente retratada o como un circo, o como un negocio, que no duda en aparecer como jerarquía en locales de moda o someterse a tratamientos de estética, al periodismo que ha decidido hacer noticia de lo barato a todos los niveles y no de lo importante, del mundo del arte moderno (espléndida la escena de la niña pintora) con el colofón del paseo nocturno por el interior de varios palacios romanos que guardan multitud de tesoros clásicos, la belleza preservada para el disfrute de unos pocos que, ni siquiera, son capaces de deleitarse con ello.
Jep tiene que enfrentarse al inminente ocaso y pérdida de atractivo, en el camino empiezan a morir las personas de su vida, y para ello dará una serie de consejos de comportamiento para emocionar a los asistentes y al mismo tiempo convertirse en el centro del espectáculo, la vida como una representación, lo que no podrá, sin embargo, es evitar terminar llorando de verdad ante las verdaderas pérdidas, pues envuelto en una dosis de inmunidad, ésta se revela falsa, pues las emociones fluyen por dentro, Jep, ¿quién te va a cuidar ahora?
A la historia y a las intrahistorias y metahistorias de esta película polifacética, amplia, enorme en sus caminos abiertos y sin cerrar, no puede dejarse de lado su enorme calidad artística en el tratamiento de las imágenes, los planos suaves y dulces que acompañan los paseos de Jep por Roma, con oscilantes y sugerentes, envolventes movimientos de cámara alrededor del personaje, por encima o a los lados, las ascensiones y descenso de esa cámara tratando a monumentos, música, personajes, situaciones en contraposición, sin previo aviso, con otra estética acelerada, nerviosa, sincopada, eléctrica del mundo moderno, del mundo de la noche y de la fauna de la noche en plena fiesta sin sentido.
Si el arranque es visualmente impactante, el final no lo es menos mientras progresan los títulos de crédito, un paseo en barco, que no vemos, por Roma, atravesando puentes y escenas cotidianas, hasta llegar al refugio vaticano del Castello, todo fluye con armonía y delicadeza, la belleza puede ser algo parecido. Si llega a su poder no duden en ver esta joya de cine europeo, quién sabe si se llegará a estrenar.
Miguel Ángel Martín Maestro


Dunque il cinema italiano è ancora in grado di far parlare di sé. La grande bellezza, l’ultimo film di Paolo Sorrentino, ha fatto discutere molti ma soprattutto ha fatto scorrere grandi quantità di inchiostro (reale e digitale), spesso a sproposito. 
Accompagnato da polemiche, peraltro cavalcate se non prodotte dallo stesso Sorrentino, circa una presunta incomprensione dell’opera in patria contro un innamoramento collettivo internazionale… sarà, ma le parole insultanti e decisamente sopra le righe dei «Cahiers» non segnalavano una simpatia per il regista e il suo film così generalizzata come da autoindulgenza segnalata… il film scritto da Sorrentino e Contarello è uscito da Cannes finendo immediatamente nelle sale italiane. L’eco di giudizi contrastanti giunto dalla Croisette si è amplificato in uno strabordante muro del suono (assai rumoroso) di valutazioni e considerazioni che hanno definitivamente conclamato la ricchezza di giudizi possibili su un film, ambizioso e (volutamente?) irrisolto.
Sulle pagine di «Rapporto Confidenziale», nei giorni passati, abbiamo pubblicato 3 riflessioni attorno al film, appassionate e illuminanti, ma che non potevano che essere in moderato o feroce disaccordo fra loro. Michele Salvezza lo fa "tirando in mezzo" Wittgenstein: «In arte è difficile dire qualcosa che sia altrettanto buono del non dire niente», Gabriele Baldaccini scomodando Fedro: «Nondum matura est, nolo acerbam sumere», Edoardo Deziani dando direttamente la parola al produttore del film: «Massì Paolo, tu sei bravo, ma sei giovane. Cioè, il tuo cinema è pornografia, pornografia delle immagini».
Quella che segue è una ricognizione nel mare della critica, italiana e (un poco) internazionale. Si avvisa il lettore che le frasi riportate sono unicamente degli "estratti" e che per la lettura completa degli articoli basterà seguire il collegamento alla testata a cui si fa riferimento.
Io, da parte mia, mi tengo fuori dalla mischia, osservo tutto divertito, cinico e distaccato, un po’ a la maniera di Jep, il protagonista del film, illudendomi d’essere davvero fuori da questa confusa confusione – che poi è solo un gioco (meritevole dell’intelligenza del divertimento).

• Roberto Silvestri per Il Ciotta Silvestri (21 maggio 2013):
«I cineasti extraromani che penetrano nella esiziale bellezza della città eterna e delle sue ‘gran dame’, rischiano la paralisi operativa creativa. Possono lasciarci le penne. Troppa crudeltà in questi spazi Borgiani e controriformati. Alcuni devono scappare. O trasfigurare, immaginare altro. Per questo ci vogliono subito antidoti, camere di decompressione. Magari pregando Luca Bigazzi di superare Woody Allen nel travestire Roma con un mantello di luce così rossodorata da trasformare in una bomboniera rococò perfino il bar di San Callisto, centro trasteverino odierno della laboriosa comunità cinematografara e degli ultimi frikkettoni. O schiaffandosi nelle orecchie simil-Bruckner o gregoriana a manetta via ipod come se fosse acqua santa.
I migliori abitanti di Roma, dice il luogo comune, sono sempre i turisti, vittime di un caos maligno millenario. Uno, giapponese, all’inizio de “La grande bellezza” (concorso) stramazza al suolo di fronte al panorama del Gianicolo, magari pensando al conto dell’ultimo ristorante. Sorrentino, invece, fa fronte. Un bel coraggio.»

• Roberto Manassero per doppiozero (2 giugno 2013):
«Questa volta Sorrentino ha allestito un mondo di ricchi (e quando nel recente cinema italiano è stato rappresentato in termini così chiari?) orribile e fagocitante, e l’ha trasformato in una trappola estetica che guarda agli anni Duemila come Liberace [si parla di Liberace, il pianista protagonista del film di Steven Soderbergh anch'esso in concorso a Cannes 2013, Behind the Candelabra; NdR.] guardava agli anni ’70: in quella trappola ci ha ingabbiato se stesso, il suo film, la sua visione del mondo e l’idea stessa di una città e della sua gente. Questa volta Sorrentino ha deciso non di rappresentare un mondo con il suo stile, ma di fare del suo stile un mondo decaduto, consapevole di quanto tutto ciò comporti in termini di compromissione e svilimento. Gli si può imputare di tutto, tranne di volersi nascondere.»

• Mariarosa Mancuso per il Foglio (25 maggio 2013):
«Discorsi in S. S come Sorrentino. Ai critici stranieri è piaciuto, siamo i soliti provinciali. Ai critici stranieri è piaciuto, sono i soliti provinciali. E’ un film kirkegaardiano. E’ un film céliniano. E’ un ritratto fedele della città eterna. E’ un ritratto fedele dell’Italia di oggi. E’ una metafora dei tempi decadenti che stiamo attraversando. Federico Fellini in la “Dolce vita” si affacciava alla balaustra per guardare giù. Oggi non c’è neanche più la balaustra, crollata anche lei. E’ un film crepuscolare (poi si capisce il giovane critico intendeva “decadente”). Salotti romani senza un frocio né un politico? La vera cena sull’Appia Antica delle signore arruolate come comparse – poi scomparse dal montaggio definitivo – era più divertente del film. Con mezz’ora di meno era meglio. Era meglio se lasciava i tre quarti d’ora tagliati. Perché inquadra a lungo la ciabatta della Santa e poi taglia Sabrina Ferilli e Carlo Verdone? Servillo è sempre Servillo. Ma se ha una sola faccia in tutto il film?»

• Jay Weissberg per Variety (20 maggio 2013):
«As with “Il Divo” and “This Must Be the Place,” Sorrentino continues to tackle major topics using an extraordinary combination of broad brushstrokes and minute detail. Passion via the intellect has become his trademark, well suited to this dissection of empty diversions, indulged in by latter-day Neros fiddling while Rome burns. The helmer also reveals his immersion in the great Italian cinema of the past, and even when every ingredient can’t be identified, the individual flavors will be familiar to most cineastes. A cameo by Fanny Ardant comes straight from Anna Magnani’s brief moment in “Fellini’s Roma,” informed by the heady perfume of that underrated muse Caterina Boratto. When Jep tells Ramona he’s taking her to a sea monster, images of the final sequence of “La dolce vita” spring to mind, just as a magician recalls the “Asa nisi masa” of “8½.”.
It would be wrong, however, to think of “The Great Beauty” as a work dependent on, rather than indebted to, these predecessors. The pic opens with a quote from Louis-Ferdinand Celine, “Our journey is entirely imaginary. That is its strength.” At the end, Sister Marie speaks of the importance of roots. Both concepts are key to the film; for Sorrentino, as for thousands of travelers and artists, the impossibly rich history of the Eternal City offers equal doses of imagination and solidity, her glories retaining the power to inspire and stupefy.»

• Boris Sollazzo per Blogo (20 maggio 2013):
«La grande bellezza è un’opera così ambiziosa che probabilmente il critico e lo spettatore, per giudicarlo, dovranno avere l’onere e l’onore di più visioni. Ma il sospetto è che quello che poteva essere un capolavoro, diventi solo un insieme di estemporanee intuizioni. Alcune geniali, spiazzanti, anche dolorose: le feste selvagge – prese di peso dall’immaginario Cafonal di Pizzi e D’Agostino – sono un musical assordante che inchioda una città alla sua bruttezza, insopportabile perché va a sporcare quei monumenti, quei panorami, quei percorsi segreti che Sorrentino si e ci concede per non schiacciarci sotto la grande bruttezza di (quasi) tutti i suoi personaggi. Il problema, però, è il coté umano e intimo, quello occupato dalla spogliarellista Sabrina Ferilli, Alice nel paese delle meraviglie che, pur volenterosa, soffre di un ruolo incompiuto, appena accennato e trascinato via, soprattutto nella sua fine.»

• Giona A. Nazzaro per MicroMega (30 maggio 2013):
«Regista d’attori e di movimenti di macchina, in Sorrentino vivono e resistono alcune delle migliori caratteristiche del cinema italiano di una volta e al tempo stesso, inevitabilmente, alcune delle contraddizioni odierne mai risolte. La grande bellezza, al di là, delle partigianerie che impediscono sempre di ragionare sullo specifico filmico, recupera da un lato la sensualità delle opere migliori di Sorrentino e dall’altro tenta di ricontestualizzare il suo respiro potentemente formalista che sovente entra in conflitto con la sua voglia di “dire”. Resta il fatto che La grande bellezza è uno dei pochi film italiani a grande budget che ha tentato di porsi il problema dell’oggi sia come discorso sulla forma (qualsiasi cosa se ne pensi) che come discorso vero e proprio (contenuto). Ovvio che ci siano delle frizioni; ovvio che non tutto torni; ovvio che il risultato inevitabilmente è imperfetto. Segno questo, a nostro sentire, che c’è vita.»

• Manuel Billi per gli Spietati (27 maggio 2013):
«La Grande Bellezza è la sintomatica conferma, e cristallizzazione, di una “tendenza” incapace oramai di occultare un’assenza di sguardo, di prospettive, non solo di risposte ma di domande. Potremmo chiamare questa tendenza “barocchesco”: un profluvio di movimenti di macchina e di effetti senza affetti, un bozzettismo avvilente, un grottesco che ottunde le asperità invece di potenziarle. Il grottesco pare oramai essere diventato il rifugio dei non umili peccatori della nostra cinematografia nazionale, il vuoto finto-pieno nel quale giace da qualche anno anche il cinema di Paolo Sorrentino.»

• Deborah Young per The Hollywood Reporter (21 maggio 2013):
«Given the undiminished stature of Federico Fellini, whose startling foresight is increasingly quoted in contemporary movies (Viva la liberta! is a recent example), it was inevitable that someone would think of remaking his masterpieces. Fortunately, director Paolo Sorrentino knows better than to imitate a giant, and The Great Beauty is more a reverent bow, picking up where La Dolce Vita left off 53 years ago. Perhaps not surprisingly, the eternal city hasn’t changed that much. Though Sorrentino’s vision of moral chaos and disorder, spiritual and emotional emptiness at this moment in time is even darker than Fellini’s (though Ettore Scola’s The Terrace certainly comes in somewhere), he describes it all in a pleasingly creative way that pulls 
audiences in through humor and excess. An overly indulgent running time undercuts some of the fun as the film wears on, but it should still score high with international audiences.»

• Rossella Catanese per alfabeta2 (7 giugno 2013):
«E il passato vivificante, che esorcizza il malessere esistenziale, è un altro motivo rubato a Fellini, come il «non ho niente da dire ma voglio dirlo lo stesso» di Guido Anselmi, protagonista di 8 e 1/2, che pervade tutto il film di Sorrentino senza però avere la stessa forza senza tempo. Se 8 e 1/2 è «un misto tra sgangherata seduta psicanalitica e un disordinato esame di coscienza in un’atmosfera da limbo» (F. Fellini), «una tappa avanzata nella storia della forma romanzesca» (A. Arbasino), «una costruzione in abisso a tre stadi» (C. Metz), qui c’è solo l’ombra di un autoritratto in forma fantastica. E non bastano un vestito bianco e il Panama del protagonista, né giraffe fenicotteri sul Colosseo, a creare il medesimo terremoto esistenziale.
E il film non solo resta lontano dalla forza espressiva di quella Babilonia postmoderna che è La dolce vita, ma diventa un irritante esercizio di esibizionismo compiaciuto. Ne La grande bellezza vengono a mancare proprio la radicalità del punto di vista, e quella ricerca stilistica personale che ha fatto la fortuna del cinema di Sorrentino.»

• Guido Reverdito per CineCriticaWeb (22 maggio 2013):
«La sua afasia letteraria – controbilanciata dall’incessante logorrea che caratterizza ogni personaggio attento a nascondere il proprio fallimento esistenziale dietro cortine di vacui monologhi travestiti da scambi di battute – è forse la chiave di lettura più autentica dell’intera operazione tentata da Sorrentino: ovvero quella dimostrare come l’Italia e gli italiani di quarant’anni fa fossero materia degna per un romanzo di analisi sociale, mentre la cafonaggine becera dei giorni nostri può essere all’altezza soltanto delle cronache del gossip, vera pietra tombale di ogni ambizione letteraria. Quando, alla fine, Gambardella incontra una santona centenaria la quale gli rivela che il segreto della vita è quello di non allontanarsi mai dalle proprie radici, soltanto allora sente rinascere dentro di sé l’ansia creativa. E non a caso sale su un traghetto e torna nel suo Sud alla ricerca in salsa vagamente proustiana di un passato incontaminato che possa sopravvivere se recuperato sulla carta e faccia da antidoto alle piaghe irriferibili del presente.»

• Florence Andoka per Independencia (4 giugno 2013):
«Courage, le meilleur est passé. Comment en sommes nous arrivés là ? La prophétie pasolinienne qui annonçait déjà les ravages de la société de consommation inscrivant la laideur dans les corps s’est réalisée. C’est même la société pharmaco-pornographique décrite par la philosophe Beatriz Preciado qui s’illustre ici. Chacun apparaissant transformé par la chirurgie esthétique, assujetti à une image idéale, devenue monstrueuse dans son incarnation. Toute activité artistique est tournée en dérision au même titre que les événements de la vie religieuse. Une enfant peintre prodigue, une sainte revenue d’Afrique et les mondains se pressent, ricanent. Le spectacle est partout, rien ne lui a résisté, mais chacun, Sorrentino en tête, y prend part sans entrain, conservant en lui la douce nostalgie d’une autre vie jamais vécue, d’un autre film jamais tourné.»

• Raffaele Meale per CineClandestino (21 maggio 2013):
«Diretto con mano ferma e facendo ricorso a un divertito abuso del grottesco, La grande bellezza è un inno disperato a Roma, alle sue miserie quotidiane, e allo stesso tempo un’ode al volto, alla ricchezza espressiva e alla straordinaria capacità attoriale di Toni Servillo, mattatore assoluto all’interno di un cast che comunque riserva sorprese a non finire. Verrà probabilmente messo alla berlina da buona parte della stampa, e c’è il rischio che anche chi lo apprezzi finisca per disconoscerne i reali meriti, ma La grande bellezza segna il ritorno di Paolo Sorrentino nell’empireo dei registi italiani contemporanei.»

• Serena Nannelli per il Giornale (25 maggio 2013):
«Più che una narrazione per eventi, il film è un affresco per immagini, molto realistico nella sua deformità. Ogni qual volta appare surreale o grottesco, si sappia che è invece quasi documentaristico. La durata eccessiva e priva di una trama vera e propria è funzionale a calare appieno lo spettatore in certe vite ostaggio della noia o di divertimenti forzati e senza scopo che molti si ostinano a invidiare. E’ un film a suo modo necessario perché indica nella grande bellezza del titolo l’unico vero rifugio a tanto infelice e sguaiato naufragio, indicando in attimi di purezza e magia, seppur inafferrabili e in perenne dissolvenza, l’antidoto alla fatica di vivere. Sono momenti che non si possono possedere se non rivivendoli poi nella mente col ricordo e che sono alla portata di chiunque riesca a fermarsi a respirare un po’ di autocoscienza.»

• Camillo De Marco per Cineuropa (21 maggio 2013):
«Questo vuoto che rappresenta ormai da tempo il crollo al rallenti del mondo occidentale, viene filmato da Sorrentino con lo stile che lo ha ormai reso noto al mondo, fatto di svelti piani sequenza interrotti da carrelli all’indietro, zoomate lunghissime, dolly vertiginosi, in un’instancabile e opulenta serie di sguardi alterati e calme visioni. È un itinerario vertiginoso che il regista napoletano propone allo spettatore con quella citazione iniziale dal Viaggio al termine della notte di Celine: "Viaggiare è molto utile, fa lavorare l’immaginazione, il resto è solo delusioni e pene. Il nostro viaggio è interamente immaginario, è là la sua forza". Come dire il cinema. [...]
Con La grande bellezza Paolo Sorrentino è costretto a fare i conti con La terrazza di Ettore Scola, in concorso a Cannes nel 1980 (premio per la migliore sceneggiatura) e con La dolce vita di Federico Fellini, Palma d’oro al festival nel 1960. Cinquant’anni sono troppi per tracciare paragoni ma è simile la capacità di rappresentare un segmento della società ed uno stato d’animo con una potente lente deformante e, allo stesso tempo, un eloquente realismo.»

• Alessandro Gilioli per l’Espresso (26 maggio 2013):
«Sia chiaro prima di tutto che ‘La grande bellezza’ non è «un film su Roma»: quella serve ai virtuosismi fotografici (a chi piacciono, a chi no), a far sfigurare l’ultimo Woody Allen (non ci voleva molto) e probabilmente ad altre minutaglie (i contributi degli enti locali, gli incassi nella capitale dove sta in 33 sale etc). Neppure è un film “felliniano”: anche questo serve solo a fomentare le inevitabili discussioni tra chi grida all’emulazione fallita, chi al plagio e chi alla grande citazione (che poi, chissenefrega).
E’ invece, imho, un film che – al netto della sbornia sensoriale – ci costringe a pensare a un tema abbastanza universale (la possibilità e il senso di una morale, oggi) e un altro più locale (l’Italia contemporanea disincantata e priva di qualsiasi afflato a migliorare se stessa). Il primo tema è il più forte. probabilmente.»

L'industriale - Giuliano Montaldo (2011)

$
0
0

TITULO ORIGINAL L'industriale
AÑO 2011
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Inglés (Separados)
DURACION 94 min.
DIRECCION Giuliano Montaldo
GUION Giuliano Montaldo, Andrea Purgatori (Historia: Giuliano Montaldo, Vera Pescarolo)
MUSICA Andrea Morricone
FOTOGRAFIA Arnaldo Catinari
PREMIOS 2011: Nominada Premios David di Donatello: Mejor diseño de producción
REPARTO Pierfrancesco Favino, Carolina Crescentini, Eduard Gabia, Francesco Scianna, Elena Di Cioccio, Elisabetta Piccolomini, Andrea Tidona, Mauro Pirovano, Giovanni Bissaca, Roberto Alpi
PRODUCTORA BiBi Film / Rai Cinema / Film Commission Torino-Piemonte
GENERO Drama

SINOPSIS Nicola es un hombre de mediana edad propietario de una fábrica heredada de su padre y que se encuentra al borde de la quiebra. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

Subtítulos (Inglés)


Gabriel Garcìa Marquez scrisse, nel 1985, il celebre L’amore al tempo del colera. Venticinque anni dopo, nel contesto economico in cui l’Italia sembra affogare, il regista Giuliano Montaldo (L’Agnese va a morire, I demoni di San Pietroburgo) sembra voler scrivere una sorta di “l’amore ai tempi della crisi”. L’Industriale – presentato alla VI edizione del Festival Internazionale del Film di Roma – è, come suggerisce il titolo stesso, l’epopea di un industriale, un uomo disperato che, nel tentativo di salvare la fabbrica ereditata dal padre, dovrà affrontare anche i problemi di un matrimonio in cui l’amore sembra essersi esaurito.
Nicola Ranieri (Pierfrancesco Favino) è un uomo d’affari di quarant’anni, che si vede costretto a fronteggiare la crisi economica senza averne i mezzi; la sua fabbrica è sull’orlo del fallimento, e la banca non può più aiutarlo con dei prestiti che, almeno, gli permetterebbero di pagare gli stipendi e di avere un po’ più di tempo per cercare di convincere una cordata tedesca ad entrare in affari, salvando così il futuro della fabbrica e dei suoi operai. Orgoglioso e testardo, Nicola non accetta l’aiuto di sua suocera Beatrice (Elisabetta Piccolomini), donna benestante che, tuttavia, non ha mai tenuto nascosto il suo astio nei confronti del genero. Come se non bastasse, Nicola deve anche vedersela con l’improvvisa freddezza della moglie Laura (Carolina Crescentini), sempre più affascinata dal parcheggiatore/artista Gabriel (Eduard Gabia). 
Non sempre il talento interpretativo di Pierfrancesco Favino può bastare a salvare dalla mediocrità un’intera pellicola. Ci aveva già provato con Baciami Ancora, regalando il personaggio più riuscito del film; con L’Industriale l’attore romano restituisce l’immagine nitida di un uomo disperato e sconfitto, simile a quelli di cui sono piene le pagine dei nostri giornali. Tuttavia, questo grande sforzo istrionico viene sminuito da un contorno mediocre, fatto di personaggi appena abbozzati e di una recitazione monocorde, se non addirittura insipida. La Torino di Montaldo, lungi dall’essere quel sfondo tentacolare che il regista stesso si auspicava, è una macchia grigia su cui non splende mai il sole e che, se da una parte può rispecchiarsi nell’animo miserabile del protagonista, dall’altra risulta solo un set come un altro, un luogo stereotipato, dove i cliché si sovrappongono a dialoghi al limite della sopportazione. L’universo diegetico creato da Montaldo – qui in veste di sceneggiatore, oltre che di regista – è un mondo che, seppur illuminato da una fotografia che ben si amalgama alle vicende narrate, appare noioso e lontano da quelle intenzioni di denuncia che il regista sembra voler adottare per dare una visione della crisi degli imprenditori italiani.
Erika Pomella 
---
Il quarantenne Nicola (Pierfrancesco Favino), presidente di una fabbrica torinese ereditata da suo padre, è in crisi: l'azienda è sull'orlo del fallimento mentre cresce in parallelo l'allontanamento di sua moglie Laura (Carolina Crescentini). Deciso a non lasciarsi andare allo sconforto, cercherà con ogni mezzo di recuperare i due aspetti principali della sua vita, ma dovrà forse lasciarsi alle spalle più di uno scrupolo etico. 
Chi si aspetta un duro attacco al cinismo delle banche contro la sana piccola impresa italiana rischia di trovarsi deluso e di sminuire il lavoro svolto da Giuliano Montaldo e Andrea Purgatori in sceneggiatura: la freddezza nel mondo della finanza non viene di certo negata ("Noi non scommettiamo mai", dice il direttore di banca al Nicola in cerca di prestiti senza garanzie), ma il protagonista non è proprio all'altezza dei valori di cui si vorrebbe rendere alfiere. Un pericoloso concorso di responsabilità nel declino di un paese. Nicola "non molla mai", ma il suo abbarbicarsi alla fine di un mondo denuncia anche l'incapacità di scorgerne un altro all'orizzonte, enfatizzata da una spietata fotografia desaturata di Arnaldo Catinari. 
Di recente Emanuele Crialese in Terraferma ci ha raccontato il crollo dell'economia legata alla pesca, concentrandosi su una classe sociale più bassa di quella raffigurata da Giuliano Montaldo in L'industriale. A compromettere però l'assetto di una società, che si trascina nella difficoltà di pensare diversamente di fronte a un mondo mutato, ci sono gli stessi elementi: l'eredità dei padri vissuta acriticamente (vedasi il rimprovero dell'impiegato veterano Saverio all'ostinato Nicola), la presenza degli immigrati vista come minaccia, la tentazione delle soluzioni facili ma illecite. 
Da questo punto di vista il fattore sentimentale melodrammatico non è gratuito, ma necessario a legare le problematiche pubbliche alle private: se qualche cedimento al didascalismo si può notare, specialmente all'inizio, è da lodare la creazione di un legame con un personaggio sfaccettato, ambiguo ma completo che Pierfrancesco Favino rende, ancora una volta, al meglio. 
Per accompagnarlo in un viaggio all'inferno che ha il merito, considerati gli argomenti trattati, di concedere allo spettatore l'attivazione di un pensiero critico e non di un tifo passivo. 
Domenico Misciagna 


Chi non dà lavoro, non fa l'amore

Il quarantenne Nicola è proprietario di una fabbrica sull’orlo del fallimento di una Torino nebbiosa e notturna, immersa nella grande crisi economica che soffoca tutto il paese. Ma è orgoglioso, tenace. Ha deciso di risolvere i suoi problemi senza farsi scrupoli. Sua moglie Laura è sempre più lontana, ma Nicola non fa nulla per colmare la distanza che ormai li separa. Assediato dagli operai che lo pressano per conoscere il loro destino, Nicola avverte che qualcosa sta turbando l’unica certezza che gli è rimasta: il matrimonio. Ma invece di aprirsi con Laura comincia a sospettare di lei e a seguirla di nascosto. Tutto precipita. Nicola annaspa e tira fuori il peggio di sé. Poi tutto sembra tornare a posto: l’azienda, il matrimonio, il successo sociale. Ma l’uomo ha più di un segreto da nascondere e il ritratto sociale prende sfumature dostoevskijane. [sinossi]

Leggendo la trama de L’industriale già si potrebbe riflettere su qualcosa di fondamentale. La questione sociale e la manichea separazione tra servi e padroni, proletari e capitalisti, è ancora una dimensione attualissima della realtà in cui, pur variando le situazioni per forza di cose (la crisi ora come ora non permette a molte grandi aziende nemmeno di essere padrone, asservite anch’esse a qualcun altro, ovvero le banche e gli istituti di credito), permangono invece intatte la questione sociale e lo sfruttamento lavorativo.
La scommessa di Montaldo, classe 1930 ricordiamolo, di riuscire a parlare della crisi di una grossa azienda al mondo d’oggi usando personaggi e contrapposizioni che affollavano molto cinema italiano anni fa (d’impegno e non) è dunque almeno in questo riuscita. Ciò che viene in mente però a livello filmico è il come rendere stimolante tutto questo rispetto a una società radicalmente mutata a livello ideologico, di linguaggio, di fruizione del cinema e dell’arte. Un esempio di un film che riprende dai maestri per poi inserire linfa nuova a livello di genere, profondità dei personaggi, lavoro meramente di ricerca sull’attuale è senz’altro Il gioiellino di Andrea Molaioli. Si potrà obiettare che Montaldo racconta qualcosa di più romanzato, non aiutato da esatti eventi della realtà come guida, e dunque che il paragone non regga, eppure i punti di contatto non sono pochi: dal crollo di un’azienda storica cittadina, radicata nel territorio, alla descrizione di ambienti alto borghesi in cui gli operai sono visti da lontano, di riflesso. Eppure ciò che risulta efficace nel racconto di Molaioli, qui appare invece intrappolato in dinamiche, soprattutto di scrittura, poi di messinscena che finiscono per rendere il film barocco, decadente, infine quasi elogiativo di un mondo di agiatezza, macchinoni, enormi ville ottocentesche, maggiordomi, ricchi banchetti, mentre invece nei contenuti si vorrebbe condannare tutto ciò. Oltretutto, pur con una certa raffinatezza a livello visivo è difficile evitare il terreno della fiction. Nella descrizione di un classico triangoloL'industriale_testo borghese: lui e lei, coppia ricca e in crisi, e l’amante povero di lei, Montaldo non riesce ad evitare una stereotipata parata di palpiti del cuore, cerebrali incomprensioni di coppia, il tutto aggravato da un certo gusto per l’amor cortese, che a dirla tutta più che sul già visto si proietta verso l’assurdo. L’innamorato di umili origini, in questo caso un garagista romeno, non è il classico sfogo erotico o passionale per una moglie frustrata e repressa quanto piuttosto un anelito romantico, completamente platonico, che raggiunge il surreale quando si scorge il ragazzo lavare l’auto di lei decantando il proprio amore con il tubo dell’acqua in mano e musica classica che ne accompagna gli “aggraziati” movimenti. Gli stessi Favino e Crescentini, ottimi interpreti anche qui, ce la mettono tutta per non finire vittime del sentimentalismo, ma non riescono a sfuggire alle maglie di una scrittura poco efficace. Il punto di vista di fondo di Montaldo è invece interessante: ovvero  raccontare la crisi attraverso uno sguardo, quello di Favino, profondamente egoista. Egoista perché si mette in testa di salvare l’azienda non per scelta ideologica, senso etico o motivi di affetto per i lavoratori, quanto invece per non rimanere tagliato fuori da un mondo dorato e dunque rischiare di finire proprio nella grande massa dei non privilegiati. Una casta quella che viene descritta ne L’industriale, in cui si capisce benissimo che una moglie, anche se priva di cinismo o se vogliamo sinistroide come pare essere la Crescentini, è capace di lasciare l’amato marito se questi rischia di perdere il potere e i soldi che ha. Una scelta d’intenti dunque che può risultare azzeccata per il regista de Il Giocattolo (forse il suo film migliore, datato 1979), ma che però appunto diventa ambigua nei modi di raccontare. Ci può stare, ripetiamo, la riflessione su un personaggio tragicamente ridicolo come l’industriale protagonista del film, ma si ha l’impressione che il mancato realismo della pellicola sia in realtà un alibi per proteggere i personaggi stessi da una vera presa di coscienza, che poteva invece accadere se si fosse concesso qualcosa in più alla realtà esterna al mondo dei ricchi, anch’essa invece nei pochi specchietti che la riflettono, affollata di stereotipi per descrivere la natura popolare e urbana di Torino.
Ad accrescere eccessivamente l’antirealismo ma almeno evitando la percezione visiva, sciatta della fiction televisiva, è una strana scelta fotografica. Le immagini de L’industriale sono infatti digitalmente ritoccate e private quasi completamente del colore, grigie come per tradizione è il colore predominante di Torino. Il film sembra tutto girato come fosse perennemente sera. Una scelta eccessiva, che dona artificiosa decadenza all’opera, ma che almeno si distingue per personalità rispetto a molte pellicole che possono avere temi simili e che spesso si assomigliano troppo anche nelle immagini.
Valerio Ceddia
Viewing all 514 articles
Browse latest View live