Viaggio segreto - Roberto Andò (2006)
A.C.A.B. All Cops Are Bastards - Stefano Sollima (2012)
Italian Movies - Matteo Pellegrini (2012)
Educazione Siberiana - Gabriele Salvatores (2013)
Exit: una storia personale - Massimiliano Amato (2010)
Arrivederci e grazie - Giorgio Capitani (1988)
Arrivederci e grazie - Amarcord (2014)
Espero hayan podido disfrutar de las películas y haya quedado, en cada uno, una semilla de inquietud por el cine italiano.
Amarcord
L'Albero delle pere - Francesca Archibugi (1998)
Un difetto di famiglia - Alberto Simone (2002)
Il volto di un’altra - Pappi Corsicato (2012)
Article 0
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Los espero.
Italiano medio - Marcello Macchia (2015)
AÑO 2015
DURACION 90 min.
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Inglés (Separados)
PAIS Italia
DIRECCIÓN Marcello Macchia
GUIÓN Marcello Macchia, Marco Alessi, Sergio Spaccavento, Daniele Grigolo, Danilo Carlani, Luigi Luciano
MÚSICA Chris Costa, Fabio Gargiulo
FOTOGRAFIA Massimo Schiavon
REPARTO Marcello Macchia, Luigi Luciano, Enrico Venti, Lavinia Longhi, Barbara Tabita, Franco Mari, Gabriella Franchini, Francesco Sblendorio, Rodolfo D'Andrea, Adelaide Manselli
PRODUCTORA Lotus Productions, Medusa Produzione
GENERO Comedia | Sátira
Sinopsis
Giulio Verme crece en una familia de ignorantes, apáticos y teleadictos. Por contraste, desarrollará un afilado sentido moral y una conciencia ambiental y animalista fuera de lo común. Vive, sin embargo, una gran frustración a sus casi 40 años de edad porque en torno a sí sólo ve gente pasota, carnívora y enfermos de los smartphone (hasta el mendigo tiene una tablet) y no consigue hacer nada para salvar el mundo más allá de ocuparse de la basura reciclada en un centro de la periferia de Milán. Un antiguo compañero de escuela tiene la solución para todos sus males: una píldora gracias a la cual, en lugar de usar el 20% del cerebro como todos, usará sólo el 2% y así dejará de pensar en el hambre en el mundo y en el calentamiento global para concentrarse en sí mismo y en sus necesidades más elementales; es decir, en las mujeres, en los bocadillos de chorizo y en los coches deportivos. (FILMAFFINITY)
UN ESERCIZIO SULLE CONTRADDIZIONI DEL NOSTRO PAESE, UNA PARABOLA COMICA SULLA PARTE TRASH DI OGNUNO DI NOI.
Giulio Verme reagisce fin da piccolo all'appiattimento dei genitori sui non-valori televisivi con una preoccupazione insistente per l'educazione civica e l'ambiente, ma il suo atteggiamento integralista lo confina ad un lavoro di smistamento rifiuti, che conferma la sua "tormentosa consapevolezza del lerciume che ci circonda". Anche il rapporto con la fidanzata Franca è logoro: lei lamenta che lui parli molto e concluda poco (e siccome siamo in un film di Maccio Capatonda, fenomeno mediatico politically incorrect, la metafora che usa Franca è assai più greve). Poiché "fra il dire e il fare c'è di mezzo il male", il cittadino modello Giulio cederà ad una tentazione banale: assumere una pasticca, fornitagli dall'amico Alfonzo, che dovrebbe aiutarlo ad usare ben più di quel 20% del proprio cervello accessibile agli esseri umani. Peccato che Alfonzo gli allunghi una pillola che riduce il suo 20% a un misero 2%, trasformando il Verme in un egoista lascivo e sfrenato che pensa solo al sesso, ai vizi e al proprio tornaconto. Un italiano medio, insomma, giacché l'assunto di Maccio Capatonda è che vent'anni di dominio incontrastato della televisione commerciale abbiano ridotto al 2% il cervello della maggioranza dei cittadini della Penisola.
Italiano medio è un esercizio sulle contraddizioni del nostro Paese che trova il suo coronamento ironico nella distribuzione del film stesso, ad opera di Medusa. Ciò nonostante il lungometraggio di esordio di Capatonda, al secolo Macello Macchia, possiede una sua coerenza interna che si esprime in termini di tono, spinto all'eccesso fin dalla prima scena, e di contesto, quello satirico che si nutre di paradossi e parodie. Macchia attinge infatti a piene mani dal cinema di cui ha fatto infinite caricature, in primis quel Fight Club citato esplicitamente in (almeno) una scena ma che sottende l'intera narrazione, per continuare con Arancia Meccanica, Hunger Games e, ovviamente, Limitless. Del resto la commedia inizia con un ciclo di lavatrice, metafora del modo con cui il regista-sceneggiatore-attore-montatore "frulla" la cultura pop del nostro tempo in cerca di una sua forma espressiva originale. E in Italiano medio la trova: volgare, corrotta, iconoclasta, isterica, lunare - come l'Italia di oggi, insomma.
Il bestiario c'è tutto: docenti universitari decrepiti e vicine zoccole, Grandi Fratelli e Mastervip, calciatori e veline, complottisti e vegani, disoccupati che mendicano una password per tornare a galla e precari disposti a fare i tassisti, i piazzisti, i testimoni di guru improvvisati, e ci sono anche i guru improvvisati, le pacifiste violente e i cumenda senza scrupoli alla Ruggero De Ceglie: ma la pietra cinematografica di paragone non sono I soliti idioti, perché qui la volgarità non è mai fine a se stessa e non c'è compiacimento autoreferenziale. Piuttosto, c'è l'indignazione ironica del Nanni Moretti prima maniera, quello di Io sono un autarchico, mixata con l'irriverenza comica postmoderna di Checco Zalone.
In Italiano medio ci sono attori di comicità clownesca e di segreta dolcezza come Luigi Luciano (alias Herbert Ballerina) e Barbara Tabita, e c'è il talento pirotecnico di Maccio Capatonda, omino buffo vagamente ripugnante capace di creare macchiette spassose, giochi di parole esilaranti, qui pro quo fuori di testa. Capatonda è esattamente l'antieroe tragicomico che ci meritiamo, in questi tempi scellerati.
Il Macchia regista (assistito da Paolo Massari) da un lato si attiene ai dialoghi campo-e-controcampo e alle riprese elementari, dall'altro lavora di montaggio (con un veterano come Giogiò Franchini) e controllo del colore per velocizzare la storia, e soprattutto lavora alla storia stessa (insieme al suo team di cosceneggiatori) evitando quello che sarebbe stato il rischio maggiore: inanellare una serie di gag senza creare un percorso narrativo degno di questo nome. Il percorso narrativo invece è chiaro, e accresce la comicità per accumulo - prova ne è che le scene del film, isolate su Youtube, non sono altrettanto efficaci, mentre nel film raggiungono l'effetto valanga. Anche i personaggi importati dalla Rete vengono incanalati efficacemente nel contesto filmico, rimanendo "rimandi ad altro", non riassunti incompleti di un universo parallelo.
Italiano medio è una parabola comica sulla parte trash di ognuno di noi in lotta titanica con la propria parte decorosa, una denuncia degli integralismi come delle derive qualunquiste, una galleria di mostri contemporanei e di quotidiane nefandezze, di cui ridere senza mai potersene chiamare fuori, in quanto italiani medi.
Paola Casella
https://www.mymovies.it/film/2015/italianomedio/
Giorno per giorno disperatamente - Alfredo Giannetti (1961)
El matrimonio Dominici vive en constante estado de angustia. Gabriel, uno de sus dos hijos, sufre frecuentes neurosis que obligan a ingresarlo periodicamente en un manicomio. La férrea presión materna es la causante de la situación ya que está convencida de que solo en casa su hijo sanará. Dario, el otro hijo, es obligado a vivir por y para su hermano, mientras que el padre, sastre de profesión, no sabe como conseguir el dinero que la enfermedad de Gabriel dilapida.
Thriller italiano con las enfermedades mentales como telón de fondo, que supuso el debut como director de Alfredo Giannetti. El realizador es conocido sobre todo por sus colaboraciones como guionista con el director Pietro Germi, con quien firmó títulos como “Divorcio a la italiana”, galardonada con un Oscar. Como sucedía con los films italianos durante los 60, "Día a día desesperadamente" no tuvo problemas de distribución en España y fue estrenada con un relativo éxito de público.
Nella famiglia di Pietro Dominici, un modesto sarto, vive da tempo un pauroso personaggio: la pazzia. Spinto dall'ambizione materna, il più grande dei due figli, Dario, s'è troppo logorato sui libri. Attorno a lui vivono in continua tensione il fratello Gabriele, esasperato dall'intimo conflitto tra la pietà fraterna ed un senso di ribellione al continuo sacrificio che la situazione esige dalla sua giovinezza; il padre, Pietro che trascina avanti, trascurato e stanco, il suo lavoro, sempre alle prese colla necessità di procurare il denaro per le cure del figlio; la madre, Tilde, ossessionata dall'unica preoccupazione di soccorrere e curare Dario. Tilde, sedotta dal miraggio d'una facile guarigione, riporta in casa Dario: è risoluta a condurlo in Svezia dove uno specialista promette miracoli. Pietro, calpestando il proprio orgoglio professionale, ottiene il denaro necessario al viaggio, ma un nuovo accesso di follia del giovane stronca la rinata speranza. Gabriele s'è accorto che il fratello s'è impadronito di un coltello. Tace. Ma quando Dario si barrica nella propria camera, disperato, si getta contro la porta e toglie l'arma dalle mani del folle. La madre crede che Gabriele abbia voluto attentare alla vita di Dario e lo caccia duramente di casa. Gabriele se ne va, quasi liberato; da tempo ha invocato tacitamente quella soluzione. Al telefono, mentre saluta la madre, indovina che qualcosa di terribile sta accadendo. Dario sta uccidendo la madre. Giunge appena in tempo, con gli infermieri. Il folle viene nuovamente rinchiuso nel manicomio mentre Tilde, stroncata da un attacco di cuore, muore. Gabriele è ormai lontano, ma resta il padre ad assistere ed amare il figlio perduto, giorno per giorno, disperatamente.
Dalle Ardenne all'inferno - Alberto De Martino (1967)
AÑO 1967
IDIOMA Alemán y Español (Dual)
SUBTITULOS No
DURACION 105 min.
PAIS Italia - Francia - Alemania
DIRECCION Alberto De Martino
GUION Alberto De Martino, Dino Verde, Vincenzo Mannino
MUSICA Ennio Morricone, Bruno Nicolai
FOTOGRAFIA Giovanni Bergamini
REPARTO Frederick Stafford, Daniela Bianchi, Curd Jürgens, Michel Constantin, Helmuth Schneider, Howard Ross, Fajda Nicol, Anthony Dawson, Jacques Monod, Adolfo Celi, John Ireland
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia-Alemania del Oeste (RFA); Fida Cinematografica, Gloria, Jacques Roitfeld
GÉNERO Bélico. Drama
Febbre di vivere - Claudio Gora (1953)
La ragazza nella nebbia -Donato Carrisi (2017)
AÑO 2017
Sinopsis
Una chica de 16 años desaparecida en un pueblo de montaña. La nieve, la niebla, las luces. Las luces son las de las cámaras. Han llegado los medios de comunicación. Y todo ha cambiado.
di Mariantonietta Losanno
Ad Avechot, paesino immaginario dell’Alto Adige, scompare la sedicenne Anna Lou, figlia di adepti di una setta cattolica. Inizialmente si pensa ad una fuga, o ad un atto di ribellione, ma l’ispettore Vogel e i giornalisti cercano ad ogni costo un serial killer, un “mostro”. Con una serie di indizi si riesce a risalire ad un possibile sospettato, ma niente è come sembra e, soprattutto, nessuno è realmente innocente.
“È il cattivo che fa la storia. Non sono gli eroi che determinano il successo di un’opera, è il male il vero motore di ogni racconto”, dice Alessio Boni in una scena del film. In realtà, è Carrisi a prendere la parola attraverso gli attori, non a caso scelti accuratamente. Sì, bisogna riconoscerlo, quella di Carrisi è stata una scelta astutamente ponderata, il cast d’eccezione di cui si è circondato gli ha assicurato (a priori) gran parte del successo della sua opera: Toni Servillo, Jean Reno “italiano”, Alessio Boni, Galatea Ranzi, Michela Cescon. Questa però, non è la sola decisione ingegnosa presa dallo scrittore di Martina Franca. Proprio come afferma in un altro punto cruciale della pellicola sempre Alessio Boni, “La prima regola di un grande romanziere è copiare”. E Carrisi lo ha saputo fare, ed è lecito, soprattutto alla prima esperienza da regista. L’atmosfera idilliaca di un piccolo paesino (immaginario), il detective da fuori città che arriva sul posto, l’inspiegabile sparizione di una ragazza, la tranquillità prima della tragedia ricordano alla perfezione la prima stagione di “Twin Peaks” (David Lynch), e danno quel tocco vintage all’ambiente; ma Carrisi ha preso spunto anche da Hitchcock, maestro della suspense, da Fincher, dai fratelli Coen (omaggiando “Fargo”), da Shyamalan. Questo gioco gli riesce, perché Carrisi è capace di attingere dai grandi maestri senza perdere le sue peculiarità.
Un concetto interessante è la critica nei confronti del giornalismo e del fascino mediatico della criminalità. La giustizia non fa ascolti, l’importante è creare la notizia e sfamare la curiosità del pubblico che è alla ricerca di una prova, anche fittizia: una goccia di sangue, una traccia di DNA, un’arma nascosta, un particolare che incolpi la bestia da sbattere in prima pagina. In questo modo “La ragazza nella nebbia” diventa anche un romanzo e un film di denuncia, non solo del crimine, ma del crimine che fa spettacolo. L’esibizionismo mediatico è accentuato dal fatto che ci riferiamo a un paesino calmo e silenzioso, ma attenzione alla tranquillità: inganna! Se solo vogliamo pensare alla risonanza dei fatti di cronaca avvenuti a Cogne, Avetrana, Novi Ligure. La tranquillità è colpevole, uccide in senso figurato con la noia, e uccide in senso letterale perché porta a commettere crimini.
“La ragazza nella nebbia” è un thriller in cui ogni aspetto è attentamente studiato per accrescere la curiosità dello spettatore, e dove niente è dato per scontato. Se per tanti aspetti ricorda esperimenti precedenti (tra i riferimenti più recenti “L’uomo di neve” dal romanzo di Jo Nesbø per gli inquietanti paesaggi innevati), ha la forza di mantenere la sua unicità e non cadere nella copia.
A mezzanotte va la ronda del piacere - Marcello Fondato (1975)
AÑO 1975
DURACIÓN 100 min.
PAIS Italia
DIRECCIÓN Marcello Fondato
GUIÓN Marcello Fondato, Francesco Scardamaglia
MÚSICA Guido De Angelis, Maurizio De Angelis
FOTOGRAFÍA Pasqualino De Santis
REPARTO Claudia Cardinale, Antonella Dogan, Vittorio Gassman, Renato Pozzetto, Giovanna Gentile, Monica Vitti, Giancarlo Giannini, Paola Maiolini
PRODUCTORA Delfo Cinematografica, Rizzoli Film
GÉNERO Comedia. Drama. Intriga | Drama judicial
Sinopsis
En un juicio por intento de homicidio, la imputada es Tina Candela (Monica Vitti), una mujer de pueblo que asume su propia defensa en el juicio narrando su tempestuosa relación con la víctima, su marido Gino (Giancarlo Giannini). La apasionada y explosiva pareja despierta el interés de Gabriella Sansoni (Cardinale), una acomodada señora que forma parte del jurado, y la lleva a replantearse su matrimonio con Andrea (Gassman) un donjuán machista. (FILMAFFINITY)
Gabriella Sansoni, giovane moglie borghese, viene nominata giudice popolare in un processo di Corte d'Assise. Imputata è un'altra donna, Tina Candela, accusata di aver ucciso il marito Gino. Tra il giudice popolare e l'imputata si stabilisce subito una corrente di simpatia e di interesse umano. Tina Candela, per difendersi, rievoca il suo legame con il marito e compone il quadro di una strana storia d'amore, nata e cresciuta in un mondo sottoproletario fatto di sentimenti accesi, di liti, di scontri anche violenti, ma sempre riscattati dall'amore: un amore, a detta dell'imputata, così forte e sincero da escludere la possibilità di un omicidio: non di delitto dunque si tratta, secondo la Candela, ma di disgrazia. Gabriella, più ancora che come giudice, viene colpita come donna e moglie dai racconti dell'imputata. Confronta la vitalità di quel rapporto con il grigiore della sua vita coniugale. E comincia a vedere suo marito Andrea sotto una nuova luce. Finora è stata trattata come una bambina priva di volontà, ma adesso comincia ad affiorare in Gabriella un prepotente bisogno di affermare la sua personalità. Attraverso il processo, i suoi colpi di scena, le sue testimonianze impreviste, Gabriella e Tina, giurata e imputata, giungeranno così a una maggiore consapevolezza delle loro condizioni di donna.
http://www.archiviodelcinemaitaliano.it/index.php/scheda.html?codice=AG3872
Crítica
Giorni di gloria - Giuseppe De Santis, Mario Serandrei, Marcello Pagliero, Luchino Visconti (1945)
TITULO ORIGINAL Giorni di gloria
AÑO 1945
IDIOMA Italiano
SUBTÍTULOS Español
DURACIÓN 71 min.
PAÍS Italia
DIRECCIÓN Mario Serandrei, Marcello Pagliero, Giuseppe de Santis, Luchino Visconti
GUIÓN Umberto Calosso, Umberto Barbaro
MÚSICA Constantino Ferri
FOTOGRAFÍA Gianni Di Venanzo, Angelo Jannarelli, Giorgio Lastricati, Navarro, Giovanni Pucci, Arthur Reed, Massimo Terzano, Umberto della Valle, Giovanni Ventimiglia, Vittoriano, Michel Werdier, De West, Manlio
REPARTO Documental
PRODUCTORA Titanus, Associazione Nazionale Partigiani d'Italia (ANPI), Cinéac, Ministero delle Terre Occupate, Comando delle Divisioni Garibaldine Zone Valsesia, P.W.B. Film Division
GÉNERO Documental | Película de episodios. II Guerra Mundial
Sinopsis
El film muestra la vida de los partisanos antifascistas, los acontecimientos que llevaron a la liberación de Roma, entre los que están la masacre de las Fosas Ardeatinas, el proceso Koch y Caruso y el fusilamiento de estos, así como la reconquista de Milán con la unión de armas entre partisanos y aliados. (FILMAFFINITY)
Il film è la rievocazione dell'oppressione nazifascista dalle tristi giornate del settembre '43 alla liberazione del Nord. Ha inizio con la ripresa di alcune azioni di partigiani presso la linea del fronte; gli atti di sabotaggio provocano una reazione degli oppressori che incrudiscono le loro azioni di rappresaglia; ma la stampa clandestina anima e forgia gli spiriti della resistenza. Il massacro delle Fosse Ardeatine è riprodotto nella sua spaventosa tragicità. Gli eventi incalzano e nelle regioni che a mano a mano vengono liberate i colpevoli della lotta fratricida pagano il loro tributo alla giustizia.
Segnalazioni cinematografiche C.C.C., vol. XIX, 1945
L'idea di Giorni di gloria fu di Serandrei, proprio e soltanto sua, al contrario di quanto in giro si dice. Oltretutto egli montò tutto il materiale ed è quindi il maggiore artefice di Giorni di gloria, che è un film soprattutto di montaggio. Io mi occupai del montaggio con lui, e poi il mio ruolo fu quello di coordinare il materiale che, in massima parte, ci era stato fornito dalle formazioni partigiane del sud ma soprattutto del nord. Personalmente, girai tutto il pezzo delle Fosse Ardeatine, nonché le interviste ai famigliari dei caduti, con l'aiuto dell'operatore Carlini. Ricordo che alle Ardeatine, quando entrai là dentro e sentii proprio l'odore della morte, fui colto da una commozione talmente intensa che, appena stabilita l'inquadratura, dovetti uscirmene alla luce e lasciai il compito di proseguire a Carlini. Oltre a queste sequenze girai anche una azione del GAP, ricostruita. A Visconti si devono invece le riprese del processo di Carretta e del suo linciaggio che poté cogliere perché si trovava a passare da lì con la macchina da presa.
Giuseppe De Santis in L'avventurosa storia del cinema italiano, a cura di F. Faldini, G. Fofi, Feltrinelli, Milano 1979
Vuol essere, questo Giorni di gloria, la esposizione cinematografica della lotta partigiana e degli avvenimenti d'Italia dall'8 settembre sino alla liberazione del Nord: l'occupazione nazifascista e la nascita delle brigate partigiane, gli atti di sabotaggio, la stampa clandestina e l'eccidio delle Fosse Ardeatine, i processi e la fucilazione di Caruso, Kock e Scarpato, gli episodi di guerra aperta nell'alta Italia, la fine di Mussolini, la liberazione di Milano, l'inizio faticoso della ricostruzione. La narrazione dei diversi avvenimenti era condizionata, purtroppo, alla esistenza di materiale girato sul momento. Per cui alcuni episodi sono illustrati con maggiore ampiezza di altri, magari più importanti, ma dei quali i realizzatori del film non avevano a disposizione che qualche metro appena di pellicola impressionata o addirittura solo qualche incerta fotografia.
Comporre in un corpo coerente e compatto, dare unità stilistica e narrativa a un materiale così frammentario era compito difficilissimo. E bisogna riconoscere subito che i realizzatori del film (Mario Serandrei e Giuseppe De Santis) hanno, in genere, superato brillantemente ogni difficoltà. Così che la cronaca viva e dolente della lotta per il riscatto d'Italia vive, in tutta la sua umana e tragica verità, nelle sequenze di questo Giorni di gloria. Al quale presta un insolito e suggestivo e validissimo aiuto il commento parlato dovuto a Umberto Calosso e ad Umberto Barbaro.
Maggiori possibilità, maggiore spazio di tempo disponibile e soprattutto una più matura riflessione avrebbero evitato a Serandrei e De Santis alcuni fin troppo evidenti errori. I quali consistono sia in una difettosa struttura di montaggio che, a scapito della linea narrativa e dell'emotività del film, appare ansioso di utilizzare fin in fondo alcuni brani sia pure bellissimi che di per sé avevano già la compiutezza di un documentario (quelli di Luchino Visconti sul processo Caruso e, ancor più, quelli di Pagliero sulle Fosse Ardeatine); sia in inutili compiacimenti figurativi che accentuano ancor più la discrepanza esistente e visibile tra il materiale propriamente documentario e quello "ricostruito".
Ma, al di là delle incoerenze sintattiche e stilistiche, sta la violenza drammatica di gran parte di quelle immagini, cariche di una emotività così intensa e toccante da obbligare lo spettatore a stringere con le figurazioni dello schermo un patto inevitabile di partecipazione e d'amore.
Antonio Pietrangeli, "Star", n. 41, 9 novembre 1945
I partigiani, con indosso gli abiti e le armi che avevano in montagna e che ancora non avevano reso, ripetono per la macchina da presa i gesti e le azioni dei giorni di guerra, i momenti della vita al campo, del rancio, del tribunale partigiano. Altri episodi, più legati alla cronaca, sono girati da Luchino Visconti, a cui si devono le straordinarie riprese con suono diretto del processo Caruso, del "linciaggio" del questore Carretta, della fucilazione di Caruso e di altri fascisti, e Marcello Pagliero che girò le fasi del disseppellimento e del riconoscimento delle vittime delle Fosse Ardeatine. De Santis, da parte sua, gira alcune inquadrature di azioni di guerra partigiane totalmente ricostruite: suo è nel film, insomma, ciò che più evidentemente è finzione, messa in scena, e la cosa appare emblematica, sia per la carriera futura di De Santis sia per tutto il cinema italiano resistenziale. Giorni di gloria, anche se utilizza alcuni materiali Incom, è il segno vivente dell'impossibilità di fare in Italia un film realmente "documentario" sulla resistenza e sui suoi aspetti quotidiani. Gran parte dei documenti originali girati da operatori partigiani furono infatti subito sequestrati dal P W B americano ed è su questa assenza che il cinema resistenziale italiano si costruirà come cinema eroico, romanzesco, fatto di avvenimenti tutti eccezionali e incapace di indagare la quotidianità, le voci e i corpi della resistenza.
Alberto Farassino, Giuseppe De Santis, Moizzi, Milano 1978
Il film è il montaggio di numerose sequenze e immagini fotografiche sulle distruzioni causate dalla guerra in Italia; sulle drammatiche condizioni di vita della popolazione; su personaggi e azioni dei fascisti e dei nazisti; su situazioni relative all´Italia libera. Ma i “giorni di gloria” sono quelli della Resistenza: ed è questo tema celebrativo a dominare il tono del film. Combattimenti partigiani contro gli occupanti, rastrellamenti, rappresaglie nazi-fasciste, tedeschi che si arrendono, attività clandestine nella città, lanci con paracadute di rifornimenti ai reparti partigiani; e infine la mobilitazione e gli scioperi che preannunciarono l´insurrezione e la liberazione, a opera dei reparti partigiani del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, delle grandi città del Nord: Genova, Torino, Milano, Venezia. Sono quindi sviluppati in particolare due episodi. Il processo a Pietro Caruso (girato da Visconti) è la cronaca vivacissima e drammatica del procedimento contro il questore di Roma, uno dei compilatori degli elenchi di ostaggi da trucidare alle Fosse Ardeatine; durante il processo - che si concluse con la condanna a morte per fucilazione - l´esasperazione popolare portò anche a uno sconvolgente atto di linciaggio (documentato dalla macchina da presa) contro uno degli arrestati, il direttore del carcere romano di Regina Coeli, Carretta. Il tema delle Fosse Ardeatine (con riprese dovute a Pagliero e De Santis) è documentato in immagini di tragica evidenza: il ritrovamento, la ricomposizione e il riconoscimento dei corpi dei 335 esseri umani trucidati dai nazisti e rimasti sepolti per mesi sotto tonnellate di tufo. Di particolare intensità sono anche alcune rare testimonianze sonore di donne parenti delle vittime. Una scritta finale chiarisce gli obiettivi del documentario: «A tutti coloro che in Italia hanno sofferto e combattuto l´oppressione nazifascista è dedicato questo film di lotta partigiana e di rinascita nazionale».
Film di montaggio coordinato da G. De Santis e montato da M. Serandrei (che ne fu anche l´ideatore) sulla Resistenza, dalle tragiche giornate del settembre 1943 fino all´aprile 1945. Prodotto da Fulvio Ricci per la Titanus e dall´Associazione Nazionale Partigiani d´Italia (ANPI). Commento non privo di enfasi retorica di Umberto Calosso e Umberto Barbaro. L´impostazione di fondo è quella di una sintesi patriottica e interclassista. La parte più debole è quella sulla guerra partigiana soprattutto per la (logica) scarsità del materiale di documentazione, in parte ricostruito. Il film conta per le immagini (girate da M. Pagliero) sull´apertura delle Fosse Ardeatine con i cadaveri dei 335 italiani uccisi per rappresaglia il 24 marzo 1944 e per le sequenze (girate da Luchino Visconti) del processo al capo della polizia Pietro Caruso e a Carretta, direttore del carcere di Regina Coeli con le prime fasi del suo linciaggio. Fu proiettato in pubblico per la prima volta il 18 ottobre 1945 a Roma.
Morando Morandini, Il dizionario dei film
De Santis: Giorni di Gloria nasce in questo modo. Nel nostro gruppo c’era un grande montatore, Mario Serandrei, un uomo che nella storia del cinema italiano ha occupato un ruolo molto importante, anche se poi è ricordato meno di quanto si dovrebbe. Al pari di Libero Solaroli, direttore di produzione, della stessa formazione culturale, della stessa generazione. Così anche Serandrei era un uomo di grande cultura, di formazione culturale anche molto raffinata. Insomma, io e lui avemmo l’idea di metter insieme questo materiale che, ci dicevano, le varie formazioni partigiane avevano girato in Piemonte e in Emilia Romagna. In più anche gli Alleati avevano altro materiale girato. Mettemmo insieme questo materiale e decidemmo anche di far girare qualcosa che potesse rinvigorire o rinfrescare o dare forza. E decidemmo di fare un documentario. Questo a Roma, ancora prima della liberazione del nord. Però il film lo abbiamo fatto dopo, quando avevamo tutto il materiale. Comunque nasce a Roma, tutto a Roma, viene anche montato a Roma.
Ci sono anche alcune cose di finzione, girate da me. C’è un’azione dei GAP, fatta con degli attori, di finzione vera e propria. Poi c’è il processo Caruso girato da Visconti, già con un’idea televisiva. Visconti ebbe l’idea di mettere tre macchine cosa che allora nel cinema non si usava, ebbe questa bella intuizione per cui poteva stare sul primo piano di questo che veniva condannato alla fucilazione, poi c’era il padre di Berlinguer che leggeva la sentenza, e quindi avere tutti gli effetti e le cose che si vedono.
Io girai poi la parte delle interviste ai parenti fuori dalle Fosse Ardeatine. Non ebbi il coraggio di entrare dentro, perché avevo molti compagni e amici che erano stati fucilati, proprio non me la sentii di entrare dentro. Questo lo girò Pagliero, lui girò all’interno, io le interviste all’esterno. C’è una lunga carrellata che è mia. […] Devo dire una cosa, anche questo è bene che si sappia. Finito il processo Caruso ci fu un tentativo di linciaggio che noi girammo, che Visconti girò, interamente. C’è, negli archivi dellAnpi dovrebbe esserci, a meno che gli alleati non l’abbiano fatto sparire. Non ci sentimmo, onestamente, di montare quella roba, perché non ci sentimmo di mostrare questa folla imbestialita, questo corpo straziato. Giusto? Non giusto? Non le so dire, non so rispondere a questa domanda. Però il materiale c’era.
Gobetti: Io credo che questo sia il film più rivoluzionario che esista. Come struttura. L’idea di fare un documentario, un film, che non è un film a soggetto, con queste cose visive, nel 1945. Secondo me anche questa è la Resistenza. Se non c’era prima la Resistenza non poteva esistere un film del genere, che proprio nella sua insolita struttura ti suggerisce che, in un mondo nuovo, ci potrebbe essere un cinema diverso, nuovo.
Intervista video a Giuseppe De Santis realizzata il 17 giugno 1994 da Paolo Gobetti, Paola Olivetti, Giacomo Gambetti, Daniele Gaglianone
Mario Serandrei.
Giorni di gloria. Gli scritti. Un film
Il Castoro, 1999
http://www.luchinovisconti.net/visconti_sc_film/giorni_di_gloria.htm
L' Uomo senza gravità - Marco Bonfanti (2019)
TÍTULO ORIGINAL L'uomo senza gravità
AÑO 2019
IDIOMA Italiano
SUBTÍTULOS Inglés y Español (Separados)
DURACIÓN 107 min.
PAÍS Italia / Bélgica / Francia
DIRECCIÓN Marco Bonfanti
GUIÓN Marco Bonfanti, Giulio Carrieri (Historia: Marco Bonfanti, Fabrizio Bozzetti)
MÚSICA Danilo Caposeno
FOTOGRAFÍA Michele D'Attanasio
REPARTO Elio Germano, Michela Cescon, Elena Cotta, Silvia D'Amico, Vincent Scarito, Pietro Pescara, Jennifer Brokshi, Andrea Pennacchi, Cristina Donadio, Dieter-Michael Grohmann, Dominique Lombardo, Francesco Procopio
PRODUCTORA Distribuida por Netflix. Coproducción Italia-Bélgica-Francia; Isaria Productions, Zagora, Climax Films, Ministero per i Beni e le Attività Culturali
GÉNERO Comedia. Drama. Fantástico
Sinopsis
Un niño, que desafía la ley de la gravedad y crece lejos de las miradas de todos, se convierte en un hombre extraordinario y famoso, pero él solo desea tener amigos. (FILMAFFINITY)
El film "L'Uomo senza gravitá" (El hombre sin gravedad), de Marco Bonfati, una fábula ágil protagonizada por Elio Germano, abrirá la 14ta edición de la Fiesta del Cine de Roma, que va del 17 al 27 de octubre, y a partir del 1º de noviembre podrá verse en Netflix. El protagonista de la historia es Oscar (Pietro Pescara y, de adulto, Elio Germano), un niño que nace en los años '80 en una noche de tempestad, en el hospital de un pequeño pueblo del norte de Italia. Inmediatamente se comprende que hay algo de extraordinario en él: no obedece a la ley de gravedad. Desde bebé flota en el aire, frente a los ojos de su madre, Natalia (Michela Cescon) y de su abuela Alina (Elena Cotta).
Ambas mujeres hacen un pacto: deciden mantener escondido al niño de los ojos del mundo por muchos, demasiados, años. Solo la pequeña Agata (Jennifer Brokshi y, de adulta, Silvia D'Amico) conoce el secreto. Pero un día Oscar decide que ha llegado el momento de huir del pueblito entre las montañas y que todo el mundo debe conocer quién es realmente: el hombre sin gravedad. Entonces, decide participar en un concurso internacional para hombres y mujeres "raros" e ingresa, gracias a sus poderes, en el rutilante ámbito del espectáculo, con la ayuda de un manager algo oscuro (Vincent Scarito), que solo piensa en el dinero. "La historia de Oscar, un hombre afectado por la ausencia de peso habla de la dificultad de ser puros, ingenuos, livianos (en todos los sentidos) en un mundo opaco dedicado a la pesadez", sostuvo el director sobre su ópera prima. Agregó que "a pesar de que Oscar tiene un poder especial, 'L'Uomo senza Gravitá' no es un film sobre un superhéroe sino la historia de un hombre simple y puro que desea ser aceptado por el mundo". "Es un ser humano a quien se le ha negado la
infancia, que al término de un largo recorrido en la búsqueda de sí mismo y del amor, comprenderá que volver a ser niño es el único modo para vivir una vida realmente sin gravedad", señaló Bonfati.
Por su parte, Germano, quien interpreta a Oscar en la adultez, dijo que su personaje es "un superhéroe muy particular". "Es un personaje que tiene algo equivocado, tal vez una excesiva ligereza, este es su error. Y finalmente termina siendo un antihéroe porque, por ejemplo, jamás utiliza sus superpoderes", sostuvo.(ANSA).
UN'AUDACE FAVOLA MODERNA CHE GUARDA ESPLICITAMENTE A CALVINO SENZA PERÒ RAGGIUNGERNE I LIVELLI.
Marzia Gandolfi
Da qualche parte nella provincia italiana nasce Oscar, un bambino senza gravità che galleggia sopra la nebbia e l'insostenibile pesantezza dell'essere. Nato fuori tempo massimo da una madre matura e single, Oscar cresce sotto l'ala protettiva di nonna Alina che lo costringe in casa, lontano dallo sguardo indiscreto e curioso delle comari di paese. Ma Oscar vuole conoscere il mondo e magari salvarlo come Batman, il suo supereroe preferito. Al suo fianco 'combatte' Agata, la prima amica (e il primo amore) a conoscere il suo segreto. Un segreto difficile da mantenere in un paese piccolo che comincia a interrogarsi su Oscar. Costretto a trovare in montagna rifugio dal mondo, Oscar cresce e con lui il desiderio di volare via, di essere finalmente se stesso.
Audace perché il postulato di partenza non si preoccupa della verosimiglianza, è una sorta di gioco infantile a cui ci invita l'autore: una donna ordinaria concepisce un bambino straordinario, "affetto da leggerezza". Un gioco al quale lo spettatore deve aderire se non vuole perdere l'essenza del film. Come il racconto filosofico di Calvino, Marco Bonfanti fa appello all'arte di elevarsi, letteralmente e figurativamente, per sottrarsi dal mondo e guardarlo meglio.
Audace ancora perché l'irruzione di un elemento incongruo indaga la mutazione di un corpo e lo fa evolvere da un universo grigio a un mondo a colori, a misura dell'adeguamento del protagonista alla sua identità sovrannaturale. Perché Oscar non è un bambino come gli altri ma è figlio di una madre come le altre, che lo ama di un amore cieco, che vorrebbe soltanto proteggerlo ma finisce per tarpargli le ali e la naturale vocazione al volo. A immagine del Ricky alato di François Ozon, Oscar è un bambino come tanti e un bambino singolare, come ogni altro bambino agli occhi dei suoi genitori.
Sceneggiato a quattro mani con Giulio Carrieri, il film poetizza il cordone ombelicale, concepisce un bambino magico e oppone all'amore materno il voyeurismo della gente e dei media, sottolineando il ruolo di Oscar come centro di gravità dopo essere stato motivo di squilibrio e di turbamento. Racconto tutto in ellissi, L'uomo senza gravità debutta in una provincia mesta e scivola nel fantastico ancorato al realismo del quotidiano con effetti speciali centrati sul corpo del protagonista e sulle rotture di tono (dal comico al tragico, dove il primo corregge sovente il secondo).
Dopo due documentari che indagavano il miracolo della resilienza (L'ultimo pastore) e della creazione (Bozzetto non troppo), l'autore debutta nella fiction, già sperimentata in corto (9x10 Novanta) con candore e ingenuità. Dei lavori precedenti, Bonfanti conserva lo splendido amore per il mondo lieve della favola e lo stupore dei suoi eroi per cui inventa questa volta il prodigio dentro l'ultra reale.
Diversamente da Calvino, orizzonte dichiarato di riferimento, il risultato non produce però scintille. La vagheggiata levità calviniana non tarda a rivelare nel film il proprio peso insostenibile, esplodendo mortaretti ed esplorando il fantastico come una piroetta rivelatrice di nulla. Il suggestivo soggetto di partenza non apre le porte a una riflessione filosofica all'altezza della premessa. I dialoghi convenzionali, l'interpretazione artificiosa degli attori, gli improbabili (e bruschi) scarti narrativi, l'ellissi temporale impiegata come mera tecnica di raccordo e mai come figura di sentimento, svuotano la storia di ogni sostanza. Convertono il volo di Oscar in quello imprudente di Icaro.
E imprudente è pure il film, il cui bagaglio letterario e filosofico non è sufficiente a fornirgli una vocazione. La brillante meccanica intellettuale di Calvino non serve a Bonfanti la chiave d'uscita. "Scrivete con precisione e con leggerezza", esortava Calvino nelle sue "Lezioni americane", fornendo indicazioni sul peso e il significato delle parole. A mancare in un film che si dà come assioma la leggerezza è proprio quel valore cardine che rima sempre con complessità. Al cinema come in letteratura, è necessario che il linguaggio sia all'altezza di quello che è raccontato.
https://www.mymovies.it/film/2019/luomo-senza-gravita/
La peccatrice - Amleto Palermi (1940)
Sinopsis
La pecadora es una película de 1940 , dirigida por Amleto Palermi , que formó parte de la selección italiana en el Festival de Cine de Venecia de ese año. Se considera como un primer intento de película realista en el panorama del cine italiano a principios de los años cuarenta .
Amleto Palermi affronta la difficile tematica della prostituzione e affresca con dimesso realismo e con commossa partecipazione il graffiante e scomodo ritratto di un’Italia inquieta, problematica, ben lontana dall’immagine, addomesticata e sterilizzata dalla propaganda fascista, di una società priva di contraddizioni. Sceneggiato da Luigi Chiarini, Umberto Barbaro e Francesco Pasinetti, La peccatrice è la storia di una giovane sedotta e poi abbandonata, Maria Ferrante (Paola Barbara) è un corpo in fuga, marchiato indelebilmente dal peccato eppure ancora innocente, un corpo senza più possibilità di redenzione, costretto al sacrificio e all’esclusione. Maria lascia rivivere i fantasmi del suo passato e ripercorre tra il sogno e la veglia la sua esistenza. I brevi istanti di felicità vissuti – l’abbagliante chiarore che avvolge l’istituto dove mette al mondo il suo bambino, l’avvolgente e appassionato ballo durante il quale Pietro (Vittorio De Sica) le dichiara timidamente il suo amore – si alternano alla sua dolorosa caduta, fatta di speranze continuamente negate, in un universo moralmente ambiguo e corrotto. E risvegliatasi dal suo sonno tormentato, Maria si concede un’ultima, caparbia illusione, quella di poter ritrovare vita e riposo dalla sua sofferenza. Ma il suo vagare è l’inutile movimento di un corpo continuamente rifiutato, reso inaccettabile dalla sua diversità e per questo ricacciato ai margini, costretto alla solitudine e alla dannazione dal falso moralismo borghese di una società intollerante, cinica ed egoista, che ha disperso ogni parvenza di solidarietà e di comprensione. L’universo cittadino, nel quale Maria cerca d’integrarsi, di ritrovare un nuovo candore, abbandonandosi prima al miraggio di una tranquillità familiare con Pietro e poi alla sommessa speranza di normalità, finisce per assumere le sembianze ambigue di un organismo tentacolare e pericoloso, avvolto da un’atmosfera cupa e opprimente, abitato da figure deboli, stanche e arrese, come Pietro, o squallide e prive di scrupoli, come Ottavio (Piero Carnabuci). E alla concretezza spoglia dello spazio urbano, Amleto Palermi contrappone il lirismo dell’idillio rurale, degli spazi aperti, luminosi e rassicuranti, di un’umanità ruvida, ma sincera e ancora capace di comprensione, di rispetto e di calore. L’universo contadino, che Maria attraversa nella rassegnata consapevolezza di non potervi appartenere, non è una dimensione salvifica contrapposta alla città come luogo di perdizione, non è uno spazio liberatorio al quale poter ancora aspirare, ma un paesaggio irraggiungibile, un altrove perduto nel tempo e senza una reale consistenza, che esiste solo come proiezione mentale delle speranze della protagonista.
https://www.sentieriselvaggi.it/dvd-la-peccatrice-di-amleto-palermi/
TRAMA LA PECCATRICE
Maria, una ragazza di provincia viene sedotta e, quando si accorge di attendere un bambino, viene anche abbandonata. Piuttosto che confessare a sua madre il proprio stato, ella si allontana da casa. Il bambino non sopravvive che pochi giorni e la fanciulla è ospitata in un paese vicino, presso una brava famiglia di campagnoli dove fa da balia al loro bambino. Un giovanotto del paese dimostra serie intenzioni verso di lei ma quando viene a conoscenza del suo passato, adirato e deluso, la tratta indegnamente. La ragazza si allontana anche da questa sua nuova famiglia e, giunta in città, è facile preda di loschi individui che la spingono a fare la prostituta. La morte di una sua compagna nella casa di tolleranza in cui le stessa vive, le fa comprendere pienamente il basso livello a cui è ormai arrivata per cui trova la forza di fuggire e di lì. Incontra il suo vecchio seduttore che neppure la riconosce e, piena di amarezza, torna dalla vecchia madre che l'accoglie e la perdona.
CRITICA DI LA PECCATRICE
"'La peccatrice'è un lavoro di seria impostazione, anche se il soggetto appartiene alla categoria di quelli che attingono i motivi fondamentali del loro successo popolare agli elementi e alle situazioni molto comuni ed abusati, ma eternamente emotivi, popolarizzati da tutta una serie di romanzi e di drammi, dalla 'Signora dalle camelie' a 'Resurrezione'. Seria l'impostazione, dicevamo, perché l'intento spettacolare è onestamente raggiunto. (...) Una regia meno prolissa e manierosa sarebbe andata a vantaggio della classe del film." (Marco Moncalvi, "L'Ambrosiano". 5 settembre 1940)
CURIOSITÀ SU LA PECCATRICE
- GIRATO A ROMA NEGLI STUDI DEL CENTRO SPERIMENTALE DI CINEMATOGRAFIA.- IL FILM E' STATO PRESENTATO ALLA MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA DEL 1940.
https://www.comingsoon.it/film/la-peccatrice/25828/scheda/
La peccatrice e Il peccato di Rogelia Sanchez: due infelici odissee (1940)
“Nello stato fascista l’arte viene ad avere una funzione sociale: una funzione educatrice. Essa deve tradurre l’etica del nostro tempo. Deve dare unità di stile e grandezza di linee al vivere comune. L’arte così tornerà ad essere quello che fu nei suoi perodi più alti e in seno alle più alte civiltà: un perfetto strumento di governo spirituale”.
M. Campigli, C. Carrà, A. Funi, M. Sironi, Manifesto della pittura murale, in “La colonna”, 1933.
Il regista siciliano Amleto Palermi firma con La peccatrice (settembre 1940; 88 min) una pellicola relativamente inconsueta per i canoni della cinematografia fascista. Basandosi su un soggetto proprio, sceneggiato con l’aiuto di Luigi Chiarini, Umberto Barbaro e Francesco Pasinetti, egli racconta l’interminabile, infelice odissea di Maria (Paola Barbara) la quale, sebbene incinta, viene abbandonata al suo destino dal fidanzato Alberto (Gino Cervi). Il bimbo nasce e muore poco dopo. La giovane, fuggita di casa, dapprima viene accolta da una famiglia di contadini dove sembra ritrovare un certo equilibrio; tuttavia le insidie di un componente della famiglia la costringono a ripartire. Giunta in città si innamora di Pietro Bandelli, un giovane brillante e pieno di debiti (Vittorio De Sica) e, quando questi finisce in prigione, al colmo della disperazione si adatta a fare la prostituta in una casa chiusa gestita da un infido amico. Giunta al punto più basso della propria tragedia personale la donna trova la forza di risalire la china; ripercorre allora a ritroso le tappe del proprio cammino (la struttura circolare del racconto è la stessa che ritroveremo nel celebre Arancia meccanica, 1971, di Stanley Kubrick derivato dal romanzo omonimo, 1962, di Anthony Burgess). Dapprima ritrova Pietro che cerca di aiutarla impiegandola nella ditta del padre; però la famiglia, scoperto il passato della donna, la licenzia. In seguito la giovane reincontra la famiglia di contadini e riceve le scuse del giovane che l’aveva tormentata; ritorna nella propria città dove incrocia Alberto ed infine rientra nella casa materna dalla quale era scappata all’inizio.
Gli elementi di originalità ed audacia nella pellicola sono molteplici seppure uniti ad evidenti omaggi alla politica del regime, volti a mitigare l’eccessiva negatività del racconto e del connesso affresco sociale. Raramente la cinematografia italiana pre “neorealista” ha raccontato in modo tanto crudo le disgrazie di un personaggio la cui evidente debolezza è però incentivata da una realtà complessivamente meschina e popolata da profittatori e da figure opache. Insomma se Maria ha qualche colpa, molte di più se ne trovano nel tessuto sociale circostante e questo suona come un’implicita accusa al regime politico che in fondo non è stato capace di debellare una serie di atteggiamenti e di miserrime realtà individuali e colletttive. In tal senso il film otterrà il prevedibile plauso della critica postbellica (un po’ come accadrà al blasettiano 4 passi tra le nuvole, 1942), pronta a cercare ovunque presunte anticipazioni “neorealiste” e lavori volti a descrivere realtà degradate e problematiche.
Palermi adotta un realismo duro ed essenziale con cui tratteggia alcune perfide figure maschili che sono all’origine del dramma di Maria: il primo ipocrita fidanzato (un ottimo Cervi) che rassicura la ragazza incinta, la invita a raggiungerlo, le promette le nozze e subito dopo fugge senza addurre spiegazioni ragionevoli; nella casa dei contadini il nuovo corteggiatore, venuto a conoscenza del passato della donna, non esita a pretendere immediate prestazioni sessuali da una donna che al quel punto considera disonorata e indegna di qualunque rispetto. Infine una sorta di malavitoso irretisce la giovane e la manda a lavorare in una casa chiusa, facendone sostanzialmente una schiava. Questo quadro assai fosco è tuttavia riequilibrato mediante due squarci rasserenanti, allineati alla politica demografica e ruralista di Mussolini: la lunga parentesi nella clinica, ritratta con una fotografia luminosa e riposante all’interno di un contesto quasi documentaristico, mostra un universo sociale che si occupa in modo amorevole delle madri e dei bimbi, qualunque sia la loro origine e le traversie personali che hanno portato a quelle nascite (sull’argomento si vedano i successivi La fuggitiva ed E’ caduta una donna, 1941). Gli sceneggiatori si attengono quindi alle direttive fasciste circondando di un’aura sacrale questo mondo di madri e di neonati, unica oasi felice attraversata da Maria nella sua inesorabile discesa agli inferi. Sempre in linea con l’ideologia mussoliniana l’altro ambiente solare e positivo è quello del mondo rurale illustrato nella seconda tappa del percorso della protagonista: una pace senza tempo abita tra le mura della casa agricola mentre i contadini sono descritti con immagini anch’esse di taglio documentaristico (limitatamente al contenuto delle inquadrature, poiché il quadro complessivo è apologetico ed irreale) mentre mietono il grano, cantando. Laddove le realtà borghesi appaiono scure (immagini prevalentemente notturne), miserabili e corrotte (la realtà della casa chiusa allude ad un’alta borghesia parassitaria ed inutile), l’universo rurale, tanto lodato dal duce per la sua semplicità fattiva e per la sua fedeltà al regime, è rievocato con toni quasi fiabeschi che si ritroveranno simili nel già citato 4 passi tra le nuvole (1942, vedi). In definitiva gli autori raccontano un fosco melodramma in cui ombre e luci, egoistiche colpe e generosi slanci cercano di equilibrarsi ed infine di supportare l’ideologia prevalente che esalta la purezza di una donna-madre ed accusa l’insensibilità di una borghesia ottenebrata dall’avidità.
La pellicola, girata da Palermi con buona sensibilità e con un gusto per la recitazione incisiva e misurata, contiene una grave reticenza narrativa ed una pagina di grande bravura. La prima si situa nella comoda ellisse che evita di spiegarci perché la giovane, perso temporaneamente il secondo fidanzato (Pietro), non si spenda per seguirne le sorti (in fondo è stato arrestato per debiti, ma ha alle spalle una famiglia facoltosa; una situazione facilmente risolvibile) e non trovi di meglio che affidarsi alle attenzioni dello sciagurato malvivente che la imprigiona nella casa di tolleranza. Tanto più che Maria aveva lasciato un impiego di commessa prima di andare a vivere con Pietro e non si capisce per quale motivo non riprenda quel tipo di vita semplice, regolata da un’attività “normale”; la caduta nell’abisso appare fasulla ed immotivata, necessaria al percorso drammatico del racconto ma artificiosa quanto a realismo ed anche in riferimento alla psicologia della protagonista quale ci è stata mostrata fino a quel momento. Gli sceneggiatori sono stati incapaci di motivare quel fondamentale momento di scelta, la qual cosa mina in modo definitivo la credibilità ed il valore dell’intera pellicola. In questo senso La peccatrice è davvero un film anticipatore del “neorealismo” poiché in modo simile De Sica e Visconti costruiranno i contesti drammatici delle loro celebri pellicole su svolte narrative altrettanto forzate ed inverosimili (si veda quanto scritto a proposito di Sciuscià, Ladri di biciclette e La terra trema).
La pagina di virtuosismo cinematografico consiste invece nella lunga sequenza, girata secondo lo stile del muto, durante la quale Maria osserva, non vista, Alberto che mangia avidamente le portate del proprio pasto serale, seduto in un ristorante. Da questa lunga “soggettiva” esce un ritratto assai espressivo in cui, dalle semplici sfumature della mimica e della gestualità, si intuisce in modo inequivocabile, un carattere gretto ed egoistico (non a caso l’uomo siede solo al tavolo). Nei confronti di questo tranquillo borghese, incapace di far fronte alle proprie responsabilità, traspare il massimo disprezzo: in tal senso lo sguardo attonito ed anche disgustato di Maria si identifica con quello di Palermi ed in ultima analisi con i valori familiari e nazionali dell’ideologia fascista.
Carlo Borghesio nasce a Torino (1905). Negli anni trenta, dopo aver scritto alcune sceneggiature e aver collaborato come aiuto regista, esordisce con Due milioni per un sorriso (1939; coregia di Mario Soldati). Il peccato di Rogelia Sanchez (gennaio 1940; 90 min.) è il suo secondo film e, come La peccatrice, racconta una drammatica odissea tutta femminile. Il regista si ispira al romanzo Santa Rogelia (1926) dello scrittore spagnolo Armando Palacio Valdés (1853-1938), sceneggiato da Mario Soldati, Edgar Neville e Roberto De Ribon.
In un centro minerario nelle Asturie (luogo di nascita di Valdés) la bella Rogelia (Germana Montero) è al centro delle attenzioni di numerosi popolani. La spunta l’ostinato Massimo (Juan De Landa), un uomo manesco e semialcolizzato che finisce presto per trascurarla. Ferito da un rivale, l’uomo viene curato da Don Fernando (Rafael Rivelles), un distinto medico che si innamora della donna, senza peraltro mancarle di rispetto. L’ottuso marito, invece, montato dalle dicerie del borgo, spara al dottore e quasi lo ammazza. L’uomo viene condannato a vent’anni di lavori forzati e Rogelia cede al nuovo venuto. La coppia si trasferisce a Madrid, ha un bambino e, per evitare complicazioni, si fa passare per legalmente sposata. I nodi vengono presto al pettine e Rogelia, subito emarginata quale amante illegittima di Don Fernando, decide di abbandonare tutto. Si reca allora nella colonia penale dove Massimo sconta la sua pena, gli resta vicino e, poco alla volta, riesce a redimerlo e a farne un uomo equilibrato. Nel finale consolatorio l’uomo muore in un incidente sul lavoro (nell’eroico tentativo di salvare alcuni compagni) e Rogelia può, senza rimorsi, ritornare a Madrid da suo figlio.
La vicenda, per quanto abbastanza convenzionale, viene raccontata con accenti sicuri, tratti essenziali e buon senso dell’ambientazione da Borghesio e dai suoi collaboratori. Gli attori sono perfettamente calati nei loro ruoli, la bella colonna sonora di stampo operistico di Giovanni Fusco conferisce un alone importante e quasi solenne agli eventi mentre il taglio delle inquadrature (numerosi i primi piani capaci di indagare il tormento della protagonista) offre spesso immagini molto espressive e tutt’altro che scontate. Il tutto riesce a far dimenticare l’andamento un po’ generico e forzatamente lacrimoso degli eventi.
Analizzando invece il senso ideale del racconto, si nota come esso provenga da una realtà distante rispetto all’universo fascista, di cui condivide ben pochi valori. In tal senso la Rogelia di Borghesio è “fuori registro” almeno quanto la peccatrice di Palermi. Innanzitutto lo sguardo sulla realtà popolare delle Asturie è decisamente negativa, denunciando un mondo sociale arretrato, nonché pervaso da invidie e pregiudizi. I minatori e le donne del villaggio offrono un quadro disperante di violenze e facili brutalità, spesso innescate dall’alcolismo mentre semplici pettegolezzi si trasformano in nefaste certezze a causa della stupidità dei personaggi. Di contro il medico che viene dalla capitale, un signore distinto e colto, viene descritto come persona sensibile e capace di aiutare la misera popolazione. Sarà lui a porre in salvo Rogelia, a portarla lontano da quella terra arretrata e infine a renderla madre felice. Le realtà cittadine appaiono dunque certamente migliori di quelle degli umili borghi minerari. In seguito però la donna non riesce a sostenere le critiche e il conformismo sociale che regolano comunque anche la vita di una metropoli come Madrid e preferirà sacrificarsi per cercare di migliorare l’infelice esistenza del brutale Massimo.
Come si nota siamo quasi agli antipodi del populismo fascista che, in genere, tende a santificare i piccoli villaggi rurali (o minerari) e a criticare aspramente l’ “imbelle” e colta borghesia media (per la verità, come si é detto, anche Valdés critica la borghesia madrilena che condanna, senza appello, Rogelia). In ogni caso il regime poteva ben tollerare un film come questo in quanto, innanzitutto, parlava di una realtà “estera” (spagnola) e inoltre salvava il valore supremo della maternità nell’artificioso finale (il ritorno della madre nella casa del figlio che la attende da lungo tempo).
Insomma Il peccato di Rogelia Sanchez, con la propria evidente estraneità al contesto italiano, rivela, senza saperlo, l’artefatto populismo che attraversa in modo abbastanza omogeneo il cinema di regime; non a caso il primo titolo doveva essere l’esplicito Donne di Spagna, come a dire che il racconto era privo di relazione con l’Italia di Mussolini; anche il titolo definitivo conferma comunque il carattere “esotico” della pellicola - girata tra l’altro in due versioni, una per la nostra penisola e l’altra per la penisola iberica - e la sottintesa lontananza dell’odissea di Rogelia dalle “consuetudini filmiche” del mondo italiano. In quest’ultimo abitualmente accadeva il contrario ossia una brava fanciulla veniva “rovinata” da un borghese senza scrupoli e salvata dal buon cuore di un operaio o, meglio ancora, di un modesto impiegato.
Il cinema fascista doveva soprattutto elogiare e consolare gli strati più umili e la piccola borghesia cittadina - ovvero la sua base di consenso - tanto più che erano soprattutto queste categorie sociali ad affollare le sale cinematografiche.
http://www.giusepperausa.it/la_peccatrice.html