Quantcast
Channel: El Cine Italiano
Viewing all 514 articles
Browse latest View live

Viaggio segreto - Roberto Andò (2006)

$
0
0

TITULO ORIGINAL Viaggio segreto
AÑO 2006
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACION 107 min.
DIRECCION Roberto Andò
GUION Roberto Andò, Salvatore Marcarelli (Novela: Josephine Hart)
MUSICA Marco Betta
FOTOGRAFIA Maurizio Calvesi
REPARTO Alessio Boni, Donatella Finocchiaro, Valeria Solarino, Claudia Gerini, Marco Baliani, Emir Kusturica, Roberto Herlitzka, Giselda Volodi, Fausto Russo Alesi
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Rodeo Drive / Medusa Film / Manigolda Film
GENERO Drama

SINOPSIS Tras ser testigos del asesinato de su madre hace treinta años, un hombre y su hermana luchan en el día a día de los desafíos de la vida adulta. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

Subtítulos (Español)


Si potrebbe anche fare un gioco di parole con un altro bel film e dire che si tratta di un "Viaggio segreto, nelle Vite degli altri" e per continuare il gioco con il film di Sorrentino, un "Viaggio segreto, nelle Vite degli altri, attraverso Le conseguenze dell’amore".
Dice lo stesso Roberto Andò: "Mi interessava la storia di un uomo che ritrova la capacità di emozionarsi. Il "VIAGGIO"è un ritorno alle emozioni".
E’ un film che dichiaratamente cerca di dare rappresentazione alle emozioni, di dar loro nomi e immagini, coinvolgendoci nel Viaggio dei protagonisti dentro di esse, cercando anche di indurci ad empatizzare, a commuoverci, a turbarci, per quello che lui stesso descrive come uno struggente tentativo di sopravvivere ad un dolore mentale.
"Le intense passioni ci distruggono la vita nello stesso tempo in cui ce ne svelano la plenitudine e la bellezza. (Yeats)…. Questa frase che uno dei personaggi dirà ad un certo punto del film, mi ricorda molto una frase di Meltzer: "La mente umana nasce impreparata a viere emozioni, passioni e sentimenti e occorre un’intera vita per imparare a non farsi travolgere"
Il protagonista del film, uno psicoanalista, non è certo immune da questa fatica. 
Lo vediamo all’inizio che si muove nella sua collezione di acquari e questa immagine è da subito la descrizione del suo rapporto con il suo mondo interno: un mondo muto, "sbacqueo", dove le emozioni, rese innoque come pesci multicolori, vengono nutrite quel tanto che basta per muoversi dentro un piccolo spazio contenibile.
Il VIAGGIO appunto che si troverà a compiere, sarà un viaggio non solo di RICOSTRUZIONI, come dice il titolo del romanzo di Josephine Hart da cui è tratto (la stessa de "Il Danno" da cui Louis Malle ha tratto a sua volta un film), e di recupero dei ricodi di un trauma, ma sarà un viaggio di "alfabettizzazione" delle emozioni, di recupero di un contatto con esse, attraverso anche la scoperta di un legame emotivo nuovo, che permetterà alle passioni che travolgono e uccidono, di venire convertite in sentimenti che arrichiscono di possibilità la vita.
E’ come se l’acquario si rompesse e tutti i personaggi potessero riprendere a muoversi verso nuove traiettorie e nuove storie, in quel mare aperto in cui alla fine potrà nuovamente tuffarsi.
Attraverso il film, soprattutto attraverso le sue immagini e l’atmosfera sospesa e non risolta, anche noi entriamo in contatto con immagini, parole, situazioni, atmosfere, che prendono vita e ci parlano di una storia passata che è anche e soprattutto una storia presente, di parti uccise che tornano pian piano a prendere vita. Quello che crea Andò con la costruzione del ritmo e dell’atmosfera del film è il racconto per immagini, di una trasformazione interiore. 
Il film si apre su una casa abbandonata, non più abitata, vedremo che è ferma su un’immagine, una scena, l’immagine di una coppia che non sappiamo ben decifrare. Tutto è lento all’inizio, come è lento e pesante il tempo della depressione, il protagonista, attraverso i cui ricordi anche noi vediamo i frammenti del suo mondo interno, è quasi catatonico, come se una parte di lui fosse emotivamente altrove. Un po’ alla volta, frammento dopo frammento, quella scena iniziale e i suoi personaggi, cominciano ad avere un senso, ad arricchirsi di particolari, ad avere una storia. Contemporaneamente il protagonista cambia espressione, cambia i suoi gesti, comportamenti, si arricchisce lui stesso di emozioni e di storia. Questo "eterno ritorno" sulla scena del trauma è accompagnato e sottolineato da una musica che comincia, prepara la melodia e poi si interrompe ogni volta, come un’overture, un’inizio, che non riesce mai a trovare le note per continuare.
Non c’è nel film un passato che meccanicamente deve essere recuperato, c’è invece un’interazione continua tra passato e presente, tra personaggi del passato (oggetti interni) e personaggi del presente (relazioni attuali). Questa sovrapposizione continua, questa assenza di separazione netta, questa mancanza di giudizio, inteso come atto conclusivo, questa lenta assunzione di responsabilità del protagonista, sono secondo me la cosa più bella e più commovente che Andò riesce a restituirci. 
Sarà l’artista Kusturiza (rappresentante in questo caso del regista stesso) ad avere questa funzione "visualizzante", "rappresentativa" che mostrerà (con la Mostra conclusiva) attraverso il suo sguardo, che è comunque uno sguardo amoroso e non morboso, il difficile lavoro di rappresentazione e distanziamento da una storia che non tiene più in ostaggio i suoi personaggi, ma li libera verso altre storie.
Andò ci mostra un’altra alternaza: quella tra oblio e memoria, illustrata anche dalle diverse figure dei due fratelli profondamente e necessariamente legati tra loro. Quando Leo torna in Sicilia e gira da solo per la casa della sua infanzia, ancora tutto è fermo, morto, impolverato come il suo mondo interno. Un po’ alla volta entrano in scena i personaggi e non c’è distinzione tra passato e presente. In una scena che ben rappresenta il materializzarsi dei ricordi,vediamo Leo aggirarsi per le stanze e sua madre passargli accanto come se lo stesse facendo ora. Questo riaffiorare emotivo è troppo per il Leo che vuole dimenticare. Gli manca il respiro, è uscito dalla placenta protettiva, dall’acquario dentro cui stava e come il neonato che viene alla luce, deve trovare il ritmo del proprio respiro. Leo non vuole che tutto torni vivo, non vuole che tutto si rianimi di emozione per dover poi ri-sentire il dolore e la perdita, i suoi attacchi d’asma e di panico sono un’improvviso eccesso di Emozione che toglie il respiro.
Accanto alla coppia di adulti che vediamo nudi nella prima scena, compare subito un’altra coppia: due bambini seduti accanto, in una spiaggia, a loro volta "guardati" da qualcuno. Una foto importante che sarà come un simbolo per tutto il film e che passerà di mano in mano, di sguardo in sguardo.
Una foto usata dal regista come traccia di qualcosa di vivo, un po’ come la foto in cui scruta il replicante di Blade runner. 
Quei bambini sono stati guardati dai genitori che, un giorno lontano e ancora presente, hanno scattato la foto. (Ce lo mostra Andò rovesciando, come il cinema può fare, il punto di vista della foto).
Quegli stessi bambini fermati insieme da quello scatto lontano, riusciranno a "rianimarsi" e ad allontanarsi piano piano… (Di nuovo ce lo mostra il regista in uno dei momenti più poetici del film)..
A quella e alle altre foto, così come alle belle immagini del film "è affidata la speciale missione di essere reperti di una materia singolare in cui posso specchiandomi riconoscere il mondo" (Andò), un po’ come fa appunto il cinema. 
Che rapporto c’è allora tra quelle due coppie?
L’amore degli uni e quello degli altri è separato da un pesante velo che ne impedisce uno sguardo chiaro.
E’ sempre così l’amore dei genitori per i figli, o l’odio naturalmente, o è così sempre l’amore e l’odio di per sé?
Andò fa un trattato mitico sull’amore tra fratelli, sull’amore genitoriale e sul rapporto edipico. 
Quello tra i due fratelli è un legame intimo e complesso tra due persone che sono rimaste sole, che si danno la mano e camminano insieme come pollicino e i suoi fratelli sperduti nel bosco. Il VIAGGIO SEGRETO, è indubbiamente anche il loro viaggio. Chi ha condiviso un grande dolore, una grande paura, può capire il legame che li unisce e che li porterà, alla fine del film, ad un dolcissimo congedo che restituirà ad entrambi nuove possibilità di vita. La loro speciale DANZA, è un poetico segno di questo appoggiarsi reciprogo, di un accordare i passi l’uno con l’altro, di un cercare un ritmo protettivo e un legame armonioso che tenga lontana la rottura e la perdita. E’ la loro forma speciale per ricreare un legame e una bellezza che hanno conosciuto un tempo e che sono andati improvvisamente in pezzi.
Memoria (Leo) e oblio (Ale) servono l’uno all’altra, si susseguono incessantemente come il ritmo del cuore, per permettere di sopravvivere e per fondare strati di conoscenza possibile su cui costruire la propria biografia.

("Com’erano i bambini""Innocenti come lo sono sempre i bambini"….)

Andò, parlando del suo film, esclude a priori l’incesto tra i due fratelli, non è questo che gli interessa raccontare. Proporrei lo stesso criterio per la "scena primaria", lasciando da parte quindi l’idea che l’OSCENITA’ sia nella sessualità o nell’atto concreto della scena primaria. Penso sia altro che rimane "fuori scena" e quindi "osceno". 
In questo il film di Andò rivisita appunto in termini nuovi e creativi il tema della sessualità e della scena primaria in particolare.
Da un punto di vista strettamente mentale, come potremo anche leggere la scena primaria? La scena primaria è un pensiero, un’idea, un’emozione che cercano di essere accolte e contenute da una Mente.
Cos’è quella scena per i due bambini nel film? La rappresentazione di qualcosa di grande e di indecifrabile, di ambiguo, che li spaventa che li fa sentire piccoli davanti ad un processo mentale non elaborabile.
E’ una scena CALDA che la bambina letteralmente FREDDA con un colpo di fucile. Quella scena calda si ripropone tale e quale molte volte durante il film, in cerca di elaborazione, anche per noi spettattori, sicuramente turbati dalla forza cruda delle immagini che Andò ha voluto significativamente e poeticamente mostrare, in cerca di rappresentazione mentale, anche per noi, in cerca di una nuova, possibile, "scena primaria" che si compia e giunga a conclusione, fornendoci il modello di qualcosa di fecondo e vitale.
La possibilità di rivivere in modo digeribile quell’esperienza, è il lavoro successivo che spetta ai bambini-adulti. Poter uscire in un certo senso dalla condizione di "bambini" che non capiscono o subiscono per diventare SOGGETTI dell’esperienza.
Il dolore più struggente è il loro SMARRIMENTO di fronte a qualcosa che non sanno leggere e che non sono aiutati a leggere.
Attendono su quelle due sedie di poter raccontare la loro storia, attendono che la loro storia venga ascoltata, ma solo dopo tanto tempo potranno raccontare, non ciò che gli è stato detto di dire, ma il proprio racconto.
Per quanto il padre, che si assume la responsabilità degli eventi, volesse proteggerli, per quanto il suo sacrificio sia un grande gesto d’amore verso i figli, non è stato comunque un aiuto a comprendere.
L’omertà, forse dice Andò, non aiuta a crescere.
Il film di Andò ci lascia con una scena solare di speranza che la propria vita, la propria storia, si possa comunque faticosamente ri-sognare.
Antonella Faganello
---
Nel film del regista palermitano, liberamente tratto dal romanzo Ricostruzioni di Josephine Hart, vengono sviluppati molti dei temi affrontati dai film in programma in questa prima edizione di Cinema. Festa internazionale di Roma. Troviamo infatti il rapporto tra padre e figlio (Aria Salata di Angelini, Dopo il matrimonio di Bier, Bes Vakit di Erdem, Fu zi di Tam), l’essere costretti a fare i conti con i fantasmi di un passato doloroso (La sconosciuta di Tornatore, Nacido y criado di Trapero) e un viaggio nella propria terra di origine (Le voyage en Arménie di Guédiguian, Salvatore - questa è la vita di Cugno).
Il viaggio segreto è quello che compie Leonardo Ferri (Alessio Boni), psicanalista quarantenne, nel suo paese di origine in Sicilia. Lì quando aveva 13 anni, assieme alla sorella minore, è stato protagonista di un dramma che ha per sempre traumatizzato la sua vita: i due bambini hanno assistito all’uccisione della madre (Claudia Gerini) nella loro villa nella campagna siracusana, ad opera, stando ai fatti, del loro padre (Marco Baliani). A spingerlo a ritornare in Sicilia è la lettera inviatagli dal parroco del paese (Roberto Herlitzka) che lo informa che qualcuno è interessato a comprare la casa della sua infanzia. Il possibile acquirente non è altro che un artista serbo (Emir Kusturica), fidanzato della sorella di Leonardo, Ale (Valeria Solarino), modella e aspirante attrice che vive a Roma nello stesso palazzo del fratello. Il legame che si è instaurato tra il fratello e la sorella, in seguito all’abbandono della loro terra d’origine dopo la tragedia familiare, è un legame intimo, ambiguo, ai limiti dell’incestuoso. Leonardo intraprende quindi il viaggio per evitare che il doloroso passato possa tornare ad insidiare la vita della sorella. Il padre, incolpato e accusato dell’omicidio infatti, prima di lasciare i figli, ha chiesto loro di dimenticare per sempre (ma solo la ragazza pare esserci riuscita) e ha stretto con il figlio un patto segreto per proteggere la sorella per tutta la vita.
Il viaggio dell’uomo è l’occasione per immergersi dentro se stesso e nel segreto e nell’intimità della sua famiglia. Attraverso i flashback degli incubi di Leonardo, lo spettatore ricostruisce il delitto ed il movente che lo ha generato. In una Sicilia fatta di contraddizioni, dove si respira allo stesso tempo la bellezza per la vita e la natura e un’aria di morte, orrore civile e decadenza, il protagonista può innescare un processo di ricostruzione interiore per guarire e riappropriarsi della propria vita. Elemento fondamentale per questo processo di rinascita è l’incontro con Anna (Donatella Finocchiaro), responsabile della vendita della villa, donna solare e generosa, che riuscirà ad aiutare quello psicanalista incapace di parlare dei propri problemi.
Dopo la resa dei conti con il proprio passato, dopo essersi tolto dalle spalle il peso enorme che il padre gli aveva addossato, Leonardo potrà andare avanti nella sua vita attraverso una separazione dalla sorella, dolorosa quanto necessaria per un’effettiva ricostruzione. Non prima però di un ultimo ballo straziante con lei, sui passi della danza erotica dei genitori, “scena primaria” freudiana stampata per sempre nella mente dei due bambini.
Per raccontare le diverse strade possibili della memoria e della rimozione, e per riflettere su coscienza e inconscio e sull’alterata ricostruzione personale di un passato altrimenti insostenibile, Andò mette in scena un doloroso noir psicologico, ricco di mistero e allusione, con una pomposità forse eccessiva e uno sguardo un po’ troppo voyeuristico, e dove lo scavare nella psiche dei protagonisti passa però in secondo piano rispetto ad un simbolismo che non aiuta lo spettatore a farsi coinvolgere dalla vicenda.
Giovanni Santoro


"Viaggio segreto" sembra vittima dello stesso male che immobilizza i suoi personaggi. Una storia 'lontana', in potenza, può fare più male del proprio vissuto personale. Ma questo non avviene e resta solo, come nella storia stessa, una coltre reiterata di silenzio

Non sa bene che direzione prendere il Viaggio segreto di Andò. Eternamente sospeso tra più strade - scavo psicologico, mistero giallo a indizi, dramma familiare - non ne imbocca nessuna. Perché i personaggi sono senza spessore: non per mancanza di capacità interpretative ma per scelta o necessità narrativa. Perché la rivelazione finale è inequivocabilmente anticipata. Perché eventi tragici non lasciano segni. Appesantito e senza angoscia, il film percorre case senz'anima, insiste sul gelo dei volti ma anche sull'ostentazione della nudità. Alcuni spunti sono interessanti e regalano un sussulto minimo - l'angoscia palpabile nel viaggio in treno di Leonardo (Alessio Boni), la vegetazione silenziosa a sfondo dei luoghi della memoria, la fissità dello sguardo che tutto cela. Viaggio segreto sembra vittima dello stesso male che immobilizza i suoi personaggi. Forse questa poteva essere la chiave della sua grandezza. Ma diventa un gap tra il film e lo spettatore, vuoto di empatia e muto di emozioni. Vero che la storia è stra-ordinaria. Vero anche, però, che bisogna rivestirsi di strati di lastre di ghiaccio per annullare completamente la possibile partecipazione a certi totalizzanti dolori. E in effetti, così sono i due fratelli: Leo con i suoi pesci e i suoi acquari, Ale con una voce che protegge sia lei che gli altri da se stessa. Se Andò voleva giocare su oblìo, chiusura, indicibilità, non si capisce allora il continuo, morboso mostrare i rapporti tra i genitori; se il tema di fondo era (anche) l'incesto, la cosa si complica di più. Infatti, sarebbe degna di nota la soluzione che lascia a parte il rapporto tra i due fratelli, scegliendo di non mostrare: perché quello che si vede può essere vero o falso, e nessuno, nessuno può andare oltre la superficie visibile in questi casi. Sacrosanto, coerente, giusto. Ma se per tutto l'arco del film ogni segno è polisemico (quindi, in definitiva, tende a non significare), il finale è talmente 'aperto' alle interpretazioni da risultare appiccicato di forza al resto dell'opera, quasi immotivato. Un senso doveva essere almeno sospeso; mancando le condizioni minime, il tutto - purtroppo - si disperde. Il filo della memoria emerge a inserti, puntuale, congiungendo segmenti ordinati e sequenziali, fin troppo classicamente. Il resto si perde spesso in inquadrature e profondità televisive. Una storia 'lontana', in potenza, può fare più male del proprio vissuto personale. Questo qui non avviene, e resta solo, come nella storia stessa, una coltre reiterata di silenzio.
Annarita Guidi

A.C.A.B. All Cops Are Bastards - Stefano Sollima (2012)

$
0
0

TITULO ORIGINAL A.C.A.B.: All Cops Are Bastards
AÑO 2012
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español e inglés (Separados)
DURACION 110 min.
DIRECCION Stefano Sollima
GUION Daniele Cesarano, Barbara Petronio, Leonardo Valenti (Libro: Carlo Bonini)
MUSICA Mokadelic
FOTOGRAFIA Paolo Carnera
PREMIOS 6 Nominaciones David di Donatello, incluyendo mejor ópera prima
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Cattleya / Babe Film / Rai Cinema
GENERO Drama | Crimen

SINOPSIS Cobra, Negro y Mazinga, son tres policías en contacto diario con la violencia. Violentos, fanfarrones, solidarios entre sí, reservados, con un sentido ético difícilmente descifrable. Así son los policías antidisturbios de ACAB - All Cops Are Bastards. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

Subtítulos (Español)

Subtítulos (Inglés)


Lo prometido es deuda y comenzamos fuerte agosto con este film que utiliza como título un viejo eslogan inglés, de los años 60, que por desgracia ha atravesado medio siglo con un éxito si no creciente al menos estable. La frase anuncia el color: no se trata de una comedia romántica y aunque haya parejas, incluso tríos y cuartetos, no son relaciones de amor sino de orden público, porra, escudo y casco antidisturbios.
Primer excelente, excesivo y espectacular trabajo del italiano Stefano Sollima. A algunos de vosotros os sonará este apellido de la historia del cine por su padre, Sergio, especialista del género del spaghetti western de los 60 y 70 pero, sobre todo, por la genial serie de televisión, Sandokán (que, por una vez, superó la novela original de Emilio Salgari) y convirtió al corsario negro en unos de los mitos de mediados de los 70.
El director adapta la novela de Carlo Bonini, sobre los excesos de tres históricos miembros de esta policía tan especial, Cobra, Negro y Mazinga, y la adaptación a su particular mundo de violencia, exceso e ira del recién llegado al cuerpo, Adriano. La película cuenta con tres de los mejores actores italianos actuales (Pierfrancesco Favino, Filippo Nigro y Marco Giallini) impresionantes, en unos papeles que sabían que desde el primer minuto iban a ser odiados por la totalidad de los espectadores.
Hace falta mucho, pero que mucho valor, para rodar una película que podría rozar la defensa del fascismo, la apología de la violencia, la defensa del “final justifica los medios” y la comprensión de los excesos de las fuerzas de seguridad del estado italiano. Y además se necesita mucha inteligencia para conseguir que el espectador disfrute de una película en la que detesta a todos sus protagonistas. Stefano Sollima lo consigue (como ya lo hizo en la serie de televisión Romanzo Criminale) y encima se ha llevado varios premios nacionales e internacionales.
El secreto radica en que esta película, que se recibe como un golpe en la boca del estómago, es al mismo tiempo una de las radiografías más lúcidas, frías e inteligentes de la, por suerte, finalizada época Berlusconi, y también una sobria reflexión sobre uno de los males que afecta a muchos de los detentores del poder (para encontrar ejemplos no hace falta mirar muy lejos) el de creerse por encima de todo y de todos. O la mutación de un poder, legítimo y otorgado por el pueblo, que se convierte en ilegítimo, por sobrepasar los límites y transformarse en una dictadura que actúa contra el propio pueblo.
Carlos Loureda
---
Explosiva película de género sobre unos policías que se exceden en sus funciones en una Italia inaudita en el cine.

Violentos, fanfarrones, solidarios entre sí, reservados, con un sentido ético difícilmente descifrable. Así son los policías antidisturbios de A.C.A.B (All Cops Are Bastards) [+], esperadísimo debut en la gran pantalla de Stefano Sollima. Una película de género que, a partir de la novela homónima del periodista Carlo Bonini, basada en hechos reales, adopta el punto de vista de este controvertido grupo de agentes. Odiados por los ultras y los manifestantes más exaltados y observados con desconfianza por los ciudadanos de a pie a causa del uso desinhibido de la violencia.
Es precisamente en la delgada línea que separa la legítima defensa de la violencia gratuita donde se concentra la película, evitando, al menos en apariencia, tomar una posición determinada. La cámara sigue a los tres protagonistas, Cobra, Negro y Mazinga, encarnados por Pierfrancesco Favino, Filippo Nigro y Marco Giallini, entre enfrentamientos en el estadio de fútbol, desalojos de asentamientos gitanos y casas ocupadas y ajustes de cuentas, pero también en momentos más íntimos y asuntos privados a veces dramáticos. La impresión final es que la agresividad es una simple respuesta a una agresividad igualmente fuerte, siguiendo una lógica de compresión-explosión. Aunque la realidad, ya se sabe, es bastante más compleja.
"Una historia de hombres y del odio que impregna la sociedad en que vivimos" es la declaración de intenciones de Sollima, director de la popular serie de televisión Romanzo criminale, muy a gusto en la representación pop de la violencia, acompañada constantemente por música rock y un estilo visual muy realista, con intensos primeros planos y bruscos movimientos de cámara, con una dimensión física muy acentuada. Una película que, como Diaz [+], de Daniele Vicari, está destinada a promover un debate encendido ya que los protagonistas son los mismos del trágico G8 de Génova, del cual parecen admitir su culpa. Se suceden en la pantalla algunos de los más graves episodios de la historia reciente italiana, desde el asesinato del inspector Filippo Raciti hasta el del hincha Gabriele Sandri.
A.C.A.B (All Cops Are Bastards), una producción de Cattleya con Rai Cinema y la francesa Babe Films, fue distribuida en Italia por 01 y ha ganado este año los premios Nastro de plata al mejor actor (Pierfrancesco Favino) y al mejor actor de reparto (Marco Giallini).
Vittoria Scarpa
---
‘A.C.A.B.’ (All Cops Are Bastards) es un film sobre el poder y, principalmente -como el título insinúa-, sobre el abuso de autoridad. Sin embargo, esta película italiana tiene como gran acierto su capacidad de no simplificar las cosas cayendo solamente en un juicio moralista, en el blanco o negro. La crudeza del retrato que hace el film sobre ciertos aspectos de la sociedad italiana es impactante y con una sensación de realismo asombrosa. El espectador argentino, culturalmente similar en muchos sentidos, seguramente se sentirá bastante identificado.
Otro acierto del film es que complejiza más el relato con, al menos, dos puntos de vista bien diferenciados, que al principio se acercan para luego ir separándose cada vez más. Por un lado “Cobra”, el “Negro”, Carletto y Mazinga, y por otro el recién ingresado a la fuerza, Adriano. El contrapunto que propone la película y las interacciones entre estos enfoques es una interesante reflexión sobre la imposibilidad de recambio cuando ciertos valores están bien arraigados, independientemente de lo correcto o incorrecto, es una cuestión de comportamiento humano, de comportamiento de grupos. La mirada del afuera, la mirada social del policía, es otro de los puntos fuertes de la película, así como el tema de la discriminación, la inmigración ilegal, la justicia social y la actuación del estado.
Si bien la violencia de sus imágenes parecen críticas en sí mismas, ‘A.C.A.B.’ contextualiza el comportamiento de este grupo de policías. No utiliza el contexto como excusa, ni como justificación, pero sí como atenuante. El bajo sueldo por el que arriesgan sus vidas, el ambiente de violencia constante en el que desarrollan su actividad y la poca popularidad social, en parte bien ganada, en parte generada por el Estado, en parte heredada de otros tiempos y en parte traspasada de otros sectores culturales (el caso del futbol es el más claro ejemplo). Además, se encarga de dejar en claro que los policías también son humanos, con problemas familiares que, incluso, se agravan por la permanente ausencia en el hogar.
‘A.C.A.B.’ perturba. Incomoda al espectador al empatarlo con un grupo de personajes, de policías, que no son los típicos policías corruptos del cine, aquellos que asesinan por dinero o están involucrados con el narcotráfico. Estos “bastardos” hacen justicia por mano propia, se cubren unos a otros sin importar lo que hayan hecho y abusan de su autoridad, es verdad, pero sus “rivales” no son bebés de pecho.
Gonzalo Dujmovic


Tal vez pueda parecer oportunista el hacer una reseña sobre una película como esta, teniendo en cuenta la(s) reciente(s) polémica(s) sobre la actuación de la policía, concretamente los antidisturbios, en diversas manifestaciones que han ocurrido últimamente en nuestro país. Pero también se puede considerar como una forma excelente de entender el porqué y el cómo se han producido dichas actuaciones. No importa que la película sea de origen italiano, la esencia de la historia se puede (y debe) aplicar a cualquier país, no solo europeo. El director, Stefano Sollima, junto con el equipo de guionistas han dado un paso adelante, arriesgado y muy controvertido, para contarnos el origen y el trasfondo de las imágenes que últimamente aparecen en nuestras pantallas: policías cargando contra todo aquello que se mueve, el uso injustificable (¿o no?) de la violencia contra manifestantes pacíficos (¿o no?) y, sobre todo, quiénes son los miembros de esos cuerpos y qué les ha llevado a dedicar su vida a una tarea tan dudosa como ingrata.
“Todos los Policías son Unos Bastardos”, por utilizar una traducción políticamente correcta, es una expresión que se remonta a los años 60 como parte de un eslogan acuñado por los mineros británicos para protestar contra las fuerzas del orden. Más adelante ha ido siendo aprovechada por todo tipo de movimientos urbanos, generalmente de izquierdas, y grupos musicales como parte de sus discursos políticos. Y uno de los países en los que esta expresión ha sido más utilizada es Italia, donde transcurre la película, y donde se han producido algunos de los enfrentamientos más virulentos y trágicos de los últimos años: recordemos las protestas en la reunión del G-20 en Génova que acabaron con la muerte del joven Carlo Guliani y el posterior asalto a la Escuela Díaz por parte de los antidisturbios, los continuos enfrentamientos entre los hinchas radicales de fútbol (en este caso ha habido bajas en ambos bandos) con los citados
policías….

ARGUMENTO

Cobra, Negro, Mazinga, y Carletto son algunos de los nombres de la mítica Unidad de Antidisturbios protagonista de la historia. Una Unidad en la que, desde los primeros planos, comprobamos que están unidos como hermanos de sangre, no solo por ideales políticos o sociales (aquí no hay ambages: todos se declaran orgullosos de ser de extrema derecha, xenófobos y partidarios de pegar primero y preguntar después) sino especialmente porque forman parte de un Equipo, de un Grupo unido hasta las últimas consecuencias. La película nos muestra su día a día en una Roma oscura y caótica en la que nuestros protagonistas ejecutan su trabajo con una eficacia más cerca de las doctrinas militares que la aburrida rutina policial a la que nos tienen acostumbradas las películas y/o series sobre policías. Al grupo se incorpora Adriano, que se convierte en el eje sobre el que gira la historia; un joven agobiado por las deudas y con una familia rota y arruinada, que actúa como contrapeso a las ideas del resto del grupo. Un joven con ganas de hacer lo correcto, de hacer su trabajo, pero que no sabe si lo que busca es hacer justicia o utilizar la justicia como vía de escape a sus propios problemas. Este también hará que los miembros más veteranos se vean reflejados en él, en alguien que les recuerda de forma dolorosa sus inicios, sus ambiciones, y la decadencia exponencial de los mismos.

REPARTO

Uno de los puntos fuertes de la película son, sin ninguna duda, los actores: Pierfrancesco Favino, Filipo Nigro y, muy especialmente, Marco Giallini afrontan con valentía, y unas tablas admirables, los papeles de 3 personajes que vas a odiar desde el minuto uno. No en vano nos encontramos ante tres de los mejores actores italianos del momento, y se nota en cada gesto y en cada matiz. El debutante Domenico Diele se defiende igual de bien en el rol del novato, al igual que el resto de los actores secundarios (mención especial para Roberta Spagnuolo en el papel de mujer del jefe del grupo).

LA PELÍCULA

Estos son los mimbres con los que el equipo de guionistas y el director de ACAB: All Cops Are Bastards (muy conocido por la estupenda serie Romanzo Criminale), y apoyado en el libro de Carlo Bonini que denuncia y recoge estos, y otros, hechos, para trasladar a la gran pantalla una parte de nuestra realidad cotidiana; una realidad que no nos gusta, una realidad fea, pero sobre todo una realidad que no comprendemos. Dichos hechos están presentes en la película, narrados de forma tangencial, así como otros que no conocíamos y que nos enseñan una parte de la historia reciente de nuestro (desconocido) vecino, Italia. Pero la película no se limita a mostrarnos el trabajo de este grupo, sus misiones y el resultado de ellas. De forma hábil, y muy bien secuenciada, establece una serie de paralelismo entre sus (caóticas) vidas privadas y sus actuaciones en la calle. Hijos que se alistan en movimientos neonazis, situaciones de pareja insostenibles, problemas familiares y económicos, problemas que al no poder lidiar con ellos y ser conscientes de que sólo van a ir a peor acaban explicando ese porqué de la excesiva violencia que utilizan para establecer el orden.

CONCLUSIÓN

Al igual que la reciente, e imprescindible, Polisse, ACAB: All Cops Are Bastards se nos revela como un documento necesario y casi obligatorio para entender una parte de lo que acontece día a día en nuestra sociedad. No toma partido, deja que la historia hable por si sola. No es demagógica, es ilustrativa. No es sólo una película, es una lección de honestidad y veracidad. Si no fuera por la estética cuidadísima (a veces parece un videoclip) y una banda sonora potente como pocas (Kasabian, White Stripes, The Clash…), podríamos estar hablando de un documental extremadamente bien hecho. Y ese es el verdadero mérito del director, conseguir que la realidad se transforme en ficción, o al revés, que lo que en un principio parece que no puede ser verdad, que es el producto de una declaración de intenciones políticas se convierte en un retrato crudo y veraz de la sociedad que nos ha tocado vivir.
Elniniodecristal

Italian Movies - Matteo Pellegrini (2012)

$
0
0

TITULO ORIGINAL Italian Movies
AÑO 2012
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Inglés (Separados)
DURACION 100 min.
DIRECCION Matteo Pellegrini
GUION Giovanna Mori, Matteo Pellegrini, Paolo Rossi
MUSICA Mario Mariani
FOTOGRAFIA Umberto Manente
REPARTO Filippo Timi, Aleksey Guskov, Neil D'Souza, Michele Venitucci, Eriq Ebouaney, Melanie Gerren, Anita Kravos, Michele Di Mauro
PRODUCTORA Indiana Production Company / Lumiq Studios / Trikita Entertainment / Merenda Film / Effetti Digitali Italiani (EDI)
GENERO Comedia | Inmigración

SINOPSIS Empleados de la limpieza, emigrantes de todo el mundo, trabajan durante el turno de noche en los escenarios de un estudio de sonido donde las telenovelas italianas son filmadas. En cierta ocasión, hallan abierta una de las puertas que conducen a los cuartos donde las cámaras y el equipo de rodaje son almacenados. Y el indio Dilip da con una idea: filmar la boda de su amigo como regalo de ésta. Muy pronto esta idea se convierte en la segunda fuente de ingresos para todo el equipo de limpiadores del turno de noche, cambiando sus vidas para siempre. Tras muchas ceremonias y noches de invitados, deciden usar los escenarios de sonido vacíos durante las noches para filmar historias reales sobre gente real. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

Subtítulos (Inglés)


“Italian Movies” è una deliziosa commedia corale e multietnica che riesce a trattare con leggerezza e originalità temi come l’immigrazione e il lavoro, esplorandone a fondo il lato umano. Il film, diretto da Matteo Pellegrini, racconta le avventure di gruppo di addetti alla pulizia di uno studio televisivo torinese che decide di utilizzare la struttura durante la notte per avviare una casa di produzione “low cost”.
Ottima la sceneggiatura di Giovanna Mori, Matteo Pellegrino e Paolo Rossi, l’alchimia tra gli attori e la scelta di distanziarsi anche a livello visivo dal “look and feel” standardizzato delle commedie nazionali. Inoltre, uno degli aspetti più interessanti di questo film è che, a differenza di gran parte della nostra produzione cine-televisiva, propone un ritratto della nuova Italia e dei nuovi italiani estremamente attuale.
In tempo di crisi, molti si sentono costretti a compiere scelte che non avrebbero compiuto altrimenti. L’asprezza delle circostanze può spingere le persone più diverse ad accettare supinamente il ruolo di ultimo anello della catena alimentare, sia che siano nati in Italia, sia che vi siano arrivati da lontano pieni di sogni e di speranze. Potrebbe accadere di peggio, quindi, tanto vale non tentare e sopportare il male conosciuto: questo senso di de-valorizzazione – che genera solo schiavitù e sfruttamento – può essere sconfitto nel momento in cui si riesce a intravedere una via d’uscita. Non importa quanto questa sia folle, l’importante è trovare il coraggio di volerla raggiungere anche quando alle difficoltà materiali si aggiungono ostacoli di natura psicologica. Nel superamento di questo ostacolo è fondamentale il ruolo del gruppo ed è in questo particolare che il “sogno italiano” proposto da Pellegrini si differenzia da quello americano, vissuto più in solitudine.
Al Festival del Film di Roma, l’attrice Anita Kravos mi ha parlato del suo ruolo in “Italian Movies” e del personaggio che interpreta in “E la chiamano estate” di Paolo Franchi. Guarda il video per scoprire che ha detto…
Laura Nuti
---
Evidente metafora del modo di fare cinema in Italia: diventato notturno e clandestino per sfuggire all’ufficialità di uno sguardo tragicamente unidimesionale. Al netto di qualche ingenuità di scrittura o di recitazione, questo è un piccolo film che assumendo un tono favolistico rivendica la possibilità di comunicare con le nuove immagini (i video degli immigrati postati su You Tube) associate al racconto tradizionale

Il lavoro. Sia in toni drammatici che farseschi/ironici il tema del lavoro, guarda caso, torna dopo gli anni ’70 ad essere assoluto protagonista del cinema italiano invadendo coattamente vari generi. Perché la crisi che stiamo vivendo non deve essere solo rappresentata, filmata o presa in giro. Ha bisogno soprattutto di essere esorcizzata.
Matteo Pellegrini - regista dalla ampia gavetta alle spalle, qui al suo primo lungometraggio - assume istantaneamente uno sguardo partecipe e affabile sul microcosmo relazionale che crea (i protagonisti lavorano in una imprese di pulizie), ma anche sul mondo della “produzione” di immagini in Italia (il luogo di lavoro è una casa di produzione, lo Studio 61, di una famosa soap opera). Questo multietnico e colorato gruppo dalla provenienza slava, africana, indiana, italiana, deve affrontare la crisi inventandosi un lavoro come qualcuno ripete troppo spesso di fare…e allora sfruttare l’occasione di prendere “in prestito” una telecamera dallo studio per fare filmini ai matrimoni di conoscenti sembra una buona idea. O utilizzare i set della soap per riprendere i videomessaggi degli immigrati da inserire in rete, sembra una idea ancora migliore. Nasce così l’Italian Movies…
Ecco: se nel fenomeno televisivo/cinematografico di Boris si oltrepassa la macchina da presa per rovesciare causticamente miti e sogni facili, qui si effettua un’operazione diversa ma parallela: si piegano le immagini della finzione televisiva alla realtà del Paese, ossia all’immigrazione, alla mancanza di lavoro o alla difficoltà dei sentimenti. Il tono di Pellegrini non è mai graffiante, virando sul favolistico anche nelle scelte compositive, in una progressione che disegna il destino tragico dei suoi personaggi come costantemente ribaltato nel controcampo del possibile: l’amore raggiunto, il lavoro “inventato”, la crisi (forse) superata. Italian Movies è un’evidente metafora del modo di fare cinema in Italia: diventato notturno e clandestino per sfuggire all’ufficialità di uno sguardo (quello interpretato nel film dal sempre vulcanico Filippo Timi, il boss di Studio 61) tragicamente unidimesionale.
E allora, al netto di qualche ingenuità di scrittura o di recitazione, questo è un piccolo film che rivendica la possibilità di comunicare con le nuove immagini (i video degli immigrati postati su You Tube) associate al racconto tradizionale (la storia d’amore coronata tra il giovane squattrinato italiano e la bella immigrata). Niente di nuovo per carità…ma la rinascita di un cinema “medio” italiano che possa avere appel in sala passa anche da questa sincerità naif di fondo. Una sincerità che Pellegrini manifesta e difende.


Pero, para nuestra desgracia, no todas las películas de la cuarta jornada del Festival de Cine Italiano nos gustaron tanto como L'Arbitro. La última película del día fue Italian movies una especie de comedia dramática que no funciona en ninguna de las vertientes. Una pena para el primer largometraje de Matteo Pellegrini, quien acudió a los cines Verdi a presentarla. Su intención era mezclar ambos géneros para "hacer llorar y reír al espectador a la vez" pero le ha quedado una obra nada arriesgada y, en su parte final, demasiado meloso para un público medianamente exigente.
Italian Movies trata sobre un grupo de inmigrantes que trabajan en el servicio de limpieza nocturno de un estudio de televisión en Italia. El grupo está compuesto por gente de muchas nacionalidades lo cual le dará pie al director a explotar algunos tópicos de esos países: la jamaicana que prepara un buen café, el indio que recita proverbios pretenciosamente intelectuales a todas horas, el ruso chanchullero... Un día, de estrangis, cogen una cámara del estudio y se les ocurre grabar bodas y celebraciones familiares para sacarse un dinero extra porque, oh pobrecitos, no llegan a final de mes. Vamos, que Pellegrini nos vende una película sobre integración en la sociedad presentando a su personajes como ladrones y como unos vagos que van al dinero fácil o a la consecución de la nacionalidad a través de un matrimonio de convenciencia. No sabemos, tampoco, qué tendrá en contra de los peruanos quienes retrata con desprecio.
Estos personajes son seres inertes rellenos de recursos triviales dentro de una trama en sí muy inverosímil y nada probable. Un ejemplo es que al principio no tienen ni idea de encender una cámara, sin embargo, al poco ya saben manejar un equipo profesional de grabación y el estudio entero de televisión. ¿Harían un curso exprés e intensivo de CEAC y nos lo perdimos? Además, no podría faltar una cursi e insustancial historia de amor o el compañero que está en contra de ellos y no quiere colaborar y al final acabará cediendo.  
Todos estos defectos se van sumando y sumando hacen que como espectadores nos sintamos ofendidos y sus elevadas dosis de buen rollismo nos causan el efecto contrario. El resultado final es de poco calado, más cercano a las telenovelas que intenta ridiculizar que al cine. Muy mal el debut de Pellegrini, a ver si a la próxima depura sus fallos.
Elisabet Pereira
---
C’erano un russo, un indiano e un italiano… no, non è una barzelletta, è la storia di un gruppo di colleghi/amici, tra cui molti extracomunitari, che, sfruttando il loro lavoro sottopagato come addetti alle pulizie in uno studio televisivo, mettono su una piccola casa di produzione video "clandestina" per realizzare filmati di eventi (matrimoni, funerali, confessioni, ecc.) all'interno delle comunità straniere. Lo straordinario successo li spinge a ingrandire l'impresa utilizzando gli spazi dello studio televisivo in orario notturno, per realizzare video e filmati per chiunque abbia un talento da esprimere o un messaggio da inviare a casa. Gli studi vengono letteralmente presi d'assalto da personaggi di vari colori e varie nazionalità.
Matteo Pellegrini, dopo vari corti e varie realizzazioni di video musicali, si cimenta in una commedia riuscitissima, colorata e frizzante, dove il cast è ottimamente assortito e ben diretto; le colonne portanti sono un ottimo Michele Venitucci (già visto, tra gli altri, in “Il seme della discordia”) e l’imponente Aleksei Guskov (il direttore d’orchestra nello splendido e pluripremiato “The Concert”).
La voglia di andare oltre la precarietà e di cercare di dare un futuro a se stessi, oltre che alla famiglia, è al centro del racconto, dove un gruppo di extra-comunitari, sempre alle prese con problemi di sopravvivenza o di permesso di soggiorno, si riunisce e dà luogo ad un’impresa davvero speciale, dimostrando che l’unione fa la forza e che le semplici idee prodotte da semplici uomini sono sempre le migliori.
L’idea del film è davvero originale e la sceneggiatura risulta davvero molto vivace, alternando dignità, amarezza e tanta ironia; per certi versi, vista l’ambientazione (il set di una fiction), sembra ricordare la serie italiana di successo ‘Boris’.
Nel cast anche la partecipazione di Filippo Timi, sempre più istrionico e polivalente, da non perdere e spassosissimo nella danza del ventre sui titoli di coda.
Salvatore Cusimano

Educazione Siberiana - Gabriele Salvatores (2013)

$
0
0

TITULO ORIGINAL Educazione siberiana 
AÑO 2013
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DIRECCION Gabriele Salvatores
GUION Stefano Rulli, Sandro Petraglia, Gabriele Salvatores (Libro: Nicolai Lillin)
MUSICA Mauro Pagani
FOTOGRAFIA Italo Petriccione
REPARTO John Malkovich, Peter Stormare, Eleanor Tomlinson, Andrius Paulavicius, Giedrius Nagys, Arnas Fedaravicius
PREMIOS 2012: Premios David di Donatello: 11 nominaciones (incluyendo Mejor película)
PRODUCTORA Cattleya
GENERO Drama | Años 80

SINOPSIS Rodada en inglés y basada en un libro de Nicolai Lilin, narra su adolescencia y formación dentro de la comunidad de los Urka, irreductibles criminales siberianos, que fueron deportados a Transnitria (entre Moldavia y Ucrania) por Stalin en los años 30. La historia se desarrolla poco antes de la caída de la Unión Soviética. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

Subtítulos (Español)


A pesar de hablar de clanes, de mafias o de criminales, no es "Educazione siberiana" una película épica al estilo grandes sagas de mafiosos a las que nos tiene acostumbrado el cine norteamericano. Aquí se nota la mano del director europeo a quien le importa bien poco el honor o el funcionamiento de estos clanes, aquí todos es mas simple, con reglas simples y no lo entienden como un acto criminal sino como una manera mas de vivir. La lucha del protagonista por huir de su destino solo se entiende al final, como un acto de amor alejado de cuanto hemos visto durante la película, como si toda la trama criminal no fuese mas que una excusa para hablarnos del amor y la amistad. "Educazione Siberiana" está bien interpretada, con ritmo, excelentemente ambientada y con ese estilo que el bueno de Salvatores sabe imprimir a todas sus películas entre infantil y espectacular. En el fondo Gabriele Salvatore utiliza la excusa de la novela de Nicolai Lilin para contarnos una historia de amor ambientada en los clanes criminales siberianos, no hay mas, esto no es "El Padrino" ni "Los Soprano" e incluso a diferencia de "Una historia de violencia", Salvatore escoge el camino de contarnos una historia desde su comienzo a su final, obviando las partes mas salvajes y ofeciendo una buena historia sobre el honor, una historia clásica y bien estructurada sobre el amor y la amistad. Sin ser un tipo de cine que me apasiona por demasiado académico (no deja espacio a la sorpresa o a la novedad) hay que reconocer que me ha gustado mucho. Totalmente recomendable.
rirocbel,   Barcelona (España)
---
Y esta semana seguimos en el campo del séptimo arte. Os dejo la nueva peli de Gabriele Salvatores, personalísimo director italiano al cual recordareis por obras notables (o al menos originales) como pueden ser "Mediterraneo" (1991), "Nirvana" (1997) o "Amnesia" (2002). "Educazione Siberiana" es su último film y en el nos retrotrae a la historia de los clanes mafiosos siberianos nacidos a la sombra de las comunidades Urcas y su devenir en la extinta URSS y la moderna Rusia. Para ello se basa en las experiencias personales de Nikolai Lilin recogidas en el libro bautizado con el mismo nombre que el film. 
Los urcas eran  una insólita comunidad de bandidos siberianos enfrentada a Stalin que fueron deportados desde Siberia (en lugar de hacia Siberia) a la Transnistria, una larga franja entre Moldavia y Ucrania asolada por la corrupción, el crimen organizado y el contrabando. Inmerso en este caldo de cultivo, Kolyma (alter ego de Nikolái Lilin) crecio en el seno de una gran familia que  no reconoce otra autoridad que la de sus ancianos y que obliga a sus miembros a respetar un estricto código de conducta que les permita definirse a sí mismos como «criminales honestos». Con un profundo sentido de libertad y justicia, y exaltando valores como la lealtad, la humildad y la generosidad pero sin dejar de lado una crueldad mas que exasperante, los urcas no sólo prohíben las drogas, la violación y el desprecio hacia los débiles, sino que incluso castigan estos delitos con la muerte. Y como símbolo tangible de una ética tan peculiar, los tatuajes se presentan como un libro misterioso cuyas páginas custodian un lenguaje que nunca debe pronunciarse. "Educazione Siberiana" cuenta esto y mucho mas. A partir de sus casi dos horas de metraje y de forma paralela a la narración de la vida de kolyma desde una marcada perspectiva poética y una fotografía envidiable, "Educazione Siberiana" nos muestra como cambia el mundo (sobre todo comunista) desde los 80 hasta el conflicto checheno pasando por la caida del telón de acero. De destacar el papelazo de John Malkovich, se le echaba de menos que se marcase un papel memorable como los que nos tenia acostumbrados. Chapeau por su recreación de "Vito Corleone" siberiano. Peter Stormare tambien lo clava. Incluso la banda sonora es buena: Ese "Absolute begginers" de Bowie como fondo para la secuencia del tio-vivo y algun petardazo peregrino post-punk ruso que no conozco son buenos ejemplos. En resumen os dejo una película mas que recomendable que desgraciadamente, y como suele ser habitual, no alcanzó gran difusion y en algunos casos incluso no logro entrar en los circuitos comerciales. Se puede decir que lo que fue "Once upon a time in America" de Leone para la comunidad/mafia judia en USA  tiene ahora un digno reflejo en la comunidad/mafia Siberiana de la Rusia de "Educazione Siberiana"....poco mas queda por decir pero mucho por ver. Ya me direis.
---
Gabriele Salvatores porta sul grande schermo il libro di Nicolai Lilin Educazione siberiana. Dopo Sorrentino e Tornatore un altro grande autore del nostro cinema trova spazio e sostanze produttive in un più ampio contesto europeo, girando in lingua inglese e ricreando in Lituania la Transnistria, regione contesa tra Russia e Moldavia dove il governo sovietico deportò intere comunità criminali nel corso del secondo dopoguerra. Lì crescono Kolima e Gagarin, a fine anni Ottanta giovanissimi “onesti criminali” Siberiani, educati all’ancestrale codice guerriero da Nonno Kuzja (John Malkovich), ultimo portavoce di un mondo antico e in sparizione, religioso e puramente antagonista, comunitario, rigidamente codificato, anticapitalista e malinconicamente legato alla natura materna e lontana delle gelide steppe siberiane. Ma con il vecchio mondo travolto dal crollo del Comunismo i due protagonisti si ritroveranno cresciuti e separati come un Aljosha e un Ivan Karamazov, Kolima ancora legato al codice dei padri e Gagarin alfiere del nichilismo (capitalista) del “tutto è permesso” di dostoevskijana memoria. Salvatores parte dall’autobiografia di un immaginario e vi aderisce portando il suo amore per la grande letteratura e il grande cinema russo, conducendo lo spettatore con talento visivo indiscusso, aiutato da un lavoro di scenografia notevole, ad assaporare l’atmosfera di rivolgimento in cui i giovani e i vecchi si trovano in rapporto critico verso un mondo che non è più il loro e sempre meno lo sarà. Si assapora il respiro epico delle grandi storie grazie a una scrittura mai banale, affidata a sceneggiatori di livello indiscusso come Rulli e Petraglia, in piena consonanza con le profonde tematiche del testo di partenza. La struttura narrativa piega la cronologia in maniera creativa, alternando tre distinti piani spazio-temporali: l’infanzia e l’educazione dei giovani nel villaggio ancora sotto il regime sovietico; la vita dei protagonisti adolescenti quando intorno a loro si fa strada un Occidente carico di promesse – qui si colloca il nucleo emotivo e simbolico del film, la meravigliosa sequenza della giostra che in una gelida piazza di anonima architettura sovietica porta la musica di David Bowie (Absolute Beginners) come il miraggio di una felicità possibile –; la drammatica, e splendidamente girata in un altrove violento, resa dei conti finale tra i due “fratelli”. Il casting scova due giovani esordienti lituani come protagonisti, cavandone interpretazioni ineccepibili, e affida al carisma indiscusso di John Malkovich il ruolo chiave del vecchio maestro, la cui importanza, ricorda Salvatores, è quella di dare la possibilità ai giovani di scegliere, o di costruirsi, una visione del mondo, perché è sempre «meglio un cattivo maestro che nessun maestro». 
---
Gabriele Salvatores torna al cinema. Se ne va all'est, tra neve, freddo e tatuaggi, e dimostra coraggio da vendere. Con Educazione siberiana (dal 28 febbraio nelle sale) decide di trasporre un romanzo spigoloso come quello di Nicolai Lilin e si rimette in gioco.
Se si pensa che il suo ultimo film, Happy family (2010), era una sorta di rimpatriata tra amici (Diego Abatantuono, Fabrizio Bentivoglio, l'adattamento di un'opera del suo amato teatro Elfo...), ambientata nella sua città d'adozione Milano, e tanto colorata e giocosa, si capisce l'alta portata di questo suo nuovo lavoro, girato in terra lituana, in inglese e con un cast a lui del tutto nuovo, per lo più del posto. Tra volti sconosciuti spiccano però due presenze arcinote, lo svedese di Hollywood Peter Stormare (che interpreta il tatuatore Ink) e John Malcovich, che non ha bisogno di presentazioni e che segna la prima collaborazione con il regista di origini partenopee.
Malcovich è nonno Kuzya, il capo di una comunità di "criminali onesti", un clan di discendenti dei guerrieri Urca, originari abitanti della grandi foreste siberiane, deportati nel sud della Russia da Stalin e residenti in Transnistria, una regione dell'attuale Moldavia. Si tratta di gangster, ma con regole e un codice d'onore ben precisi, in cui a volte ci si sorprende di riconoscersi: "un uomo non può possedere più di quanto il suo cuore può amare". E quindi furti sì, droga no. Uccisioni se capita sì, soldi da tenere in casa no. E poi abbasso polizia, banchieri, usurai...
In questo contesto di violenza indottrinata crescono due bambini amici per la pelle, Kolima e Gagarin, tanto uniti quanto così prossimi a perdersi. Sin da subito è evidente nei due un'indole diversa. In una storia che abbraccia l'arco di tempo dal 1985 al 1995 li vedremo crescere passando attraverso cambiamenti epocali attorno a loro, dalla caduta del muro di Berlino al disfacimento dell'Unione sovietica. Ormai quasi uomini e alle prese con le loro responsabilità, il primo avrà il corpo fiero, atletico e quasi aristocratico di Arnas Fedaravicius, l'altro il fare selvaggio e irrequieto di Vilius Tumalavicius.
Ne esce un film che ha sicuramente grande fascino e riesce a coinvolgere dall'inizio alla fine, anche grazie ai salti temporali e a un'ambientazione e a una cultura completamente diverse da quelle a noi note. La violenza trabocca e a volte lo sguardo fa fatica, ma non sembra così gratuita, quanto un'ineffabile esplosione di dna. La fotografia del solito socio di Salvatores, Italo Petriccione, è glaciale e livida, di un'asciuttezza seducente. A non avere il pregio dell'asciuttezza è invece la narrazione, a volte troppo ricca di dettagli e di parole. Ecco così che gli insegnamenti di nonno Kuzya ricorrono e ricorrono, in maniera un po' didascalica e con un'epicità a cui è data troppa enfasi.

La scena migliore?
Di certo è quella in cui i quattro amici, Kolima, Gagarin, Mel (Jonas Trukanas) e Xenya (Eleanor Tomlinson), corrono per salire sulla giostra, con Mel entusiasta perché si sente musica occidentale. Sul calcinculo ridono, si danno spinte, coccolano Xenya, bellissima ragazza intellettivamente disabile. In quel momento i sogni non toccano per terra e volano, senza peso specifico, leggeri.

L'insegnamento più bello.
Dalla bocca del saggio Kuzya o nella memoria del Kolima, tante sono le massime affascinanti della cultura criminale siberiana. Ma una, su tutte, conservo: i pazzi sono i "voluti da Dio", per questo li dobbiamo proteggere.
Salvatores, al suo quindicesimo film, passato dal successo da Oscar di Mediterraneo a opere surreali come Nirvana, ha ancora ardore da sperimentatore. Ora ha lanciato la sua picca (coltello). Non ha fatto centro. Ha colpito comunque il bersaglio, che era lontano e difficile. Per questo il suo è comunque più un punto guadagnato che uno perso.
Simona Santoni


Oltre il fiume Nistro' vive una comunità singolare che educa i propri figli al crimine. Onesti con i più deboli e feroci con esercito e polizia, i siberiani pregano dio e impugnano armi, predicando una violenza regolata da prescrizioni. Il crollo del Muro e del regime sovietico altera gli equilibri del loro mondo, corrotto rapidamente dall'aria dell'Ovest. Nel passaggio epocale che confronta e poi scontra la Tradizione col cambiamento nascono e crescono Kolima e Gagarin, amici per la pelle e amici nel sangue. Ispirati e armati di picca da nonno Kuzja, vengono iniziati alle rapine e alla condivisione 'comunitaria' della refurtiva. Perché i siberiani non rubano per arricchirsi ma per sostenere la loro piccola società, premurosa con gli anziani e coi 'voluti da Dio' come Xenja, giovane donna affetta da demenza. Figlia del medico locale, la ragazza è protetta da Kolima che ne è profondamente innamorato. Finito in carcere, ha sublimato quel sentimento in un tatuaggio, una tecnica di decorazione corporale che impara e affina sulla pelle dei galeotti. Diversi tatuaggi dopo, nonno Kuzja provvede alla sua scarcerazione per affidargli una missione importante, trovare l'uomo che ha abusato e picchiato la sua Xenja. Sarà l'inizio di una lunga caccia che lo costringerà ad arruolarsi nell'esercito, infrangendo codici e tradizioni.Autore cult degli anni Ottanta e Novanta, a partire dal 2000 Gabriele Salvatores si lascia alle spalle la 'sindrome da Peter Pan', che caratterizzava quasi tutto il suo cinema precedente, per tentare la strada più ardua del film non generazionale ma teso a raccontare l'incontro fra generazioni. Sperimentatore di nuove tecniche e nuovi possibili modelli di rappresentazione, negli anni zero infila la strada della trasposizione, traducendo con esiti oscillanti (e qualche volta discutibili) due romanzi di Niccolò Ammaniti (Io non ho paura, Come Dio Comanda), il noir di Grazia Verasani (Quo Vadis, Baby?) e la pièce teatrale di Alessandro Genovesi (Happy Family).
Educazione siberiana non fa eccezione e va a ingrossare le fila degli adattamenti. Dopo una commedia felice, che recupera e ricongiunge Diego Abatantuono e Fabrizio Bentivoglio, il regista milanese adatta "Educazione siberiana" di Nicolai Lilin, autore russo che scrive in lingua italiana. Con la partecipazione di Rulli e Petraglia, Salvatores toglie al romanzo tutto quello che non asseconda la sua intuizione originale, abusando di un testo densissimo e perdendo l'alterità narrata da Lilin. Legittimo per quanto autoritario, l'intervento dei celebri sceneggiatori normalizza, meglio spersonalizza una comunità criminale siberiana radicata nella Tradizione e impattata dalla modernizzazione globale.
Mischiando, scambiando, omettendo o esaltando personaggi, Rulli e Petraglia decontestualizzano i protagonisti riorganizzandoli dentro una storia altra e prossima alla 'gioventù' già ampiamente trattata al suo 'meglio' (La meglio gioventù) e al suo 'peggio' (Romanzo criminale). I 'bravi ragazzi' di Lilin finiscono per galleggiare su una superficie fragile come il ghiaccio che inframezza le sequenze, in cui si contrappongono due bad guy e due modi diversi di stare nel mondo, l'uno vorrebbe conservarlo e trasmetterlo, l'altro rubarne un pezzetto con la smania di chi vuole tutto subito.
Semplificato e stravolto, Educazione siberiana si incanala verso un disegno di virtuosismi che non affondano mai, ritirandosi dal confronto con le pagine di Lilin e sclerotizzando lo sguardo su corpi privi di carne e di sangue. Personaggi mai attraversati dalle passioni e il cui destino ci risulta indifferente. Nemmeno la furia finale di Kolima, tesa a ristabilire verità e giustizia (criminale), risarcendo l'innocente, ci può emozionare. Gli attori, un cast giovanissimo e puntuale governato da un John Malkovich di ieratica grandezza, soffrono una narrazione resistente all'onore, al culto della violenza e alla formazione (criminale). La tentazione di un affresco storico-sociale della Russia attraverso la figura del criminale rimane un tentativo interessante che elude tuttavia il senso più profondo della forza e della sopraffazione, della sorte degli innocenti e dei predestinati, dell'incisione dell''io' sui corpi raffigurati da Lilin come fossero libri. Corpi coperti di tatuaggi e arabeschi del passato che individuano le persone, le inquadrano e le rappresentano in una gerarchia criminale.

Exit: una storia personale - Massimiliano Amato (2010)

$
0
0

TÍTULO ORIGINAL Exit: Una storia personale 
AÑO 2009 
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACIÓN 75 min.  
DIRECTOR Massimiliano Amato  
GUIÓN Massimiliano Amato 
MÚSICA Francesco Perri
FOTOGRAFÍA Massimiliano Amato 
REPARTO Luca Guastini, Nicola Garofalo, Marcella Braga, Paolo Di Gialluca, Antonio Calamonici 
PRODUCTORA A Film Productions 
GÉNERO Drama  

SINOPSIS Dopo il suicidio del suo compagno di stanza, Marco, un giovane disagiato, inizia a pensare che la sua esistenza sia molto simile a quella del suo amico, se non peggiore. La mancanza di prospettive, un forte senso di inadeguatezza non fanno che peggiorare il suo stato d’animo. In piena crisi, il ragazzo chiede al fratello Davide di accompagnarlo in Olanda per fare quello che il suo amico Maurizio aveva programmato lucidamente: un suicidio assistito. Confessa che vuole farla finita con la sua vita di emarginazione e malessere. Davide, abituato a convivere con le crisi e i deliri del fratello, non prende nemmeno in considerazione la richiesta. Non sa, e non può sapere che quello che Marco afferma ha una sua plausibilità. Infatti il protocollo olandese sull'eutanasia contempla anche la sofferenza psichica. (Cineclandestino) 

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)


È spesso difficile inquadrare le opere prime prodotte nel nostro mercato, vuoi per una scarsità di mezzi economici che spesso le rende vittime delle loro ambizioni, vuoi per una difficile collocazione in un mercato invaso da cinepanettoni e commedie scollacciate per un pubblico della domenica. Se a questo aggiungiamo la dozzinalità della distribuzione nostrana, si comprendono appieno le difficoltà da chi, aspirante regista, si lancia nella carriera dietro la macchina da presa con un carico di passione che va a cozzare con la realtà delle cose. Un input che possa risvegliare i giovani talenti emergenti del Belpaese è senza dubbio arrivato grazie alle nuove tecnologie, e non è difficile al giorno d'oggi realizzare pellicole interessanti con un budget abbordabile. È questo il caso dell'esordiente Massimiliano Amato: ha girato il film con una videocamera ad alta definizione che gli ha permesso di sviluppare anche delle sequenze impegnative dal punto di vista logistico e sperimentare sulla materia Cinema. Lo stesso Amato è anche sceneggiatore e produttore, in una sorta di progetto personale che, più di una ricerca autoriale, pare un'espressione vibrante e genuina motivata dal desiderio di voler raccontare un evento difficile e ricco di significati, ispirato da un incontro avuto nella vita reale.

Marco Serrano (Luca Guastini) soffre di problemi mentali che lo portano alla paranoia. È convinto di sentire voci che lo inducono al suicidio e di esser vittima di un complotto da parte del mondo intero. Neanche il centro dove si reca ogni giorno e che ospita gente reduce da dipendenze riesce a curare la sua psicosi. L'unico appiglio alla realtà sembra essere il fratello Davide (Nicola Garofalo), la cui vita però è messa inesorabilmente a soqquadro dalle sue continue richieste e stranezze. Marco decide così di optare per una scelta estrema: dopo aver letto su un giornale che in Olanda vi sono dei centri dove si pratica l'eutanasia assistita per problemi psichiatrici, decide di partire e abbandonare tutto.

Dolce e malinconico ritratto di una crisi, sia questa mentale nella testa della sfortunato protagonista, che familiare nel rapporto contrastato col fratello, ancorato ad una vita normale ma tenace e strenuo protettore di un'unità mai così solida. Exit - Una sfida personale non è un film semplice, è un'opera che va inquadrata nelle sue diverse sfaccettature che si incrociano e si diluiscono in un incipit narrativo apparentemente semplice ma in realtà ricco di spunti di riflessione. Il merito di Amato è - a differenza di suoi tanti colleghi - di non risultare sfacciatamente presuntuoso e di credersi un nuovo maestro rimasto sino ad ora nell'ombra: al contrario - e questo senza sminuirne le qualità - riesce a convincere proprio perché si limita all'essenziale. La raffinatezza della messa in scena, che gioca nel sottile bilico tra il cinema verità e guizzi più autoriali, riesce a rendere le due città protagoniste della vicenda, Roma e Amsterdam, compagne pulsanti dei personaggi: la prima fa da sfondo alle assolate giornate di confusione e solitudine di Marco, la seconda, luogo quasi magico, risulta Anfitrione involontario ma benevolente di un abbraccio, di un ritorno sospirato e forse chiarificatore per il futuro. L'acqua infine, nella sua incarnazione più poetica, rappresenta una sorta di catarsi interiore, ripulita dai demoni verso un domani difficile ma da affrontare con la certezza di non essere soli. Per nulla accessoria, ma anzi preponderante nel suo co-protagonismo, la presenza di Marcella Braga nei panni di Nina, la ragazza di Davide: la sua figura, agente estraneo di questo profondo legame familiare, serve a collegare i sentimenti e le passioni a un mondo reale fatto di carne, pensieri e amore. 


Correndo verso la fine

Per commisurare il valore di certi film, specialmente quelli che riflettono un doloroso passato magari realmente vissuto, è forse necessario adottare altri criteri di giudizio che non siano quelli "classici" usati ad esempio per scrivere di un qualunque blockbuster hollywoodiano. Se poi l'opera in questione è anche italiana, la faccenda va esaminata con ancora maggiore cura. In Exit - Una storia personale (opera che già dal sottotitolo lascia trasparire la propria ragion d'essere), esordio alla regia di Massimiliano Amato, c'è tanto, forse troppo e nemmeno ben amalgamato. Però è un film che nasce da un'urgenza, quella di raccontare un dramma umano sia per renderne noti gli esatti contorni che forse per metabolizzarlo definitivamente. Due aspetti che si  percepiscono con chiarezza in ogni singola sequenza, quasi sempre animata da un ritmo convulso - accentuato dalle continue e nervose riprese a mano in digitale - come se l'opera stessa non potesse fare a meno di identificarsi in toto con la vicenda ed i personaggi che mette in scena, soprattutto con quello principale del giovane disturbato in disperata ricerca di un modo attraverso il quale porre fine alle proprie sofferenze.
Exit - selezionato in competizione al Festival del Cinema Italiano di Annecy, in svolgimento proprio in questi giorni nella località francese - è in fondo una storia di libertà assoluta che è possibile leggere a più livelli. Ci sono quelli strettamente diegetici del desiderio di morire da parte di chi sente di non aver difese nei confronti delle terribili asperità della vita (Marco Serrano, il giovane protagonista) ma anche di colui che, comprensibilmente, vorrebbe a tutti i costi trattenere il proprio consanguineo accanto a sé, in nome dell'affetto e forse di quel pizzico di egoismo che ci porta sempre e comunque tutti a temere il rischio della solitudine affettiva (il fratello di Marco, Davide). E c'è poi quello, esclusivamente simbolico, del fare cinema per seguire un percorso di ricerca personale, allo scopo di superare paure e dolori che probabilmente si ha il coraggio di affrontare solo davanti - o dietro - una macchina da presa. Il caso di Exit sembra esattamente questo, ovvero il trascinarsi dietro dalla vita vissuta un fardello assai pesante che non può essere solo frutto di un'idea di sceneggiatura, sia pur meditata. Di conseguenza, pregi e difetti del film finiscono con l'avere la medesima origine, mescolandosi in un flusso magmatico nel quale non solo può diventare difficile distinguere gli uni dagli altri, ma anche un apparente difetto può non rivelarsi tale e viceversa. 
Balza subito agli occhi, ad esempio, la frenesia registica - uso ripetuto della macchina a mano, montaggi alternati forse con superfluo significato narrativo - attraverso i quali Amato cerca di drammatizzare la storia che racconta allo scopo nobile di condividerla empaticamente con il pubblico; uno stile sussultorio che mira evidentemente a riflettere, come si accennava poc'anzi, la psiche dilaniata del personaggio principale, fino a fare entrare chi guarda dentro di essa, a percepire quasi fisicamente il grido di dolore emesso da una persona sofferente. Un procedimento comunque coraggioso anche se tendenzialmente debordante rispetto ad una nuda trama invece piuttosto semplice e lineare, che forse avrebbe preteso un tono più distaccato, pacato e intimista. Tuttavia Exit è pur sempre un'opera prima, volutamente lavorata su materiali narrativi grezzi in cui appunto si confondono finzione e trascorsi esistenziali; cosa che rende il film quantomeno interessante anche nel caso non riesca a concludere con un pieno successo - secondo l'interpretazione soggettiva dello spettatore - l'intento di partenza di rendere universali le vicende umane che ne costituiscono il cuore pulsante. 
Ma proprio per questa ragione non si può certo negare che Exit abbia una sua febbrile e vitale autenticità, un coraggio di esporsi troppo spesso assente in un cinema italiano costretto a mirare verso il basso non tanto per incapacità creativa quanto per insicurezza congenita, dovuta a ragioni - anche di vile “mercato” - che sarebbe eccessivamente lungo spiegare in questa sede.
Che piaccia o meno, al di là delle recitazioni disomogenee nel cast o della ovvietà di alcune soluzioni formali, Exit - Una storia personale è comunque un'esperienza di cinema e di vita. Aspetto che dovrebbe essergli sufficiente per meritare una visione, purtroppo tutt'altro che garantita, nelle sale.
Daniele De Angelis

Arrivederci e grazie - Giorgio Capitani (1988)

$
0
0

TITULO ORIGINAL Arrivederci e grazie
AÑO 1988
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 92 min.
DIRECCION Giorgio Capitani
GUION Graziano Diana, Simona Izzo
REPARTO Ugo Tognazzi, Ricky Tognazzi, Gian Marco Tognazzi, Catherine Alric, Milly Carlucci, Anouk Aimée, Giuppy Izzo, Alessandro Haber, Marina Tagliaferri, Antonella Fattori
FOTOGRAFIA Roberto Gerardi
MONTAJE Antonio Siciliano
MUSICA Gianni Ferrio
PRODUCCION Giovanni Bertolucci para San Francisco Film, Reteitalia, Cinecittà
GENERO Comedia

SINOPSIS Un padre di famiglia stufo della famiglia e del lavoro, se ne va di casa. Ma nell'appartamento da scapolo dove va a vivere, s'installano per una serie di equivoci anche gli altri due figli maschi (uno è stato lasciato dalla moglie, l'altro aspetta un figlio dalla compagna). Il padre viene a sapere che ha un cancro. Prima di morire, avrà però la forza di mettere a posto tutti i pasticci della sua strampalata famiglia. (My Movies)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

TRAMA: 
Insofferente della moglie e del lavoro, il sessantenne Carlo lascia la ditta alla consorte, donna sofisticata ma intelligente ed efficiente, e se ne va di casa, prendendo in affitto un bell'alloggio nel cuore della vecchia Roma. Tanto esuberante è lui, quanto depresso e malinconico suo figlio Paolo, autore teatrale di scarsa fortuna, che è stato improvvisamente lasciato dalla moglie Sandra, ed è precipitato nello scoramento totale. Anche lui cerca casa e, per un equivoco dell'agenzia padre e figlio si trovano inquilini dello stesso appartamento. Restano insieme, ma i battibecchi sono frequenti tra l'uno, ancora molto vitale e gastronomo maniacale, e l'altro introverso, dispeptico, sempre innamorato di sua moglie Sandra e con vena teatrale inaridita. A complicare le cose Giacomo, il secondo figlio di Carlo, insieme a Francesca, la compagna, che è incinta, si installa nell'appartamento. L'insolito ménage va avanti, mentre Carlo conosciuta Benedetta, una seducente e solitaria attrice, fa presto a goderne i favori. Intanto Paolo ha scritto una nuova commedia (gli eventi di cui è partecipe e spettatore sono stimolanti); il figlio di Giacomo nasce e Benedetta frequenta la famiglia con grande disinvoltura. Quando a Carlo viene diagnosticato un cancro e gli comunicano che gli restano al massimo pochi mesi di vita, lungi dall'essere terrorizzato - la sua filosofia di vita non lo renderebbe plausibile - chiede a Benedetta un ultimo incontro d'amore, fa riconciliare Paolo con Sandra, fa sposare Giacomo con Francesca e battezzare il bambino; poi offre alla moglie (lei dice di sì) di partire con lui per andare in Oriente per un lungo viaggio: evidentemente l'ultima vacanza della sua vita. Ancora una volta, niente tenerezze e lacrime tra padre e figlio (che pur si vogliono bene): solo rispettive parolacce augurali.


CRITICA: 
 "Gli occhi di Ricky Tognazzi, a sostegno di quella che è, a tutt'oggi, la sua interpretazione più sentita. Accigliata, brusca, realistica, ma anche sfumata con sapienza, prodiga di toni a sommessi, in bilico costante fra il sofferto e il faceto, con una gamma ricchissima di accenti caldi. Di fronte, come padre, il suo papà Ugo, arrivato ormai a un tale dominio dello schermo che sembra solo vivere, senza aver neanche più bisogno di recitare: con gesti concreti, mimica immediata, una spontaneità quasi in diretta. Il grande attore come uomo della strada. Sorpreso da una candid camera. Gli dà la replica con affetto l'altro figlio, Gianmarco. Pronto a seguire ormai le orme del fratello. Le donne sono Catherine Alric, Milly Carlucci, Giuppy Izzo e, nelle vesti di Laura, moglie e madre, la sempre bella Anouk Aimée. Sta un po' in disparte, ma quando appare si prende da sola lo schermo. Con un carisma che non conosce tramonto."
 (Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo', 14 Maggio 1988)

"Certi film italiani sono così palesemente ideati per la tv, che quasi stupisce incontrarli sullo schermo grande: ma alcuni esperti sostengono che senza il prestigio, l'attenzione critica e l'eco giornalistico dell'uscita nei cinema, richiamo e audience televisivi sarebbero assai minori. Qui la commedia familiare segue la strana coppia di conviventi formata da padre e figlio, tutt'e due separati dalle rispettive mogli con le quali, si capisce, torneranno a stare dopo litigi, equivoci burri, piccole avventure amorose: il conclusivo tocco drammatico è proprio un di più, però Ricky Tognazzi diventa sempre più bravo come faccia esemplare dei trentenni contemporanei." 
('Panorama', 24 Maggio 1988)

Arrivederci e grazie - Amarcord (2014)

$
0
0


Gracias a todos por compartir este espacio.
Espero hayan podido disfrutar de las películas y haya quedado, en cada uno, una semilla de inquietud por el cine italiano.
 
Mientras funcionen los enlaces Zippyshare (las cuentas de Mediafire fueron dadas de baja hace tiempo) se podrán seguir bajando las películas. 

No habrá más resubida de  películas ni de enlaces individuales.
 
Un fuerte abrazo a todos y Feliz Año.

Amarcord

L'Albero delle pere - Francesca Archibugi (1998)

$
0
0

TITULO ORIGINAL L'albero delle pere 
AÑO 1998
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español e inglés (Separados)
DURACION 88 min.
DIRECCION Francesca Archibugi
GUION Francesca Archibugi
MUSICA Battista Lena
FOTOGRAFIA Luca Bigazzi
MONTAJE Esmeralda Calabria
REPARTO Valeria Golino, Sergio Rubini, Stefano Dionisi, Niccolò Senni, Francesca Di Giovanni, Chiara Noschese, Victor Cavallo, Maria Consagra, Giuseppe Del Bono, Raffaella Lebboroni, Sergio Pierattini, Serena Scapagnini, Bruno Sclafani, Paolo Triestino, Raffaele Vannoli, Silvio Vannucci, Andrea Liu Junyu, Corrado Invernizzi, Patrizia Rosati, Corinna Lo Castro
PREMIOS 2008: Festival de Venecia: FIPRESCI y Mejor joven actor o actriz emergente (Niccolò Senni)
PRODUCTORA 3 Emme Cinematografica / Dania Film / Istituto Luce / Rai Cinemafiction
GENERO Drama

SINOPSIS El árbol de las peras es una película sobre la preocupación de un adolescente por su adorable y traviesa, media hermana, Domitilla. Es también la historia de cómo este joven tiene que asumir, prematuramente, las responsabilidades del mundo adulto en un entorno de traficantes, drogadictos y una familia en el camino de la perdición. (FILMAFFINITY)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

Subtítulos (Español)

Subtítulos (Inglés)


TRAMA: 
Siddharta, ragazzo di quattordici anni, abita a Roma con la madre Silvia che non lavora e vive di espedienti. Il padre del ragazzo è Massimo, regista sperimentale che lavora in maniera saltuaria. Silvia ha anche una bambina di due anni, Domitilla, nata dalla relazione con Roberto, che lavora come avvocato nello studio del padre ed è l'unico sostegno della famiglia. Domitilla vive con il padre ma a Natale si trasferisce dalla madre e vive una vita del tutto diversa accanto al fratello. Succede che un pomeriggio, mentre Silvia è fuori casa, Domitilla trova nella borsa della madre una siringa e accidentalmente si punge. Siddharta se ne accorge per primo e decide di affrontare la situazione da solo, senza coinvolgere gli adulti per proteggere la madre. Al pronto soccorso e dallo specialista deve far finta di parlare per conto di altri e, dopo aver ritirato i risultati delle analisi, scappa dalla finestra dell'ufficio per non rivelare il nome della sorellina. Ma la situazione arriva alla fine in evidenza e tra i due padri e Silvia lo scontro è molto duro. Silvia è decisa a cambiare vita ma il suo proposito è di breve durata: muore in un incidente di macchina. Siddharta adesso si sente davvero solo. All'uscita da scuola, vede in lontananza i due padri e Domitilla da un lato, una ragazzina con cui ha una piccolo flirt, dall'altro. Osserva perplesso i riferimenti della sua vita. Poi, con un balzo, decide di allontanarsi non visto.

CRITICA: 
"'L'albero delle pere'è un film dove ognuno ha perso la sua identità: i genitori non sono più genitori e i figli non sono più figli, investiti di responsabilità superiori alle loro forze. Uno di quei film che a Venezia ha rischiato il linciaggio e che proprio per questo - visto che si tratta di una storia originale raccontata con estrema vivacità - alimenta il sospetto che tanta acredine sia motivata da un eccesso di sincerità. Francesca Archibugi non esita infatti a mettere in scena la sua generazione interrogandosi criticamente su un passato punteggiato di delusioni, sconfitte e responsabilità. Un po' come aveva fatto Marco Bellocchio con 'Il principe di Homburg'. Ovviamente la situazione descritta è piuttosto forzata, oltrepassa i limiti della credibilità e funziona soltanto se accettata nella sua paradossalità. Ma è proprio questo aspetto a far risaltare, e con evidente contrasto drammatico, lo sconquasso di un nucleo familiare dove ognuno ha abdicato al suo ruolo". (Enzo Natta, 'Famiglia Cristiana', 10 novembre 1998)

"I personaggi ne 'L'albero delle pere', risultano spesso stereotipati; gli episodi della loro vita angusta risultano a volte melensi, e gli interpreti sono mediocri. Ma non sono molti i registi italiani che abbiano come Francesca Archibugi la capacità di descrivere con esattezza scoraggiata certi luoghi dell'esistenza della gente comune, il supermercato e i corridoi della USL, l'oscurità domestica nei pomeriggi invernali e le aule della scuola, l'ostentazione velleitaria delle cerimonie laiche, l'esibizionismo e l'egocentrismo scemo anche delle figurette più irrilevanti. Ed è raro pure il tentativo riuscito di usare una storia famigliare con bambini per un esercizio di stile espressivo: Roma vista nei suoi quartieri senza bellezza né estetica della povertà, gli appartamenti abitati dallo squallore, vengono esplorati dalla macchina da presa con una ricerca figurativa ostinata ed efficace, con una sapienza persino eccessiva moltiplicata dalla fotografia molto bella di Luca Bigazzi". (Lietta Tornabuoni, 'L'Espresso', 17 settembre 1998)

"Molte ambizioni, appunto, e molti temi: padre, figli, a generazione del dopo Sessantotto: i guasti e i disagi dell'oggi, le possibilità e i destini delle generazioni future figlie dell'informatica. Però, se nella struttura del racconto c'è poco ordine, se qualche personaggio che si affaccia all'ultimo momento risulta pleonastico e se i protagonisti adulti rischiano, a volte di essere più emblematici che non autentici, i modi con cui la regia poi li rappresenta si conquistano non di rado un vero e proprio stile. All'americana, se vogliamo, ritmi a singhiozzo, immagini volutamente sporche, sempre con l'aria di far della realtà realissima - un'espressione onirica, fra luci che si offuscano e si macchiano, con inquadrature sghembe dipanate spesso con fulminanti respiri e un sonoro al diapason. In contrasto, ma non in contraddizione, certi scontri familiari sono dosati invece con calma e certe pagine, pur quiete, hanno tutto il tempo di svelare invenzioni anche fantasiose. Un'Archibugi sempre più matura, insomma, anche se, pretende molto, non risolve tutto. La mamma è Valeria Golino, stralunata a dovere, Massimo è Sergio Rubini, all'inizio molto 'capellone', il borghese Roberto è Stefano Dionisi, In giacca e cravatta, Siddharta si chiama Niccolò Senni. Lo rivedremo". (Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo', 5 settembre 1998)

NOTE: 
- REVISIONE MINISTERO AGOSTO 1998.
- PREMIO OSELLA D'ORO PER LA MIGLIOR FOTOGRAFIA A LUCA BIGAZZI E PREMIO MARCELLO MASTROIANNI COME MIGLIOR ATTORE EMERGENTE A NICCOLO' SENNI ALLA 55. MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA (1998).
---
Trama
Siddartha, ragazzo di quattordici anni, abita a Roma con la madre Silvia che non lavora e vive di espedienti e varie amicizie. Il padre di Siddartha è Massimo, regista sperimentale che lavora in maniera saltuaria. Silvia ha anche una bambina di due anni, Domitilla, nata dalla relazione con Roberto, che lavora come avvocato nello studio del padre ed è l'unico sostegno della famiglia. Domitilla vive con il padre ma a Natale si trasferisce dalla madre e vive una vita del tutto diversa accanto al fratello. Succede che un pomeriggio, mentre Silvia è fuori casa, Domitilla trova nella borsa della madre una siringa e accidentalmente si punge. Siddartha se ne accorge per primo e decide di affrontare la situazione da solo, senza coinvolgere gli adulti e intenzionato a proteggere la madre. Al pronto soccorso e dallo specialista deve far finta di parlare per conto di altri e, dopo aver ritirato i risultati delle analisi, scappa dalla finestra dell'ufficio per non rivelare il nome della sorellina. Ma la situazione arriva alla fine in evidenza e tra i due padri e Silvia lo scontro è molto duro. Silvia è decisa a cambiare vita ma il suo proposito è di breve durata: muore in un incidente di macchina. Siddartha adesso si sente davvero solo. All'uscita da scuola, vede in lontananza i due padri e Domitilla da un lato, una ragazzina con cui ha una piccolo flirt dall'altro. Osserva perplesso i riferimenti della sua vita. Poi, con un balzo, decide di allontanarsi non visto.

Critica
Certi genitori non vogliono diventare adulti, restano ragazzi mai cresciuti, Peter Pan velleitari e confusi anche quando sono madri e padri di figli piccoli magari più maturi e responsabili di loro : Francesca Archibugi, dopo Verso sera e Il grande cocomero, torna a questo tema che le é caro, ai bambini e ragazzini che la interessano appassionatamente, con il primo film italiano in concorso alla Mostra, L'albero delle pere (“pere” é inteso nel senso di iniezioni di droga). Domitilla, neppure cinque anni, si graffia per caso con una siringa trovata tra gli oggetti di sua madre Valeria Golino, amorosa e distratta, bella e dannata, il cui slogan nell'uscire inquieto di casa é: Allora, io vado. Siddharta, il fratello adolescente, si allarma, teme che la piccola si sia infettata, ha paura ma non vuole parlarne con la madre per non darle preoccupazione, né vuole parlarne con i padri (il suo, quello della sorellina) Sergio Rubini e Stefano Dionisi, nei quali non ha fiducia: si prende la responsabilità di provvedere agli esami del sangue, di sapere, di trovare un rimedio come fa per tutto nella vita domestica. La morte della madre in uno scontro di automobili aprirà un vuoto immenso nella piccola famiglia, porterà cambiamento e in certo modo restituirà al ragazzino una libertà leggera de la sua età. Siamo alle vacanze di Natale del 1998, e i genitori del film paiono un poco diversamente datati, dislocati a un'epoca anteriore (magari agli ottanta di Piso Pisello di Peter Del Monte), fuori da questo tempo invece così pavidamente ordinato e conformista. Ma Francesca Archibugi sa raccontare come pochi la quotidianità, il linguaggio e i luoghi della gente comune: supermercato, Usl, scuola, l'oscurità domestica dei pomeriggi invernali, le ribellioni filiali repentine ma fiacche (“Se non vuoi che cresciamo, perché ci hai fatti?”), l'autoindulgenza paterna (“Eravamo così giovani...”), l'angustia di vite faticose, affaticate sin dall'infanzia.
Lietta Tornabuoni, La Stampa (05/09/1998)

Vedo in giro qualcuno che fa boccuccia di fronte a L'albero delle pere di Francesca Archibugi. D'accordo, il titolo è brutto: ma lo deplora sullo schermo la stessa protagonista Silvia (la toccante Valeria Golino) perché così ha intitolato il video che su di lei va registrando l'ex marito Massimo (Sergio Rubini), cineasta velleitario. Il problema, comunque, sarebbe che all'interesse dello spunto non corrisponde uno svolgimento impeccabile. Ammettiamolo. E tuttavia mi chiedo: da quante proiezioni del festival si emerge rimescolati dentro, con la sensazione di aver conosciuto gente vera e addirittura con la curiosità di cosa gli succcederà dopo? Che ne sarà del ragazzo Siddharta (Niccolò Senni, una rivelazione), figlio 14enne di Silvia e Massimo, e della sorellina Domitilla (Francesca Di Giovanni), figlia del probo Roberto (Stefano Dionisi) altro “ex”? Per essersi punta con una siringa della madre tossica, la bimba di 5 anni si è beccata l'epatite C: e l'alacre fratellastro si prodiga per fronteggiare la situazione tenendone fuori l'amatissima Silvia. Il seguito potete vederlo al cinema, perché la pellicola è già in prima visione. Tutto si svolge nel quartiere romano del Testaccio, a cavallo delle festività di fine anno, ed è un'occasione per la Archibugi di riproporre un tema a lei caro: il fallimento di una generazione di genitori immaturi, la speranza in un mondo salvato dai ragazzini. Tra i quali Siddharta, ironizzando da solo sul suo nome tributario a una stupida moda d'epoca, prende coscienza di sé alternando lo studio della chitarra alle navigazioni su Internet. Più che la trama avvincono le varie situazioni intonate a quell'intimismo sociale che l'autrice aveva già sperimentato in Il grande cocomero. Non c'era bisogno, per dire la verità, di intromettere il video, di rivisitare Roma dall'alto di un aereoplano o di far sfilare certe manieristiche testimonianze al funerale. Però, rilievi a parte, è giusto inchinarsi ai film che hanno un'anima.
Tullio Kezich, Corriere della Sera (05/09/1998)

Crescere nonostante i genitori: lo slogan che ha accompagnato il film, sulle locandine e sui manifesti, è di impatto ma non rende completamente il percorso compiuto dal protagonista Siddharta, quattordicenne che nel breve periodo delle vacanze di Natale si rende conto non solo dell'inaffidabilità degli adulti che lo circondano, ma anche della necessità di costruirsi una propria autonomia, con la consapevolezza di dover fronteggiare situazioni difficili, lutti, dolori, ipocrisie. 
Il film si incentra sul percorso di crescita del protagonista, che ironicamente si autodefinisce "Buddha da magro", e utilizza l'episodio della siringa e del rischio di infezione per Domitilla come pretesto narrativo che permette a Siddharta di superare la propria linea d'ombra. Ne emerge un ritratto problematico e poliedrico in cui il protagonista è sempre diverso: protettivo, esigente, arrabbiato, duro, tenero, fragile, risoluto, indeciso. 
Il film traduce le discontinuità del protagonista, sempre in movimento sul suo motorino, con ricorrenti inquadrature dall'alto che ne enfatizzano i percorsi labirintici, in una Roma livida e indifferente; oppure con i frequenti cambi di ritmi musicali, ora melodici ora elettrici, che rendono il gioco di sentimenti a un tempo contrapposti e complementari. 
Il senso di spaesamento da un lato e la necessità di organizzarsi in modo autonomo dall'altro derivano anche dalla constatazione di un mondo adulto tendenzialmente immaturo. Appare significativo che nelle relazioni intergenerazionali che tessono i rapporti degli altri personaggi con Siddharta, sia lui a fare l'adulto non solo nei confronti della piccola Domitilla, ma anche nei confronti di Silvia, in un rovesciamento del rapporto genitore-figlio. Viceversa, con le due figure paterne il legame sembra molto meno forte, tra l'indifferenza e la riprovazione per la loro mancanza di coraggio. Il rapporto con la madre è invece molto intenso e umano. Nonostante le manchevolezze e le debolezze di Silvia, il figlio riesce a trovare con lei una capacità comunicativa che sembra fondarsi sull'affetto più profondo, fatto di piccoli gesti e di sentimenti profondi più che di parole. È emblematica, in questa direzione, la sequenza del regalo di Natale, il volo aereo su Roma dolce e triste a un tempo. 
La famiglia di Siddharta appare quindi molto eterogenea e sui generis: a prescindere da ogni riflessione sulla famiglia di fatto o su quella allargata, il film sembra voler sottolineare l'importanza non tanto dei legami di sangue in sé, quanto dei rapporti interpersonali che si vengono a creare, a partire da una effettiva capacità di comunicazione e di coinvolgimento reciproco. Anche se in apparenza i due personaggi femminili sembrano i meno affidabili - per motivi differenti: l'età di Domitilla e i problemi di Silvia -, è proprio con loro che Siddharta ha i rapporti migliori. 
Sullo sfondo appare una società in crisi, tra precarietà lavorativa ed emarginazione, malattie infettive e tossicodipendenza. La droga assunta saltuariamente dalla madre appare però non tanto lo spunto per un'analisi sociologica, quanto l'ennesimo sintomo della debolezza degli adulti, che sembrano aver perso quella carica vitale e quella capacità di affrontare le cose della vita, che invece ritma ogni gesto di Siddharta. Che non a caso, nella simbolica sequenza finale, sceglierà di saltare con un balzo gli ostacoli e defilarsi dai familiari a vantaggio di una coetanea.
Michele Marangi, Aiace Torino


"L'albero delle pere", come la quasi totalità delle opere dell'Archibugi, risulta un'ennesima introspezione psicologica all'interno del nucleo familiare, questa volta però operata con una cognizione differente, forse un po' volutamente anomala. Infatti il nucleo della famiglia protagonista del film si compone essenzialmente di una madre, due fratellastri e due padri; la madre, pur assumendone il significante, in realtà si rivela come una "bambina viziata, viziosa ed insicura", relitto nostalgico e politico dei favolosi anni Settanta che vaga da un buco all'altro, da una relazione più o meno fugace all'altra con indifferenza e senza rispetto per sè stessa e gli altri, mentre le figure paterne in questo caso sono due, uno per ogni figlio, la cui presenza risulta spesso inutile e aggravante di problemi, invece che aiutare e tentare almeno di fornire una retta via alla famiglia (questo particolare un po' antimaschilista rivela la presenza di una donna dietro la macchina da presa).
Il vero "padre" della vicenda risulta così essere il giovane Siddharta, il quale tiene a bada e controlla tutti i membri di questa sgangherata famiglia e si dimostra essere il più adulto tra tutti, dimostrando una grande efficacia organizzativa, ma al tempo stesso la classica insicurezza adolescenziale e l'incertezza sulla strada da prendere; in pratica Siddharta è un eroe, ma non è una divinità, e soprattutto è un essere umano che da solo si trova costreto ad affrontare problemi più grandi di lui, in un mondo in cui gli adulti divengono più ostacoli che ausilio.
Lorenzo Mazzolini

Questa è una storia che appare per certi aspetti irreale, o meglio, fuori da una realtà convenzionale: essa propone una rappresentazione di famiglia che piace per il ritmo e la velocità dei dialoghi ma, allo stesso tempo, disturba proprio in quanto si discosta dal tipo di famiglia comunemente intesa. E’ difficile accettare che a tenere in mano una famiglia sia un figlio adolescente e che i genitori siano assenti oppure inadeguati quando presenti.
Forse non si tratta di irrealtà di organizzazione famigliare, ma le problematiche e il disagio che vengono rappresentati sono particolari e “sovversivi”: è la madre la tossicodipendente contro gli stereotipi che forse vorrebbero il figlio; il padre è un artista perduto attaccato a ideali sessantottini; il figlio potrebbe opporsi, polemizzare, arrabbiarsi o piangere mentre ha una spiccata capacità di controllare e di adattarsi alle difficoltà quotidiane.
Ciò che colpisce è proprio scoprire un genitore adolescente, incapace di rendersi responsabile di fronte al proprio ruolo istituzionale; e un adolescente genitore che è investito di responsabilità che vanno oltre il proprio ruolo. Questa inversione delle parti a tratti appare divertente, ma più spesso apparirà amara. La traccia della storia suggerisce e stimola per chi guarda una nuova trama di regole da giocare.
Il tempo e lo spazio fisico oltre che mentale di Siddharta sono occupati comunemente dal peso della famiglia: se esce con l’amica deve portare con sé anche la sorella; se sta suonando con gli amici deve correre a prendere la madre al bar…
L’adultizzazione di un figlio non è di per sé un fenomeno eccezionale, in questo caso stona con la sua esasperazione che porta Siddharta ad agire in modo autocompensatorio: quando la sorella Domitilla si pungerà con la siringa della madre tossicodipendente (“ci penso io”) Siddharta proteggerà sé e la madre evitano di dire il suo nome.
In genere, i bisogni di protezione e sicurezza, propri di questa età, consistono con i bisogni di indipendenza e realizzazione di sé. In questo caso, la bilancia tra la tendenza a dipendere dagli altri e la spinta dell’autonomia oscilla a favore della prima.
Non a caso, infatti, Siddharta ha per “alter ego” – la voce del computer - che gli ricorda i suoi doveri e sentimenti ma questa volta di adolescente: ti devi alzare…c’è scuola…ti piace quella ragazza? Questa voce si fa sentire come dicesse: “ricordati, Siddharta, ci sei anche tu!”. E’ curioso il paradosso, che questa volta, il Siddharta virtuale sia più reale (vero) del Siddharta in carne e ossa.
Il senso di onnipotenza, la paura di nulla, il bisogno di nessuno che trasmette la mamma Silvia al figlio, mentre volano su un aereo lontani dalla concretezza dei problemi terreni, fanno intuire un Siddharta sempre più preda delle proprie paure e fragilità, sempre più realista.
Nemmeno quando la comunicazione sarebbe spinta dagli eventi (quale l’intervento delle forze dell’ordine) paradossalmente la risposta, questa volta del padre, è: “non ti chiedo niente perché mi fido di te”. Anche Domitilla conferma questa percezione quando dice “se non mi faccio qualcosa nessuno mi chiede niente”; mentre Siddharta dirà: “Non mi resti che tu!”- invocando Dio.
Il paradosso qui è che più si Siddharta dimostra bravo, autonomo, pronto per gli altri, meno gli altri crederanno che lui ha bisogno di loro; più Siddharta mette davanti alle loro responsabilità i genitori, che pure amano i figli ma non riescono a prendersi cura di loro, per questi si scaricheranno colpe e assoluzioni l’un l’altra.
La ricerca dell’altro sembra spinta dall’urgenza del bisogno imminente piuttosto che dal desiderio di incontrarsi per guardarsi dentro e guardare l’altro. Ma chi si avvicinerà con interesse a Siddharta gli farà aprire il cuore.
Chi riuscirà a cogliere i suoi veri bisogni creerà una relazione di sintonia con lui.
La scelta di Siddharta è in quel volo leggero per aria oltre il cancello delle angosce e delle colpe e verso il desiderio di un amore adolescente che lo aspetta.
Silvia Barbaro (Psicologa)

La responsabilità

Nel film sono raccontate le storie di famiglie di un nuovo periodo storico di cui non ne sono ancora stati fissati i valori.
Della famiglia non è stato chiarito che cosa dovrà essere annullato, modificato o strutturato. Sono cambiate le condizioni materiali e sociali e quindi un diverso modo di vivere i bisogni e le relazioni. Le figure genitoriali sono ritagliate in modo impietoso e assai efficace. Non c’è dato conoscere la storia precedente dei personaggi (se non per qualche accenno appena tratteggiato). Difficile non cogliere le carenze di ciascuno di loro. Quello che appare è un quadro in cui mancano l’autonomia adulta, la consapevolezza del sé e dei propri bisogni e quindi la capacità di scelta. Questo narcisismo immaturo produce inadeguatezza e difficoltà ad amare gli altri. E’ un amore incompleto come loro stessi.
Una caratteristica comune sembra essere l’incapacità dei protagonisti adulti ad assumersi responsabilità sulla loro vita e quindi nelle decisioni riguardanti i figli.
Siddharta nella sua immaturità (di diritto) ci mostra invece come ha imparato ad aiutarsi e ad aiutare. Lo fa, suo malgrado, quando deve occuparsi della sorella, questa, è vissuta in un primo tempo con sopportazione e come un compito doveroso, ma ad un certo punto diventa una persona, un “altro” che capisce tutto, anche se è “qualche chilo”. Uscendo dal suo narcisismo, Siddharta entra in una relazione reale, riesce a farsi carico dell’altro, ad aiutare veramente, riesce cioè ad amare da adulto. Nessuno glielo ordina, potrebbe restare quello che è, invece compie un atto maturo: si assume la responsabilità, qualunque cosa accada.
Da qualunque parte la si capovolga, la responsabilità implica sempre una scelta, o la scelta implica sempre una responsabilità. E’ perciò una sofferenza sempre. A qualcosa dobbiamo rinunciare. Solo i bambini, proprio perché pieni di beata onnipotenza, vorrebbero tutto e anche subito.
Ancorata all’età dell’onnipotenza è l’avidità la parte corrispondente nell’adulto. E’ l’elemento che spesso penalizza e paralizza le decisioni o che le fa assumere guardando solo all’immediato senza riflettere sulle conseguenze. Questo vale in molte scelte della vita.
Anche avere figli è bello, ma non è sufficiente solo amarli, è impegnativo allevarli in modo responsabile.
Come mai non occorre nessuna preparazione per compiere un atto di così alta rilevanza sociale? “Ma chi ve l’ha chiesto” chiede Siddharta ai genitori.
Ma torniamo alla scelta, affinché sia vantaggiosa, è implicito un intervento semi automatico che tutti noi facciamo senza rendercene conto: ed è quello relativo all’entrata in contatto con noi stessi e con il nostro bisogno “reale”. Quando questa operazione funziona, possiamo decidere per il meglio e ci sentiamo soddisfatti.
Il problema della responsabilità è quindi riconducibile a quella che abbiamo nei nostri confronti, in altre parole al nostro modo di percepire i bisogni, all’equilibrio e alla dialettica che si forma al nostro interno.
Come facciamo e decidere per noi e per il meglio se non conosciamo bene noi stessi?
Siamo certi che quello che crediamo (o ci dicono) essere i nostri desideri corrispondono ai nostri bisogni?
La nostra dialettica interna funziona in un giusto equilibrio o è distorta?
Sono domande alle quali occorre al più presto cercare di dare una risposta o meglio occorre, porsi il problema, cercar dentro, anche da soli.
Alcuni suggerimenti li posso dare; qualunque età abbiate, sicuramente un po’ d’esperienza di vita l’avrete e di certo alcuni effetti del vostro interagire con il mondo che vi circonda (gli altri) li avrete.
Per ora potrete solo osservare le conseguenze delle vostre dinamiche, (purtroppo parlo sempre di quelle problematiche). Non è difficile, dovrete ascoltare voi stessi, e dopo ogni decisione, valutare il senso d’appagamento o l’insoddisfazione.
Se quest’ultima è frequente e costante vale la pena di riflettere. O ancora se vi accorgete alla fine di ogni storia, amore, amicizia, situazione relazionale in genere, di ritrovarvi con le stesse sensazioni di disagio, confermandovi le stesse avvilenti conclusioni su di voi o sul mondo che vi circonda, bisogna allora ammettersi che nello scambio dialettico interno c’è una discrepanza fra ciò che si voleva ottenere e il risultato ottenuto. C’è qualcosa da rivedere e su cui riflettere.
Negli ultimi fotogrammi del film, Siddharta, salta e vola verso la scelta del suo avvenire, verso i suo bisogni.
Nonostante la drammaticità della storia egli viene a percepirli in modo corretto.
Purtroppo non è sempre così, ma è motivo di speranza (e poi nella trama è liberatorio).
Se ricordate alcuni attimi prima di decidere egli guarda in modo particolare i genitori e la sorella, sta per assumersi la responsabilità per la sua vita. In quella frazione di secondi il suo dialogo interno deve essere stato drammatico ma chiaro.
Quel momento condensato, tutti noi (di una certa età) l’abbiamo vissuto e l’abbiamo chiaro nei ricordi.
A quell’appuntamento, (che poi saranno tanti), è importante arrivarci il prima possibile ed allenati. Ci si allena instaurando da subito una sorta di “politica democratica interiore”. Un dialogo, cioè un dibattito, (anche un conflitto) che non estrometta nessuno o nessuna nostra parte.
La relazione al nostro interno passa attraverso un’educazione; gli strumenti naturalmente sono forniti dall’esterno in un’interazione dinamica e funzionale. I genitori sono i primi responsabili e la scuola come tutti gli ambiti formativi può favorirne il recupero e l’attivazione.
Q questo proposito ricordo del film un particolare interessante e simpatico; Siddharta che si costruisce un genitore ausiliario mediante il computer, con diario e predica incorporate. E’ ciò che gli serve e che manca nella sua pseudo-famiglia alternativa e cioè un genitore che sia tale e che possa a suo tempo diventare una parte interna con la quale poter dialogare in modo corretto.
Mi riferisco per l’esattezza alla “funzione paterna”, e cioè a quella difficile combinazione di dosaggio relazionale in cui questa figura, poi, sia definita e chiara. Un “paterno” affinché sia tale, non è obbligatorio sia svolto da un padre naturale, ma certo che è che non significa essere amico, fratello o madre. Tutti possiamo svolgere questo ruolo, purché quella “funzione” sia chiara e definita.
Anche nella scuola si vivono tante “funzioni”, quella paterna è da rivalutare, purché sia democratica.
Giorgio Minelli (Psicologo e Psicoterapeuta)

ALCUNE RIFLESSIONI PSICOLOGICHE SUL FILM

Sono molte le suggestioni che questo film può suscitare in chi usa la psicologia come chiave di interpretazione della realtà: il destino di questo ragazzino che deve imparare a vivere e, ancor prima, a sopravvivere in un universo di adulti complesso, contraddittorio spesso incomprensibile ci ricorda le vicissitudini che ogni essere umano, in fondo, deve attraversare per diventare grande, adulto fra gli adulti.
La paura, il dolore, la solitudine di Siddharta diventano una sorta di rappresentazione universale della sofferenza e della pena che ogni adolescente deve vivere in questa strana età di passaggio; uno specchio che riflette l’andirivieni adolescenziale fra bisogni emotivi profondi e conquiste evolutive.
Sono, dunque, le tematiche del film che si offrono ad una lettura psicologica; noi preferiamo soffermarci solo su alcuni aspetti del mondo di Siddharta: la relazione fra lui e i suoi genitori, quella con la sorellina, e, ultimo, con gli adulti che incontra nel suo girovagare per aiutarla.

Siddharta alla ricerca della sua identità

Appena, nel film, sentiamo pronunciare il nome di questo tenero e contemporaneamente duro ragazzino del 2000, Siddharta, tutti sorridiamo pensando alla stranezza di questa scelta e di chi l’ha fatta. Le motivazioni, ironiche, ci parlano di un brevissimo innamoramento della madre per il buddismo, sufficiente per chiamare così il figlio.
In realtà il nome ci fa già entrare nell’universo psicologico della madre di Siddharta: quali sogni, quali fantasie devono avere attraversato il cuore e la mente di questa ragazza per dare al proprio bimbo questo nome? Ci deve essere stato, nella madre, una ricerca di assoluto, di onnipotenza, un bisogno di plasmare, con il nome, un destino grandioso per il figlio, un destino di perfezione e felicità. E’ pensare che questa fantasia di onnipotenza non può che essere legata d una percezione già presente nella madre, nonostante la giovane età, di essere una perdente, di sentire il proprio destino come doloroso e fallimentare. Solo la vita di Siddharta può dar senso e valore a quello della madre, che ne diventa il riscatto. Non a caso quando lei, prima di morire, parla del figlio è l’unica a delinearne le caratteristiche positive, ad essere certa della sua sincerità, della autenticità dei suoi sentimenti: quel valore che gli aveva attribuito, con il nome, non è andato disperso evidentemente, ma è diventato piccolo e importante patrimonio trasmesso dalla madre al figlio che forse lo aiuterà, davvero, a vivere una vita migliore.
Le peregrinazioni di Siddharta, ci spingono a considerare il ragazzino, più che un metodo della saggezza buddista, una sorta di piccolo Ulisse che, per trovare se stesso, la propria identità, per potere capire “chi sono io” deve muoversi fra mille pericoli e mille difficoltà: il mondo degli adulti, potenti e deboli, contemporaneamente, non gli offre alcun approdo sicuro, alcuna vicinanza autentica.
Dunque Siddharta è nato da genitori giovani, immaturi, pieni di contraddizioni e paure, pensiamo noi, esaltati dal gioco di avere un bambino, di “fare i grandi” senza alcuna consapevolezza reale di ciò che comporta questa scelta-non scelta. E così ben presto, si capisce dal film, questi due ragazzini si sono lasciati, seguendo orbite esistenziali diverse ma altrettanto incomplete e dolorose.
La madre è diventata (o è rimasta) tossicodipendente: un altro compagno – di buona famiglia ma altrettanto confuso e sofferente – una dolcissima bambina, non sono riusciti, evidentemente a dare significato alla sua vita, a farla scegliere di rinunciare ad una dipendenza che, sappiamo, ha radici psicologiche lontane e profonde.
Il padre ci appare solo e lontano ormai dalla realtà; insegue i propri sogni delusi di far un film, in guerra con i fantasmi dei nemici di tanti anni fa. Nei contatti con Siddharta lo vediamo parlare in maniere confabulatoria, esaltata, incapace di ascoltare il figlio, di riconoscerlo come persona.
E’ in questo contesto che avviene, quasi impercettibile, il dramma che, Siddharta da solo, cercherà di affrontare: la sorellina, Domitilla, si punge con una siringa usata dalla madre, esplorando, come fanno tutti i bambini, nella sua borsetta. Siddharta che accudisce la bambina con una disponibilità che a lui, gli adulti, non riservano, se ne accorge subito e, informato – come tutti i ragazzini – dai media sa che deve sottoporre la bambina ad accertamenti sanitari.
Comincia così la sua odissea.

Siddharta e il mondo degli adulti

Siddharta sa di essere - per la legge degli adulti - ancora un bambino, sottoposto all’autorità - si fa per dire - dei genitori. Sa che se chiedesse aiuto per Domitilla scatterebbero immediatamente indagini e controlli che finirebbero per coinvolgere la madre e crearle ulteriori difficoltà.
Così mente, nasconde, fuorvia tutti gli adulti del “sistema sanitario nazionale” pur di riuscire a verificare se Domitilla è stata contagiata dalla siringa della madre e sapere cosa si può fare per lei. Per Siddharta ogni contatto con il mondo degli adulti è minaccioso, deve difendersi, fuggire alle loro domande, non ci si può fidare di loro neppure quando hanno il volto di una giovane psicologa che pure riesce a scalfire il muro di diffidenza del ragazzino.
Tutto precipita quando Siddharta deve prelevare le analisi che con tanta difficoltà era riuscito a fare: per sfuggire agli adulti che lo inseguono si lancia dalla finestra e viene arrestato.
E’ un momento duro per il ragazzino, viene incolpato di mille colpe, tutti gli sono contro, perfino la sorellina gli viene allontanata perché è un irresponsabile. Ma Siddharta tace, non si difende, non accusa: ha un segreto che lo angoscia, la salute della sorella e non ne può parlare.
Solo con il padre, in automobile, si lascia andare e parla del suo dolore, della sua disperazione.
E’ un momento, potremmo dire, di profonda crisi depressiva: Siddharta si sente invaso da emozioni negative, parla di “schifezze” interiori che si vedono, che non si possono più nascondere. Il mondo interiore di Siddharta è pieno di sofferenza, di rabbia, di paura ma anche di solitudine: nessun adulto importante per lui, lo capisce e lo consola. Il padre, quando Siddharta parla, è già immerso nei suoi pensieri e liquida le inquietudini del figlio con un generico e distratto “mi fido di te”.
E’ importante notare quanto questa frase positiva, in realtà, non possa che avere l’effetto di ricacciare Siddharta nella sua solitudine, negando l’esistenza stessa del suo dolore e obbligandolo a fare quello che ha sempre fatto: cavarsela da solo, andare avanti “come se fosse già grande” e dunque indurirsi per non lasciarsi andare alla disperazione.
La psicologia dell’infanzia ci ha ben spiegato cosa succede ai bambini quando non possono contare sull’”attaccamento” sicuro di almeno un genitore: cercano, come Siddharta, di farcela da soli “adultizzandosi” e non chiedendo più sicurezza e vicinanza ma, al contrario, modellandosi sui bisogni degli adulti, cercando di risolvere, da soli, i problemi che si presentano. Sappiamo, però, che questo percorso evolutivo è ad alto rischio psicopatologico: le carenze sperimentate vanno a ledere la costruzione della personalità, il livello di autostima e fiducia in se stessi, la capacità di instaurare relazioni positive ecc. di compromettere, in poche parole, il destino stesso di una persona.
Così Siddharta ancora bambino ci sembra più responsabile e maturo degli adulti che lo circondano, più saggio e determinato di chi, per età, lo dovrebbe essere: ma il carico emotivo che grava sulle sue spalle è enorme, troppo pesante, in realtà, da sopportare.
Finalmente la madre capisce ciò che nessuno aveva compreso: Siddharta, suo figlio, non è un bugiardo, se ha fatto quelle cose un motivo ci deve essere.
La madre, dunque, per una frazione di tempo breve ma importante e guarda il figlio e lo vede, nel senso profondo del termine: riconosce la sua pena, la sua sofferenza e ristabilisce con lui un contatto emotivo. Riconosce, forse per la prima volta, tutto il disagio e le mancanze che il bambino ha dovuto subire così come ammette la sua grave responsabilità nel contagio della bambina: la madre per i suoi figli cercherà, senza riuscirci, di riscattare la sua vita, di cambiare per loro.
Tenterà una insopportabile disintossicazione ma l’oppressione di chi la circonda, la insopportabilità - presumibilmente- dei sensi di colpa e chissà quante altre cose, la spingono nuovamente a cercare ciò che le consente di trovare un po’ di pace: la droga. E di morirne.

Siddharta e Domitilla

Il rapporto di Siddharta con Domitilla rappresenta, senz’altro, la parte più tenera e delicata del film. Il legame fra il ragazzino e la bambina, viene tratteggiato con moltissima sensibilità: è un vincolo affettivo profondo, intenso, sottratto al mondo degli adulti e, dunque, libero da qualunque condizionamento. La fiducia di Domitilla nei confronti del fratello è assoluta, con lui si sente protetta, sicura.
E Siddharta conosce Domitilla come nessun altro, neppure la madre. Riconosce le paure della bambina, si rende conto che “non le sfugge niente”, “non la si può imbrogliare”, “capisce tutto, anche se non dice nulla”. E con lui la bambina si lascia andare ai suoi pensieri sulla morte, al suo malessere “mi scoppia la testa”, al suo bisogno di avere la mamma accanto a sé.
E’ nel rapporto con Domitilla che Siddharta - finalmente- può riconoscere anche le proprie paure, le proprie debolezze. Parlando della sorella lascia affiorare il dolore, riesce a rinunciare alla corazza che gli permette di affrontare, senza soccombere, la durezza della vita e piange come non ha mai fatto in nessun altro momento del film tollerando la propria vulnerabilità.
Sappiamo che la relazione fra fratelli è qualcosa di speciale, carica di elementi di identificazioni reciproca: ogni fratello/sorella si specchia nell’altro, riconosce i tratti di uguaglianza ma anche di diversità. E’ nel rapporto fra i fratelli vi è posto per la protezione, l’aiuto, il sostegno reciproco e, quando il divario di età è notevole, il farsi carico del più piccolo da parte del fratello/sorella maggiore. Soprattutto quando i genitori sono in difficoltà nell’accudire adeguatamente i figli, per mille diversi motivi (separazione, morti, malattie, tossicodipendenze, conflittualità gravi ecc.), i fratelli possono svolgere, almeno in parte, funzioni genitoriali sostitutive e, dunque, avere un ruolo decisivo nella crescita psicologica di ciascuno.
E’ questa la funzione che Siddharta svolge per Domitilla: in un universo di adulti fragili, confusi, contradditori, il fratello diventa per la bimba l’unico punto di riferimento stabile e sicuro, una sorta di stella polare che la guida nella sua crescita. E gli adulti, pur nella loro ambiguità, riconoscono a Siddharta il ruolo che riveste per Domitilla: lui “sa come prenderla” e ancora una volta sarà lui a dirle che la madre è morta, a trovare le parole che loro non sanno trovare.
Ma finalmente, nella conclusione del film, Siddharta riesce a trovare la forza di spezzare quel processo di adultizzazione che lo inchioda e gli impedisce di occuparsi di sé.
All’uscita della scuola di fronte ai due “padri” che con Domitilla lo aspettano, Siddharta riuscirà, per la prima volta, a sottrarsi e a perseguire il suo sogno d’amore con la compagna di scuola che, finalmente, si è accorta di lui. L’adolescenza, per fortuna, arriva sempre!
Ornella Vinello (Psicologa – Psicoterapeuta)

Un difetto di famiglia - Alberto Simone (2002)

$
0
0

TITULO ORIGINAL Un difetto di famiglia 
AÑO 2002
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACION 108 min.
DIRECCION Alberto Simone
ASISTENTE DE DIRECCION Antonio De Feo, Lisa Romano, Evelina Santercole
ARGUMENTO Alberto Simone
GUION Silvia Napolitano, Alberto Simone
MUSICA Ennio Morricone
FOTOGRAFIA Stefano Ricciotti
MONTAJE Luciana Pandolfelli
ESCENOGRAFIA Giada Calabria
VESTUARIO Alessandra Cardini
REPARTO Nino Manfredi, Lino Banfi, Carlo Cascone, Elena D'Urso, Simone Corrente
PRODUCTORA Coproducción Italia-Reino Unido; Italian International Film / Rai Fiction / Towers of London Productions
GENERO Comedia | Telefilm

SINOPSIS Due fratelli si rincontrano alla morte della madre, dopo aver lasciato, quarant'anni prima, il paese natale. Dopo essersi ignorati per lungo tempo sono costretti dal testamento della madre a compiere insieme il viaggio dal nord, dove Nicola è ora un imprenditore di successo, al paese d'origine in cui la madre ha chiesto di essere sepolta. Nel corso del viaggio scopriranno di essere ancora profondamente legati e, superando le incomprensioni e i rancori passati, ritroveranno il rispetto e l'affetto reciproco. (Film Scoop)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)

Subtítulos (Español)


Nicola Gammarota non potrebbe essere più felice: sua figlia si sposa con un ragazzo di ottima famiglia. Ma il giorno fissato per le nozze l'anziana madre di Nicola muore, a 101 anni, e nella chiesa addobbata si celebra il funerale. Durante la cerimonia arriva Francesco, fratello maggiore di Nicola, che egli non vede da quarant'anni. Nicola e la madre erano fuggiti dal loro paese natale proprio a causa del fratello, che aveva fatto scoppiare uno scandalo rendendo pubblica la propria omosessualità. Nicola da allora detesta Francesco con tutte le sue forze, ma per rispettare le ultime volontà della madre i due sono costretti ad intraprendere insieme un lungo viaggio verso il loro paese per riaccompagnare la salma.

Dichiarazioni
«È la storia divertente, amara e istruttiva di due fratelli che si ritrovano dopo 40 anni, perché uno dei due, un professore, nel ’63, si dichiarò gay a Ostuni, con gran scandalo e fuggì poi all’estero, mentre l’altro, al Nord si arricchiva con le mozzarelle. I due si ritrovano per seppellire la madre, che fa da guida con voce fuori campo: un lungo viaggio che termina con la riconquista dell’intimità di famiglia, di comprensione e rispetto. Un film dal messaggio forte in cui metto gli attori al massimo delle possibilità: non è una fiction in due camere e cucina, usciamo all’aperto» (A. Simone, “Corriere della Sera, 6.10.2001).
---
Un difetto di famiglia: commedia garbata per due grandi attori

Una commedia degli equivoci sull' equivoco più singolare, quello della normalità. «Ci sono 13 nazioni al mondo - sostiene il regista Alberto Simone - dove l' omosessualità è condannata con la pena di morte e altre 36 nelle quali è un reato grave. Per fortuna Francesco Gammarota (Nino Manfredi), il mio protagonista, è nato in Italia ed è cresciuto in un paesino del Sud. Così la sua diversità gli è costata «solo» la perdita del lavoro e l' intolleranza di un fratello, Nicola (Lino Banfi), provinciale e benpensante». Nicola, infatti, un ometto del Sud, da quarant' anni ha lasciato il paesello natio di Casebianche, in Puglia, per trasferirsi al Nord dove, come produttore di mozzarelle, ha finalmente raggiunto il successo economico. Accolto a costo di sacrifici e compromessi nella buona società piemontese, Nicola ha taciuto a tutti l' esistenza di un fratello del quale si è sempre vergognato e che non vede più da quel lontano giorno di quarant' anni prima in cui Francesco, stimatissimo professore di liceo, dichiarò pubblicamente, ed apparentemente senza alcun motivo, la propria omosessualità a tutto il paese. Sceneggiato dallo stesso Simone e da Silvia Napolitano, «Un difetto di famiglia» (Raiuno, domenica, ore 20.45, 7.648.000 spettatori, share del 34 per cento) restituisce i toni agrodolci di una burla predisposta con amorevole e maniacale cura dalla vecchia madre che, nell' esprimere le ultime volontà, esige che ad accompagnarla nel viaggio estremo verso il paese d' origine siano proprio i due figli, finalmente riuniti. Con quel che ne consegue, fino alla redenzione finale. Costruita su misura per i due interpreti, la garbata commedia permette a Banfi e a Manfredi di sbizzarrirsi in una recitazione attenta e compiaciuta, pescando nel fondo di un repertorio ben fornito. Con la semplicità di chi non ha più nulla da affermare. 
Grasso Aldo (28/05/2002)


Alberto Simone, soggettista, sceneggiatore e regista, debutta nel 1995 con il film "Colpo di Luna". Selezionato in Concorso dal 45°Festival di Berlino, il film è stato premiato con la "Menzione Speciale della Giuria" e successivamente, con il "Globo D'Oro” della Stampa Estera in Italia per il “Miglior Regista Esordiente". 
La collaborazione con la Rai inizia nel 1988 quando, in qualità di soggettista e sceneggiatore, collabora all'ideazione della miniserie in 12 puntate "Un commissario a Roma", per la quale firma la sceneggiatura di due episodi. Soggettista e sceneggiatore per la prima e la seconda serie televisiva "Linda e il Brigadiere" con Nino Manfredi e Claudia Koll, firma la regia della terza serie "Linda, il Brigadiere e...".
Negli anni successivi scrive e dirige "Una storia qualunque", film in due parti  per Raiuno, Ninfa d’Oro Festival de Television de Montecarlo, "Le ragioni del cuore",  serie televisiva in sei puntate per Raiuno, “Un difetto di famiglia” con Nino Manfredi e Lino Banfi, Ninfa d’Oro Festival de Television de Montecarlo,  Grolla d’Oro miglior soggetto originale, Golden Chest (Plovdiv 2002) Gran Premio TV Movie. 
Nel 2004/2005 scrive, dirige e produce la serie televisiva in sei episodi “Una famiglia in giallo” con Giulio Scarpati e Valeria Valeri, Nomination al 45°Festival de Television de Montecarlo, “Miglior Regia”,  “Miglior Attrice Protagonista”, Miglior Attrice Non Protagonista” al 58°Festival Internazionale del Cinema di Salerno.
Nel 2007, accanto alla scrittura e promozione di nuovi progetti cinematografici e televisivi, avvia la produzione di documentari dedicati ai “Grandi Maestri Spirituali” del nostro tempo.
Ha supervisionato e prodotto la realizzazione della Serie tv “Il Commissario Manara” mandato in onda su Raiuno nell’inverno 2009, in nomination al Monte Carlo Television Festival 2009, “TV Series Comedy Category” Maggio 2009  ha curato la regia di 2 spot commissionati dalla  Presidenza del Consiglio dei Ministri, il primo per il Servizio Civile e il secondo per il Dipartimento delle Politiche della Famiglia.
Sempre per Raiuno ha prodotto e girato il film per la tv: “In nome del figlio”.
Attualmente è impegnato come produttore nella realizzazione de "In nome del Papa Re", remake del capolavoro di Luigi Magni e come autore nella scrittura e supervisione della serie tv “Il Commissario Manara 3”, entrambi commissionati dalla Rai
Inoltre sta sviluppando progetti dedicati al mercato americano.

Il volto di un’altra - Pappi Corsicato (2012)

$
0
0

TITULO ORIGINAL Il volto di un'altra
AÑO 2012
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 83 min.
DIRECCION Pappi Corsicato
GUION Pappi Corsicato, Monica Rametta e Gianni Romoli
FOTOGRAFIA Italo Petriccione
MONTAJE Cristiano Travaglioli
ESCENOGRAFIA Andrea Crisanti e Lily Pungitore
REPARTO Laura Chiatti, Alessandro Preziosi, Lino Guanciale, Iaia Forte, Angela Goodwin, Franco Giacobini, Fabrizio Contri, Giancarlo Cauteruccio, Armando Ninchi, Paolo Graziosi, Elisa Di Eusanio, Rosalina Neri, Clelia Piscitello
GENERO Comedia

SINOPSIS Bella conduce una famosa trasmissione televisiva sulla chirurgia plastica in cui bizzarri e surreali ospiti si sottopongono a interventi di chirurgia estetica eseguiti dal chirurgo suo marito René, gestore di un’esclusiva clinica privata situata tra i boschi dell’Alto Adige ma pieno di debiti. Licenziata a causa del crollo degli ascolti, Bella fugge via dagli studi televisivi e ha un grave incidente automobilistico. Anziché scoraggiarsi, decide di sfruttare la situazione a proprio vantaggio e chiede al marito di trasformarle il volto in diretta televisiva per rilanciare la sua immagine. Con un ritorno mediatico ed economico senza precedenti, i due sottovalutano le conseguenze che l’operazione comporterà nella vita di tutti i giorni. (Film Scoop)

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)


Citazioni e Riferimenti
Il film ha un carattere prettamente onirico con scene in bianco e nero ispirate al cinema muto, accenni ai deliri visionari felliniani, al mondo della pubblicità, al carrierismo plastificato e falso della televisione e al macabro "turismo dell'orrore".
Le scene legate agli artificiosi mutamenti del viso fanno facilmente pensare ad un omaggio agli estremi cambiamenti facciali cosmetici di Brazil (film 1985) di Terry Gilliam. (Wikipedia)
---
Pappi Corsicato continua a non essere preso sul serio dal cinema italiano. Passata la sbornia per i Vesuviani, il movimento-non-movimento inventato dalla stampa per raccontare cosa succedeva a Napoli quando Corsicato, Martone, Capuano, Dionisio e De Lillo muovevano i loro passi nel mondo del cinema italiano, il regista de I buchi neri non solo ha continuato a muoversi ai margini della produzione nazionale, ma ha progressivamente sviluppato un cinema fortemente politico e formalmente avanzato.
Guai, però, a dirlo troppo forte. Per molti, troppi, Corsicato è ancora il pazzariello che gioca a fare l’Almodovar napoletano anche se fra i due esistono differenze abissali. Tanto per dirne una, lo spagnolo non ha mai osato un film visionario e sperimentale come Chimera. Ma tant’è. 
A osservare da vicino la filmografia di Corsicato, dall’esordio di Libera che regalò al nostro cinema la geniale Iaia Forte, si nota una progressione formale irresistibile. Sempre renitente alla tentazione di ripetersi, il regista ha dato corpo a un universo filmico unico e originale.
Dotato di uno sguardo strategicamente impuro, in grado di coniugare la cinefilia più esigente con le innovazioni del design e dell’alta moda, Corsicato ha dato vita a un vero e proprio cinema dell’inorganico attraversato da profonde scosse di erotismo insurrezionale. 
Nel suo cinema gli oggetti, in perfetta coerenza con i presupposti di una società terminalmente capitalista, hanno usurpato il posto dei corpi. I corpi, di conseguenza, diventano oggetti, del desiderio o meno, entrando, di fatto, a far parte di un’agghiacciante panorama post-umano dove la cristallizzazione della vita è messa in scena come in una sfilata di zombi d’haute couture.
In tutto questo il cinema si offre, ancora una volta, come il segno di una passione insopprimibile. Una passione che ovviamente è anche una disubbidienza, un’insopprimibile tensione al caos. 
In questo senso Il volto di un’altra, ispirato alla lontana al classico Tanin no kao di Hiroshi Teshigahara, esplicita il pensiero-cinema di Corsicato con una precisione ineccepibile. Mettendo in luce, ancora una volta, per coloro che ancora non hanno compreso, la natura politica del suo cinema.
Con una leggerezza da puro genio situazionista della pop-art, Corsicato racconta la storia di una diva sul viale del tramonto dell’audience, sposata con un chirurgo plastico, che dopo essere miracolosamente scampata a un’incidente, decide comunque di fingere di essere sfigurata pur di rilanciare la trasmissione tv del cinico consorte.
Detto della geniale performance di Laura Chiatti che pronuncia probabilmente la più bella battuta dell’anno (ammesso che odiate le ballerine) e di un Preziosi che tira fuori uno charme infido e velenoso come un Karlheinz Böhm d’antan, Corsicato, giocando di citazioni e rimandi visivi, mena fendenti con gioia assoluta coadiuvato dalla complicità di Iaia Forte che si presta per una meravigliosa gag che nemmeno Bombolo e Nando Cicero dei tempi d’oro!
Il volto di un’altra è il cinema italiano che brucia gli steccati fra impegno e divertimento, producendo una geniale ventata d’irriverenza che urla il primato dello stile e dello sguardo.
Il cinema secondo Pappi Corsicato è la resistenza all’idiozia e alla banalità. È il piacere dell’intelligenza che si fa segno e provocazione. È il rifiuto di cedere al discorso dominante. 
Insomma: Pappi Corsicato continua a fare cinema in un paese in cui se ne fa sempre meno ma in compenso se ne parla tantissimo.
Giona A. Nazzaro
---
Il volto di un'altra, una divertida película de terror de Pappi Corsicato

El director de Nápoles vuelve cuatro años después de Il seme della discordia con una comedia sobre la cirugía plástica interpretada por Laura Chiatti y Alessandro Preziosi, presentada a concurso en Roma

La película inicia con lo que parece un baile de fantasmas en un bosque encantado. Bien mirada, la escena parece sacada más bien de La noche de los muertos vivientes. Il volto di un'altra [+] (lit.: “El rostro de otra”), de Pappi Corsicato, segunda película italiana presentada a concurso en el Festival Internacional de Cine de Roma (del 9 al 17 de noviembre), va enseguida al grano al mostrar personas encapuchadas que avanzan por el sendero que conduce a la clínica estética Belle Vie. Son pacientes de operaciones de cirugía estética, en nariz, senos o párpados. Parecen momias. Les vemos luego en los pasillos de la clínica: unas figuras grotescas, masculinas y femeninas, vendadas, pero felices de haberse dado un retoque.
A través de este desfile macabro, Corsicato consigue su objetivo de impresionar al espectador con una imagen potente. Lo que viene después, sobre estos mártires de la perfección, es una comedia irónica sobre las apariencias, la cirugía plástica y la espectacularización de las noticias, repleta de referencias cinematográficas (Almodóvar, los hermanos Coen, Billy Wilder, por citar sólo algunos) y con una fotografía colorida y surrealista (obra de Italo Petriccione, colaborador habitual de Gabriele Salvatores). Y sin embargo algo no funciona.
Bella (Laura Chiatti) es la atractiva presentadora de una programa de televisión sobre la cirugía estética, donde su marido cirujano (Alessandro Preziosi) opera en directo. Es despedida porque la audiencia ha bajado, el público se ha cansado de ver su cara. De vuelta a casa, sufre un accidente que le desfigura el rostro. Bella decide entonces que su marido le reconstruya una cara nueva, para poder volver a conquistar el cariño del público. La noticia genera mucho interés y la gente se concentra enfrente de la clínica donde tendrá lugar la operación. Es precisamente esta clínica, situada entre las montañas salvajes del Tirol del Sur, el escenario de la acción, hogar de personajes como una monja fácil de corromper y obsesionada con las purgas (Iaia Forte, actriz fetiche de Corsicato) o un limpiador con ambiciones de cantante y de revolucionario (Lino Guanciale, protagonista de la nueva película de Susanna Nicchiarelli, que forma parte asimismo de la presente edición del certamen romano).
Corsicato no se ahorra irreverencia y claridad de ideas. Sin embargo, nos preguntamos qué habría pasado si la diabólica pareja protagonista hubiese sido interpretada por actores menos jóvenes y guapos. “He escrito el guión pensando en una protagonista más madura”, ha revelado el director, “pero luego he pensado que una mujer joven y guapa que quisiese operarse era más divertido. Alessandro Preziosi está perfecto en el papel del doctor. Quería que fuese aún más guapo que sus pacientes”. Al margen de la belleza, unos protagonistas más expresivos y con algún matiz más no habrían dañado el producto final: si hay algo que no funciona en la película de Corsicato, son ellos.
Vittoria Scarpa
---
Forbici e bisturi: la chirurgia estetica torna al cinema. “Il volto di un’altra”, ultimo film del regista Pappi Corsicato, tratteggia gli eccessi di un mondo patinato e illusorio. Direttamente sul corpo delle pazienti. E dei pazienti anche. Sì, perché la ricerca dell’eterna gioventù non è una questione di genere.

Nella clinica Belle Vie, immersa nel verde dei monti, scorre una vita parallela e surreale. Donne e uomini, lividi in viso e bendati qua e là, aspettano di cancellare le proprie imperfezioni fisiche e assurgere a vita nuova. Intanto i proprietari della struttura, la conduttrice televisiva Bella – interpretata da Laura Chiatti – e suo marito René, chirurgo estetico – un convincente Alessandro Preziosi –, sono ormai sul lastrico, quando apprendono che Bella è stata rimossa dalla conduzione dello show televisivo in cui René pratica interventi chirurgici agli ospiti. Bella minaccia vendetta, offesa dalla rivelazione inaccettabile che il suo viso ha stancato il pubblico, e a René tocca dover contenere le ire della moglie. Ma con scarsi risultati: Bella si infila in auto e sparisce inviperita, dirigendosi verso la clinica.
Mentre la radio trasmette la minaccia di un asteroide che si abbatte sulla terra, ben altro oggetto si schianta contro il parabrezza della sua vettura: una tazza del water, schizzata dal furgone di Tru Tru – Lino Guanciale –, addetto all’impianto fognario di Belle Vie. Accortosi dell’incidente che ha involontariamente provocato e per non far ricadere la colpa su di sé, Tru Tru raccoglie Bella dall’auto in una maschera di sangue e la accompagna in clinica, raccontando di averla trovata così ridotta passando di lì per caso.
In una sala operatoria in bianco e nero, dove si esorcizza il senso del macabro e persino il sangue non sembra più sangue, allontanate tre infermiere che osservano la scena dietro una grottesca vetrina di occhi, orecchie e labbra posticci – stile non vedo-non sento-non parlo –, in completa solitudine René interviene sul viso di Bella. Completamente fasciato in seguito all’intervento, a nessuno è permesso di vedere quello che René ha annunciato come un volto del tutto sfigurato. Intanto il destino avverso toccato alla donna attira curiosi, giornalisti e fotografi, che si appostano all’esterno della clinica, trasformandola in una sorta di luna park del voyeurismo.
Ne Il volto di un’altra si assiste al trionfo del grottesco. Le pareti avorio della clinica e i suoi luminosissimi corridoi contrastano con i colori accesi e lo stile pop che caratterizzano certe scene. Il film è una continua ricostruzione del surreale. A partire da ciò che causa l’incidente di Bella, il vaso sanitario infranto contro il vetro. Surreale è la cinica suora – interpretata da Iaia Forte – che si aggira per la struttura con l’intento di somministrare purghe ai pazienti. Surreale è la scena degli obesi che tentano, saltellando, di levarsi dal suolo per addentare una mela sospesa in aria. Surreale è l’esibizione dei ventriloqui canterini, capitanati da Tru Tru. E chi più ne ha più ne metta.
In questo mondo ovattato, in cui non esiste un confine netto tra essere e apparire, l’unica cosa che conta sembra essere il successo, da raggiungere – e mantenere – ad ogni costo. Pur di tenere accese le luci di ribalta, Bella è disposta a farsi cambiare i connotati. Pur di arricchirsi e diventare famoso, Tru Tru cede al ricatto e alla tentazione di imboccare facili scorciatoie. Pur di non vivere più all’ombra di sua moglie e di diventare egli stesso protagonista, René trama alle sue spalle ed è disposto a sacrificarla.
Così, mentre si svelano le debolezze e le miserie umane, un pubblico amorfo e sedato sciuperà la possibilità di scoprire la menzogna e smascherare i bugiardi, applaudendo all’inganno come fosse una trovata geniale. Incredula di fronte a tanta ottusità, persino Bella abbandonerà questa platea compiaciuta e compiacente, inevitabilmente destinata ad essere sommersa da litri di feci sgorganti dalle fognature impazzite. In una scena che rende ovvia ogni metafora.
Nadia Ruggiero


Il volto di un'altra: una commedia un po' horror e molto surreale sui nostri tempi

Dopo l'anteprima ufficiale in occasione dello scorso festival di Roma, Pappi Corsicato, assieme allo sceneggiatore Gianni Romoli – anche coproduttore del film - e agli attori Laura Chiatti,  Alessandro Preziosi,  Iaia Forte e Lino Guanciale, presenta Il volto di un'altra alla stampa, in attesa di incontrare il pubblico in sala l'11 aprile, con una distribuzione (Officine Ubu) di un centinaio di copie. Un film raffinato, dalla sceneggiatura semplice, che parla, attraverso i volti, i corpi, gli abiti, le scenografie e le suggestioni dei generi cinematografici, anche dei nostri tempi e dei tempi del cinema. 
E' così che Pappi Corsicato cerca di definirlo: "E' una variazione sui temi della chirurgia plastica e dei media, e anche un po' una metafora di quello che succede oggi. Uno dei temi è che oggi va bene tutto, ogni cosa e il suo contrario, perciò volevo raccontare questo senso di totale sbandamento in cui passa tutto, anche il cambiare faccia, anche il motivo per cui all'ultimo momento la si sta cambiando. Io trovo che quello che succede oggi sia tragicomico, quindi questo film alla fine è un po' una summa dei miei scombinati pensieri su questo. Inoltre mi sono divertito a metterci dentro tutto quello che mi piace: l'arte, la musica, l'estetica e il cinema”. Parlando dei suoi attori, Corsicato dice: “al di là della bravura che dovrebbe essere sempre alla base, per me è importante che abbiano un forte senso dell'ironia e dell'autoironia, altrimenti avrebbero difficoltà a fare certe cose. Mi è capitato che alcuni abbiano rifiutato un ruolo. Credo che loro abbiano accettato di fare il film anche perché ne hanno capito l'ironia”. 
Bellissima, su un paio di tacchi 12 come la conduttrice cattiva del film, Laura Chiatti commenta il suo lavoro col regista: "Per la prima volta ho trovato un personaggio femminile davvero interessante e completo, in grado di esprimere molti aspetti. Quando ho letto la sceneggiatura la cosa che mi ha incuriosito di più e che la visione del film ha confermato, è che ogni scena racconta un genere diverso. E' un film che mi ha arricchito moltissimo perché Pappi mi ha molto bacchettato. Io sono molto pigra e quindi anche nella recitazione tendo sempre ad amare i personaggi realistici perché mi sforzo di meno e invece lui è riuscito a farmi entrare nei panni di questa donna molto lontana da me perché sicura di sé e molto ambiziosa, che vuole essere sempre perfetta ed è disposta a far di tutto pur di arrivare”. 
L'altro superbello del film, il bravissimo Alessandro Preziosi, parla del momento particolare in cui il suo personaggio e quello della moglie, in feroce e sotterranea competizione per le luci della ribalta, sembrano ritrovarsi: “mi piace raccontare la scena del balletto, di questo ballo molto simmetrico e già cult, evocativo di un mondo cinematografico andato, che poi lascia il posto a una grande tenerezza, a un valzer alla massima potenza, un'occasione in cui i due di questa coppia in grande competizione possono ritrovarsi. La scena a letto mi ha ricordato quella tra Tom Cruise e Nicole Kidman in Eyes Wide Shut, e non sto scherzando. Ci sono registi che lavorano con grande determinazione e grande cinismo sui temi che vogliono raccontare, dove gli attori sono solo una funzione rispetto all'immagine del cinema che è più alta in questo tipo di film, poi c'è un momento in cui il regista si avvicina con grande intimità ai personaggi perché deve riuscire a trovare il modo di raccontare il risvolto del loro cinismo: quello è forse l'unico momento del film in cui tutti e tre ci siamo trovati a cercare il modo, sia a livello estetico che a livello umano. per trasmettere quel calore”. 
Iaia Forte, vera e propria musa del regista napoletano di cui ha interpretato - da protagonista o in ruoli minori - tutti i film, parla di cosa le piace tanto nel suo cinema: “Al di là dell'amicizia che ci lega io ammiro molto Pappi perché trovo che in un paese conformista come il nostro è una fortuna che lui riesca ancora ad avere uno sguardo così personale e così libero. Continuo ad ammirare questa sua costante anarchia, perché è molto facile invece farsi inglobare e appiattire dal pensiero comune, e dunque al di là del divertimento come attrice, sempre fortissimo, ho per lui un'ammirazione scevra dall'amicizia”. 
Infine, Gianni Romoli commenta il lavoro particolare fatto sul copione per questo film: “è stato molto lungo, perché è un film che è stato costruito seguendo due piste, una puramente narrativa a cui abbiamo lavorato io, Monica Rametta e Daniele Orlando, e un'altra (forse quella più interessante) solo di Pappi, che era la costruzione di un film il cui contenuto reale non era tanto la narrazione quanto le forme del raccontare. Quando noi ci vedevamo perciò non discutevamo solo della storia, ma dei film visti, delle musiche che suggerivano a Pappi certe situazioni, delle suggestioni strettamente di forma. Il film è una grande contaminazione di forme e di generi molto alti ma anche molto bassi, perché c'è la commedia sofisticata ma anche il trash, l'horror ecc. e questo richiedeva un equilibrio molto forte perché si rischiava di svaccare troppo da un lato o di diventare troppo ostici o raffinati dall'altro. Proprio perché nel film di Pappi c'era un contenuto legato alla forma, era necessario che il plot fosse estremamente semplice e lineare. Per arrivarci però abbiamo dovuto fornire moltissimi materiali e andare all'eccesso per permettergli di asciugare al massimo, perché lui era l'unico che poteva far combaciare questo doppio racconto”.
Daniela Catelli 
---
Corsicato fa esplodere il suo mondo senza un attimo di ripensamento, lo fa crollare sotto il peso delle sue luci e della sua plastica. E il suo film, nonostante i vezzi e i vizi, sembra davvero la purga tanto attesa, necessaria a spazzare via le incrostazioni di un cinema "intelligente"

il volto di un'altraIl momento in cui la grande esplosione dei liquami inonda la linda e illuminata sala di gala della clinica Belle Vie, viene fuori tutto lo sdegno accumulato da Pappi Corsicato per l'ignobile farsa orchestrata sino a quel momento davanti ai suoi occhi. Contrappasso morale necessario. Ma ovviamente quell'esplosione era stata prevista a monte, annunciata e ignorata a più riprese, come una sentenza emessa da una Cassandra completamente impazzita. E ci piace pensare che, prima ancora che i personaggi, quella sentenza riguardasse proprio l'artificio ipercontrollato, la chiusura perfetta. Una sorta di risposta 'immonda' e liberatoria a quello stanco reality che si è impadronito del cinema, andando a posizionarsi nel pericoloso punto di contatto e frizione tra l'immagine e la realtà, tra la menzogna spettacolare e l'esigenza della verità, fino a far prevalere le ambizioni autoriali e le esigenze dittatoriali dello stile sul richiamo sincero e caotico dell'ispirazione. La verità non è tanto il contrario della menzogna, della finzione, quanto della perfezione. Ed è questo l'altro volto mostrato da Corsicato oltre il velo del comune buon senso (la vista?).
La truffa dissimulata, narrativamente parlando, è quella orchestrata dal bel Renè (Alessandro Preziosi), celebre chirurgo estetico e da sua moglie, Bella (Laura Chiatti), una star televisiva di prim'ordine, ma a rischio di licenziamento. Dopo che gli sponsor le hanno tolto la conduzione del programma di prima serata, "la tua faccia ha stancato", il fallimento è prossimo. Ma un incidente rimette in gioco tutto.
Corsicato costruisce un mondo narrativo scintillante, ambientato in una clinica estetica/set televisivo, regno della finzione alla massima potenza. Costruisce dei personaggi finti fuori e dentro. E il suo racconto si apre in un mirabolante "fuoco d'artificio" (letteralmente), capace di passare ironicamente da un genere all'altro, il musical e la commedia romantica, il thriller e il disaster movie, e da un'epoca all'altra del cinema, dal muto a oggi. Un armamentario visivo e una varietà di toni e suggestioni che mostra non solo la profonda vocazione pop-retrò (che dio ci perdoni) di Corsicato, ma soprattutto la sua agilità nel controllo dei materiali, quella capacità di passare con leggerezza attraverso i riferimenti più disparati, da The Artist ad Almodovar, Fellini e Ferreri, facendo convivere l'impossibile. Ma quello che affascina davvero è la continua messa in discussione di questo apparato spettacolare, quest'ostentazione di stile, che invece di diventare una maniera asettica, è sottoposto alla pressione di una critica ironica, a un rovesciamento (e)scatologico. Corsicato fa esplodere il suo mondo senza un attimo di ripensamento, lo fa crollare sotto il peso delle sue luci e della sua plastica. E Il volto di un'altra, nonostante i vezzi e i vizi, sembra davvero la purga tanto attesa, necessaria a spazzare via le incrostazioni di un cinema "intelligente", impegnato a raccontare la decadenza del reale, eppure inevitabilmente condannato a condividerne le paure e le cecità.
---
Bella è l'affascinante conduttrice di un programma che mostra gli interventi di chirurgia plastica. Le operazioni sono eseguite in diretta dal marito René, proprietario di una clinica nel Sudtirolo. Irritata per il suo licenziamento, causato dal calo degli ascolti, viene coinvolta in un incidente d'auto che le sfigura il viso. Quello che sembrerebbe un dramma si rivela però un'occasione di rilancio...

 “Vi sarebbe un modo per risolvere tutti i problemi economici: basterebbe tassare la vanità”. (Jacques Tati).  Questa storia è la rappresentazione della società che odia le scarpe ballerine. È un Narciso 2.0, che, invece che contemplare la propria immagine, contempla il gradimento popolare della propria immagine.
Dopo Il seme della discordia, Pappi Corsicato prosegue sulla stessa linea e raccoglie i suoi personaggi nella casetta di Hansel e Gretel (tra i prati e le mele fiammeggianti del Sudtirolo) appetibile all’esterno quanto inevitabilmente mostruosa. La società delle vetrine, l’essere inteso (solo e unicamente) come essere percepiti, la corsa alla bellezza assoluta sono trattati con i toni della commedia nera. Il regista napoletano dichiara di essersi divertito a rimescolare e ridisegnare i generi: rom-com hollywoodiana, noir, grottesco, farsa, satira di costume, echi almodovariani per produrre un patchwork di citazioni che danno un’idea di cinema figlia dei tempi postmoderni. La locandina stessa è un richiamo nostalgico ai tempi perduti.
La clinica di René, una fabbrica di bellezza dove si svolgono gli interventi di chirurgia plastica, è ritratta come un ridicolo ospedale psichiatrico. I suoi personaggi, sia i pazienti che il personale, sono volutamente tipizzati e arrancano tra oggetti e costumi nel terreno dell’esagerazione. I degenti bendati che saltano insensatamente per il prato come animali allo scopo di rassodare le rotondità ricordano molto le atmosfere di Morti di salute (Alan Parker, 1994) e il salutismo sfrenato del dottor Kellogg, precedente analogo sul discorso dell’ibrido medical-comedy-horror. Lo humor è onnipresente e affidato a situazioni paradossali e slapstick, in un film che colpisce per l’originalità visiva (alcune inquadrature ricordano opere della pop-art). La protagonista Laura Chiatti dà vita a una Bella-bambola sintetica che parte da pellicce e grossi occhiali da sole e si ritrova a vagare per i lussuosi corridoi della clinica in vestaglie di seta e decolleté pitonate: una presentatrice il cui volto ha stufato ma che poi, colpita al viso da un water (!) e sfigurata, si troverà ad affondare in una pozzanghera con un’inattesa possibilità di riscatto. Il marito Preziosi, per l’occasione biondo e semi-intellettuale (una maschera adatta al ruolo del medico star che partecipa a un programma televisivo), un dottore con la sala operatoria in bianco e nero, la tratta proprio come una Barbie, finché lei da oggetto non diventa soggetto, nonché avversaria di visibilità e fama. Scrostando la presentazione dei personaggi da Commedia dell’Arte rimane ben poco: non c’è un’anima, c’è la possibilità di un riscatto non punitivo, ma alla fine nessuno di loro fa un percorso di redenzione.
Il tema è pre-masticato e frequente nei film degli ultimi decenni: per apparire chiunque farebbe qualunque cosa, come infrangere la legge, tradire la propria famiglia, i propri ideali (la sottotrama dell’operaio-cantante Tru Tru, pieno di ideali ma in fondo meschino come gli altri). L’Italietta degli approfittatori ormai è un cliché. Più interessante è il discorso, solo accennato, della stupidità di una massa schiava dell’agenda setting, che interiorizza qualunque messaggio venga passato dai media. Il pubblico viene sedotto con la bellezza ed è facilissimo da ingannare, se allestisci uno spettacolo con le luci giuste e gli abiti di scena sontuosi (per questi ultimi il regista dichiara di essersi ispirato al mondo della moda e al cinema giapponese). Ancora più meritevole, a un livello più profondo, è la riflessione sul volto, sull’identità celata , camuffata e svelata, la necessità di mascherarsi per ritrovare sé stessi e ri-svelarsi, affine a La pelle che abito di Almodovar ma con sostanziali differenze: se il regista spagnolo incantava con una poesia vagamente surreale e dai toni delicati, ne Il volto di un’altra si enfatizza tutto giocando con il simbolismo e la bulimia degli oggetti (wc, animali impagliati, camper, scarpe, giostra, zucchero filato). Emerge una rappresentazione della realtà visivamente molto caricata(come nella particolare “esplosione” finale) ma non altrettanto nel discorso di fondo; forse Corsicato avrebbe dovuto osare di più. Il risultato è comunque godibile e non perde mai il suo status di fiaba grottesca, come se i mostri fossero disegnati con gli Uni Posca dei bambini.
alicegrisa

Article 0

$
0
0

A partir del 01/11/2020 volveré a activar la página.

Los espero.

Italiano medio - Marcello Macchia (2015)

$
0
0

 

TITULO ORIGINAL Italiano medio
AÑO 2015
DURACION 90 min.
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Inglés (Separados)
PAIS Italia
DIRECCIÓN Marcello Macchia
GUIÓN Marcello Macchia, Marco Alessi, Sergio Spaccavento, Daniele Grigolo, Danilo Carlani, Luigi Luciano
MÚSICA Chris Costa, Fabio Gargiulo
FOTOGRAFIA Massimo Schiavon
REPARTO Marcello Macchia, Luigi Luciano, Enrico Venti, Lavinia Longhi, Barbara Tabita, Franco Mari, Gabriella Franchini, Francesco Sblendorio, Rodolfo D'Andrea, Adelaide Manselli
PRODUCTORA Lotus Productions, Medusa Produzione
GENERO Comedia | Sátira

Sinopsis
Giulio Verme crece en una familia de ignorantes, apáticos y teleadictos. Por contraste, desarrollará un afilado sentido moral y una conciencia ambiental y animalista fuera de lo común. Vive, sin embargo, una gran frustración a sus casi 40 años de edad porque en torno a sí sólo ve gente pasota, carnívora y enfermos de los smartphone (hasta el mendigo tiene una tablet) y no consigue hacer nada para salvar el mundo más allá de ocuparse de la basura reciclada en un centro de la periferia de Milán. Un antiguo compañero de escuela tiene la solución para todos sus males: una píldora gracias a la cual, en lugar de usar el 20% del cerebro como todos, usará sólo el 2% y así dejará de pensar en el hambre en el mundo y en el calentamiento global para concentrarse en sí mismo y en sus necesidades más elementales; es decir, en las mujeres, en los bocadillos de chorizo y en los coches deportivos. (FILMAFFINITY)

 UN ESERCIZIO SULLE CONTRADDIZIONI DEL NOSTRO PAESE, UNA PARABOLA COMICA SULLA PARTE TRASH DI OGNUNO DI NOI.


Giulio Verme reagisce fin da piccolo all'appiattimento dei genitori sui non-valori televisivi con una preoccupazione insistente per l'educazione civica e l'ambiente, ma il suo atteggiamento integralista lo confina ad un lavoro di smistamento rifiuti, che conferma la sua "tormentosa consapevolezza del lerciume che ci circonda". Anche il rapporto con la fidanzata Franca è logoro: lei lamenta che lui parli molto e concluda poco (e siccome siamo in un film di Maccio Capatonda, fenomeno mediatico politically incorrect, la metafora che usa Franca è assai più greve). Poiché "fra il dire e il fare c'è di mezzo il male", il cittadino modello Giulio cederà ad una tentazione banale: assumere una pasticca, fornitagli dall'amico Alfonzo, che dovrebbe aiutarlo ad usare ben più di quel 20% del proprio cervello accessibile agli esseri umani. Peccato che Alfonzo gli allunghi una pillola che riduce il suo 20% a un misero 2%, trasformando il Verme in un egoista lascivo e sfrenato che pensa solo al sesso, ai vizi e al proprio tornaconto. Un italiano medio, insomma, giacché l'assunto di Maccio Capatonda è che vent'anni di dominio incontrastato della televisione commerciale abbiano ridotto al 2% il cervello della maggioranza dei cittadini della Penisola.
Italiano medio è un esercizio sulle contraddizioni del nostro Paese che trova il suo coronamento ironico nella distribuzione del film stesso, ad opera di Medusa. Ciò nonostante il lungometraggio di esordio di Capatonda, al secolo Macello Macchia, possiede una sua coerenza interna che si esprime in termini di tono, spinto all'eccesso fin dalla prima scena, e di contesto, quello satirico che si nutre di paradossi e parodie. Macchia attinge infatti a piene mani dal cinema di cui ha fatto infinite caricature, in primis quel Fight Club citato esplicitamente in (almeno) una scena ma che sottende l'intera narrazione, per continuare con Arancia Meccanica, Hunger Games e, ovviamente, Limitless. Del resto la commedia inizia con un ciclo di lavatrice, metafora del modo con cui il regista-sceneggiatore-attore-montatore "frulla" la cultura pop del nostro tempo in cerca di una sua forma espressiva originale. E in Italiano medio la trova: volgare, corrotta, iconoclasta, isterica, lunare - come l'Italia di oggi, insomma.
Il bestiario c'è tutto: docenti universitari decrepiti e vicine zoccole, Grandi Fratelli e Mastervip, calciatori e veline, complottisti e vegani, disoccupati che mendicano una password per tornare a galla e precari disposti a fare i tassisti, i piazzisti, i testimoni di guru improvvisati, e ci sono anche i guru improvvisati, le pacifiste violente e i cumenda senza scrupoli alla Ruggero De Ceglie: ma la pietra cinematografica di paragone non sono I soliti idioti, perché qui la volgarità non è mai fine a se stessa e non c'è compiacimento autoreferenziale. Piuttosto, c'è l'indignazione ironica del Nanni Moretti prima maniera, quello di Io sono un autarchico, mixata con l'irriverenza comica postmoderna di Checco Zalone.
In Italiano medio ci sono attori di comicità clownesca e di segreta dolcezza come Luigi Luciano (alias Herbert Ballerina) e Barbara Tabita, e c'è il talento pirotecnico di Maccio Capatonda, omino buffo vagamente ripugnante capace di creare macchiette spassose, giochi di parole esilaranti, qui pro quo fuori di testa. Capatonda è esattamente l'antieroe tragicomico che ci meritiamo, in questi tempi scellerati.
Il Macchia regista (assistito da Paolo Massari) da un lato si attiene ai dialoghi campo-e-controcampo e alle riprese elementari, dall'altro lavora di montaggio (con un veterano come Giogiò Franchini) e controllo del colore per velocizzare la storia, e soprattutto lavora alla storia stessa (insieme al suo team di cosceneggiatori) evitando quello che sarebbe stato il rischio maggiore: inanellare una serie di gag senza creare un percorso narrativo degno di questo nome. Il percorso narrativo invece è chiaro, e accresce la comicità per accumulo - prova ne è che le scene del film, isolate su Youtube, non sono altrettanto efficaci, mentre nel film raggiungono l'effetto valanga. Anche i personaggi importati dalla Rete vengono incanalati efficacemente nel contesto filmico, rimanendo "rimandi ad altro", non riassunti incompleti di un universo parallelo.
Italiano medio è una parabola comica sulla parte trash di ognuno di noi in lotta titanica con la propria parte decorosa, una denuncia degli integralismi come delle derive qualunquiste, una galleria di mostri contemporanei e di quotidiane nefandezze, di cui ridere senza mai potersene chiamare fuori, in quanto italiani medi.
Paola Casella
https://www.mymovies.it/film/2015/italianomedio/

 


 


 

Giorno per giorno disperatamente - Alfredo Giannetti (1961)

$
0
0

TITULO ORIGINAL Giorno per giorno, disperatamente
AÑO 1961
DURACION 90 min.
PAIS Italia 
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DIRECCION Alfredo Giannetti
GUION Alfredo Giannetti, Guido De Biaser
MUSICA Carlo Rustichelli
FOTOGRAFIA Aiace Parolin (B&W)
REPARTO Nino Castelnuovo, Tomas Milian, Madeleine Robinson, Tino Carraro, Franca Bettoia, Riccardo Garrone, Mario Scaccia, Milly, Rosalia Maggio, Lino Troisi, Isa Crescenzi
PRODUCTORA Titanus, Vides Cinematografica
GENERO Drama | Drama psicológico. Familia

Sinopsis
Giulio Verme crece en una familia de ignorantes, apáticos y teleadictos. Por contraste, desarrollará un afilado sentido moral y una conciencia ambiental y animalista fuera de lo común. Vive, sin embargo, una gran frustración a sus casi 40 años de edad porque en torno a sí sólo ve gente pasota, carnívora y enfermos de los smartphone (hasta el mendigo tiene una tablet) y no consigue hacer nada para salvar el mundo más allá de ocuparse de la basura reciclada en un centro de la periferia de Milán. Un antiguo compañero de escuela tiene la solución para todos sus males: una píldora gracias a la cual, en lugar de usar el 20% del cerebro como todos, usará sólo el 2% y así dejará de pensar en el hambre en el mundo y en el calentamiento global para concentrarse en sí mismo y en sus necesidades más elementales; es decir, en las mujeres, en los bocadillos de chorizo y en los coches deportivos. (FILMAFFINITY)

El matrimonio Dominici vive en constante estado de angustia. Gabriel, uno de sus dos hijos, sufre frecuentes neurosis que obligan a ingresarlo periodicamente en un manicomio. La férrea presión materna es la causante de la situación ya que está convencida de que solo en casa su hijo sanará. Dario, el otro hijo, es obligado a vivir por y para su hermano, mientras que el padre, sastre de profesión, no sabe como conseguir el dinero que la enfermedad de Gabriel dilapida.

Thriller italiano con las enfermedades mentales como telón de fondo, que supuso el debut como director de Alfredo Giannetti. El realizador es conocido sobre todo por sus colaboraciones como guionista con el director Pietro Germi, con quien firmó títulos como “Divorcio a la italiana”, galardonada con un Oscar. Como sucedía con los films italianos durante los 60, "Día a día desesperadamente" no tuvo problemas de distribución en España y fue estrenada con un relativo éxito de público.

https://www.abc.es/play/pelicula/dia-tras-dia-desesperadamente-4665/?ref=https:%2F%2Fwww.google.com%2F

Nella famiglia di Pietro Dominici, un modesto sarto, vive da tempo un pauroso personaggio: la pazzia. Spinto dall'ambizione materna, il più grande dei due figli, Dario, s'è troppo logorato sui libri. Attorno a lui vivono in continua tensione il fratello Gabriele, esasperato dall'intimo conflitto tra la pietà fraterna ed un senso di ribellione al continuo sacrificio che la situazione esige dalla sua giovinezza; il padre, Pietro che trascina avanti, trascurato e stanco, il suo lavoro, sempre alle prese colla necessità di procurare il denaro per le cure del figlio; la madre, Tilde, ossessionata dall'unica preoccupazione di soccorrere e curare Dario. Tilde, sedotta dal miraggio d'una facile guarigione, riporta in casa Dario: è risoluta a condurlo in Svezia dove uno specialista promette miracoli. Pietro, calpestando il proprio orgoglio professionale, ottiene il denaro necessario al viaggio, ma un nuovo accesso di follia del giovane stronca la rinata speranza. Gabriele s'è accorto che il fratello s'è impadronito di un coltello. Tace. Ma quando Dario si barrica nella propria camera, disperato, si getta contro la porta e toglie l'arma dalle mani del folle. La madre crede che Gabriele abbia voluto attentare alla vita di Dario e lo caccia duramente di casa. Gabriele se ne va, quasi liberato; da tempo ha invocato tacitamente quella soluzione. Al telefono, mentre saluta la madre, indovina che qualcosa di terribile sta accadendo. Dario sta uccidendo la madre. Giunge appena in tempo, con gli infermieri. Il folle viene nuovamente rinchiuso nel manicomio mentre Tilde, stroncata da un attacco di cuore, muore. Gabriele è ormai lontano, ma resta il padre ad assistere ed amare il figlio perduto, giorno per giorno, disperatamente.




 

Dalle Ardenne all'inferno - Alberto De Martino (1967)

$
0
0

 

TITULO ORIGINAL Dalle Ardenne all'inferno
AÑO 1967
IDIOMA Alemán y Español (Dual)
SUBTITULOS No
DURACION 105 min.
PAIS Italia - Francia - Alemania
DIRECCION Alberto De Martino
GUION Alberto De Martino, Dino Verde, Vincenzo Mannino
MUSICA Ennio Morricone, Bruno Nicolai
FOTOGRAFIA Giovanni Bergamini
REPARTO Frederick Stafford, Daniela Bianchi, Curd Jürgens, Michel Constantin, Helmuth Schneider, Howard Ross, Fajda Nicol, Anthony Dawson, Jacques Monod, Adolfo Celi, John Ireland
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia-Alemania del Oeste (RFA); Fida Cinematografica, Gloria, Jacques Roitfeld
GÉNERO Bélico. Drama

Sinopsis
Tres presos americanos se escapan de un campo de concentración en las afueras de Ámsterdam, se trata de Sesamo, Randall, y Walcott. En cuanto se da la alarma, el General Hassler da órdenes a sus tropas de las SS para que capturen a los prisioneros, pero los tres hombres se han dividido. Walcott muere tiroteado por una patrulla. Randall logra escapar y Sesamo es capturado por Petrowsky, un sargento de las SS, que se niega a matarlo. Sesamo y Randall se reunen con Rolmann, un partisano holandés, que les proporciona ropa civil. Tres hombres muy diferentes pero unidos por un mismo objetivo. (FILMAFFINITY)

1 2 3 4

Olanda, 1943. Due prigionieri americani, Sesamo e Randall, riescono ad evadere da un campo di concentramento nazista; entrati in contatto con il partigiano olandese Rollman, i due americani concordano un piano che dovrà consentire loro di penetrare nella sede del comando tedesco e di impadronirsi di importanti documenti nonché di alcune cassette colme di diamanti custodite in una camera blindata. Grazie all'aiuto della moglie di un generale della Wermacht, un'ebrea di nome Cristina, i due americani e Rollman penetrano all'interno del comando tedesco e trafugano i documenti segreti e le cassette dei diamanti. A questo punto Cristina, che, ormai compromessa, ha dovuto seguire i tre nella loro fuga, si accorge che l'impresa di Rollman, Sesamo e Randall è stata determinata unicamente dall'intenzione di entrare in possesso dei diamanti. Disgustata, la donna si separa dai suoi compagni di fuga. Al termine della guerra, Cristina, rimasta vedova, ha la sorpresa di ricevere la visita di Sesamo. Il giovane americano, che è stato costretto a riconsegnare i diamanti trafugati al governo olandese, non fatica troppo ad ottenere il perdono e l'amore della donna.


CRITICA DI DALLE ARDENNE ALL'INFERNO
" Probabilmente nelle intenzioni del regista esisteva l'ambizione di offrire un prodotto che, insieme alla spettacolarità (...) affrontasse alcuni temi della guerra, in una specie di grande affresco (...). I risultati sono estremamente modesti, non solo per il mancato approfondimento di qualsiasi aspetto della vicenda, ma anche proprio dal punto di vista spettacolare". (Anonimo, "Cinema Nuovo", n. 191 del febbraio 1968).

CURIOSITÀ SU DALLE ARDENNE ALL'INFERNO
- RENATO ROSSINI E' ACCREDITATO COME HOWARD ROSS.- LA COSTUMISTA GAIA ROMANINI E' ACCREDITATA COME GAIA ROSSETTI ROMANINI.


Febbre di vivere - Claudio Gora (1953)

$
0
0

TITULO ORIGINAL Febbre di vivere
AÑO 1953
DURACIÓN 110 min.
PAÍS Italia 
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DIRECCIÓN Claudio Gora
GUIÓN Suso Cecchi d'Amico, Luigi Filippo D'Amico, Claudio Gora, Lamberto Santilli, Leopoldo Trieste
MÚSICA Valentino Bucchi
FOTOGRAFÍA Enzo Serafin, Oberdan Troiani (B&W)
REPARTO Massimo Serato, Marina Berti, Anna-Maria Ferrero, Marcello Mastroianni, Sandro Milani, Nyta Dover, Rubi D'Alma, Vittorio Caprioli, Paola Mori, Carlo Mazzarella
PRODUCTORA Bac Film
GÉNERO Drama

Sinópsis
Las vidas de una serie de personajes de la alta sociedad. En realidad son unos "don nadie", como el protagonista, Massimo (Massimo Serato), un triste corredor de apuestas que se dedica a romper los corazones de cuantas chicas salen a su paso. La culpa es de su atractivo; pero, eso sí, cuando haya un asesinato de por medio, pondrá pies en polvorosa. (FILMAFFINITY)


Massimo Fontana, vive lujosamente y sabe aprovechar su gran carisma para manipular a los que le rodean. Dirige una casa de apuestas de carreras y es el líder de un grupo de jóvenes viciosos y vagos.
Como está hasta el cuello de deudas, organiza el amaño de una carrera de trotones. El plan falla y se ve atrapado entre la denuncia y el retiro de la licencia por un lado, y las presiones de los prestamistas por otro.
Anteponiendo el beneficio propio, nunca ha dudado en traicionar a quien sea, incluso a sus más cercanos.
Su amigo Daniele, un joven a quien Massimo arrastró por el mal camino, sale de la cárcel donde acabó hace tres años a pesar de ser inocente y descubre que Massimo había sobornado al abogado que le defendió para que fuera condenado y así embolsarse él una cantidad de dinero. Daniele va a su casa con la intención de mostrarle su rencor y pedirle explicaciones, pero Massimo lo frena hábilmente aprovechando su debilidad de carácter. Para apaciguarlo, le pone en contacto con Lucia, su exnovia, de la que Daniele aún está enamorado, aunque ésta no quiere saber nada de su antiguo amor.
Cuando Massimo descubre que Elena, su novia, está embarazada, convence a Sandro, uno de sus amigos y nueva pareja de Lucia, para que declare ser el padre ante la familia y le den el dinero necesario para que Elena aborte. Pronto, la joven es llevada ante un médico abortista.
Un día, en casa de Massimo, están reunidos Daniele, Lucia, Sandro y él. Poco a poco, todas las verdades empiezan a salir a la luz y se produce una acalorada discusión entre Massimo y Sandro cuando éste quiere contar a Lucia lo del aborto. En mitad de la pelea, Massimo lo mata accidentalmente de un golpe. Simulando un accidente, arroja el cadáver por la ventana ante el asombro e impotencia de Daniele y Lucia.
Ya en la morgue, la muchacha decide confesar lo ocurrido y denunciarse a sí misma y a los dos hombres. Massimo es llevado a prisión, mientras que ella y Daniele son liberados por el comisario.
Elena, por su parte, decide continuar con el embarazo.

Curiosidades
-El verdadero nombre de Claudio Gora era Emilio Giordana.
-Marina Berti (Lucia en la película) era la esposa de Gora en la vida real.
-En los carteles del film puede leerse Marcello Mastrojanni, no así en los títulos de la película que aparece Mastroianni.
-“Febbre di vivere” fue en su día seleccionada entre las "100 películas italianas dignas de conservarse".
-La película obtuvo la “Nastro d’Argento” (Cinta de Plata) a la Mejor Música y a Claudio Gora "Per aver impostato una coraggiosa indagine di ambiente e di costumi".




Fulminante ritratto di un’Italia egoista, miserevole, narcisa e senza speranza che sguazza e gode nell’amoralità.
Il dittico iniziale dell’opera registica di Claudio Gora (pseudonimo di Emilio Giordana) si presenta come asimmetrico e spiazzante rispetto ai modelli neorealistici dell’epoca: Il cielo è rosso (1950) tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Berto e Febbre di vivere (1953) liberamente ispirato al dramma “Cronaca” di Leopoldo Trieste raccontano, in modo quasi astratto e attraverso l’ossessione del riscatto a tutti i costi, storie archetipiche della società italiana del dopoguerra. Lo stile di Gora – che si manifesta nella sua pienezza solo nel dittico degli anni ’50 – è decisamente moderno per l’epoca visto che presenta tratti hitchcockiani, e opta per una costruzione filmica, diversa e bruciante, che alterna long-take narrative (e mai descrittive) a fulminanti primi e primissimi piani espressivi ed affettivi. Va inoltre sottolineato, nel merito, l’uso moderno dell’angolazione con immagini schiaccianti dall’alto ed esaltanti dal basso che hanno chiara matrice wellesiana e che – oltre a non essere mai fini a se stesse – mostrano una realtà perennemente incombente e minacciosa. Gora non è ottimista, mette in scena generazioni dissolute, incapaci di sentimenti, opportuniste e lubriche in cui ci sono padroni che, per i loro biechi interessi, sadicamente, manipolano e utilizzano servi ingenui e colpevoli (mai pienamente vittime). Il film esce “marchiato” con il divieto ai minori di 16 anni e presenta un finale vagamente conciliante con l’uomo e la donna che escono assieme dal commissariato, diverso rispetto all’ originale, cupo e disperato, con la donna che da sola si allontanava verso l’oscurità. In poco meno di un’ora e mezza, Febbre di vivere traccia il ritratto cronachistico della disillusione e dell’evanescenza di un frammento generazionale: lo fa con una misura e una furia inusuali e soprattutto mettendo in scena personaggi sgradevoli che si agitano in un sottobosco torbido e malsano.

La ragazza nella nebbia -Donato Carrisi (2017)

$
0
0

 

TÍTULO ORIGINAL La ragazza nella nebbia
AÑO 2017
IDIOMA Italiano
SUBTÍTULOS Español
DURACIÓN 128 min. 
PAÍS Italia 
DIRECCIÓN Donato Carrisi 
GUIÓN Donato Carrisi (Novela: Donato Carrisi) 
MÚSICA Vito Lo Re 
FOTOGRAFÍA Federico Masiero 
REPARTO Toni Servillo, Alessio Boni, Lorenzo Richelmy, Jean Reno, Galatea Ranzi, Greta Scacchi, Michela Cescon, Lucrezia Guidone, Jacopo Olmo Antinori, Daniela Piazza, Marina Occhionero, Sabrina Martina, Antonio Gerardi 
PRODUCTORA Coproducción Italia-Alemania-Francia; Colorado Film Production, Medusa Produzione, Gavila 
GÉNERO Thriller. Drama | Secuestros / Desapariciones

Sinopsis
Una chica de 16 años desaparecida en un pueblo de montaña. La nieve, la niebla, las luces. Las luces son las de las cámaras. Han llegado los medios de comunicación. Y todo ha cambiado.

2 
4 
 
Premios
2017: Premios David di Donatello: Mejor nuevo director. 4 nominaciones
 
“LA RAGAZZA NELLA NEBBIA”: IL FASCINO MEDIATICO DEL CRIMINE
di Mariantonietta Losanno

Ad Avechot, paesino immaginario dell’Alto Adige, scompare la sedicenne Anna Lou, figlia di adepti di una setta cattolica. Inizialmente si pensa ad una fuga, o ad un atto di ribellione, ma l’ispettore Vogel e i giornalisti cercano ad ogni costo un serial killer, un “mostro”. Con una serie di indizi si riesce a risalire ad un possibile sospettato, ma niente è come sembra e, soprattutto, nessuno è realmente innocente.
“È il cattivo che fa la storia. Non sono gli eroi che determinano il successo di un’opera, è il male il vero motore di ogni racconto”, dice Alessio Boni in una scena del film. In realtà, è Carrisi a prendere la parola attraverso gli attori, non a caso scelti accuratamente. Sì, bisogna riconoscerlo, quella di Carrisi è stata una scelta astutamente ponderata, il cast d’eccezione di cui si è circondato gli ha assicurato (a priori) gran parte del successo della sua opera: Toni Servillo, Jean Reno “italiano”, Alessio Boni, Galatea Ranzi, Michela Cescon. Questa però, non è la sola decisione ingegnosa presa dallo scrittore di Martina Franca. Proprio come afferma in un altro punto cruciale della pellicola sempre Alessio Boni, “La prima regola di un grande romanziere è copiare”. E Carrisi lo ha saputo fare, ed è lecito, soprattutto alla prima esperienza da regista. L’atmosfera idilliaca di un piccolo paesino (immaginario), il detective da fuori città che arriva sul posto, l’inspiegabile sparizione di una ragazza, la tranquillità prima della tragedia ricordano alla perfezione la prima stagione di “Twin Peaks” (David Lynch), e danno quel tocco vintage all’ambiente; ma Carrisi ha preso spunto anche da Hitchcock, maestro della suspense, da Fincher, dai fratelli Coen (omaggiando “Fargo”), da Shyamalan. Questo gioco gli riesce, perché Carrisi è capace di attingere dai grandi maestri senza perdere le sue peculiarità.
 

La storia è ben strutturata in ogni suo dettaglio, affascina, intriga e non risulta banale. “La ragazza nella nebbia” non è pretenzioso, e proprio per questo è ben riuscito. Si evince l’attenzione maniacale al dettaglio, anche minimo, ma si nota anche la scelta di introdurre tanti temi e l’abilità di saperli approfondire tutti senza lasciarne nemmeno uno abbozzato. E tutto questo, per uno scrittore che si cimenta per la prima volta nei panni di regista e sceneggiatore, non è una cosa da poco.
Un concetto interessante è la critica nei confronti del giornalismo e del fascino mediatico della criminalità. La giustizia non fa ascolti, l’importante è creare la notizia e sfamare la curiosità del pubblico che è alla ricerca di una prova, anche fittizia: una goccia di sangue, una traccia di DNA, un’arma nascosta, un particolare che incolpi la bestia da sbattere in prima pagina. In questo modo “La ragazza nella nebbia” diventa anche un romanzo e un film di denuncia, non solo del crimine, ma del crimine che fa spettacolo. L’esibizionismo mediatico è accentuato dal fatto che ci riferiamo a un paesino calmo e silenzioso, ma attenzione alla tranquillità: inganna! Se solo vogliamo pensare alla risonanza dei fatti di cronaca avvenuti a Cogne, Avetrana, Novi Ligure. La tranquillità è colpevole, uccide in senso figurato con la noia, e uccide in senso letterale perché porta a commettere crimini.
“La ragazza nella nebbia” è un thriller in cui ogni aspetto è attentamente studiato per accrescere la curiosità dello spettatore, e dove niente è dato per scontato. Se per tanti aspetti ricorda esperimenti precedenti (tra i riferimenti più recenti “L’uomo di neve” dal romanzo di Jo Nesbø per gli inquietanti paesaggi innevati), ha la forza di mantenere la sua unicità e non cadere nella copia.
 

 

A mezzanotte va la ronda del piacere - Marcello Fondato (1975)

$
0
0

TÍTULO ORIGINAL A mezzanotte va la ronda del piacere
AÑO 1975
IDIOMA Italiano
SUBTÍTULOS Español (Separados)
DURACIÓN 100 min.
PAIS Italia
DIRECCIÓN Marcello Fondato
GUIÓN Marcello Fondato, Francesco Scardamaglia
MÚSICA Guido De Angelis, Maurizio De Angelis
FOTOGRAFÍA Pasqualino De Santis
REPARTO Claudia Cardinale, Antonella Dogan, Vittorio Gassman, Renato Pozzetto, Giovanna Gentile, Monica Vitti, Giancarlo Giannini, Paola Maiolini
PRODUCTORA Delfo Cinematografica, Rizzoli Film
GÉNERO Comedia. Drama. Intriga | Drama judicial

Sinopsis
En un juicio por intento de homicidio, la imputada es Tina Candela (Monica Vitti), una mujer de pueblo que asume su propia defensa en el juicio narrando su tempestuosa relación con la víctima, su marido Gino (Giancarlo Giannini). La apasionada y explosiva pareja despierta el interés de Gabriella Sansoni (Cardinale), una acomodada señora que forma parte del jurado, y la lleva a replantearse su matrimonio con Andrea (Gassman) un donjuán machista. (FILMAFFINITY) 

1

Sub 

Gabriella Sansoni, giovane moglie borghese, viene nominata giudice popolare in un processo di Corte d'Assise. Imputata è un'altra donna, Tina Candela, accusata di aver ucciso il marito Gino. Tra il giudice popolare e l'imputata si stabilisce subito una corrente di simpatia e di interesse umano. Tina Candela, per difendersi, rievoca il suo legame con il marito e compone il quadro di una strana storia d'amore, nata e cresciuta in un mondo sottoproletario fatto di sentimenti accesi, di liti, di scontri anche violenti, ma sempre riscattati dall'amore: un amore, a detta dell'imputata, così forte e sincero da escludere la possibilità di un omicidio: non di delitto dunque si tratta, secondo la Candela, ma di disgrazia. Gabriella, più ancora che come giudice, viene colpita come donna e moglie dai racconti dell'imputata. Confronta la vitalità di quel rapporto con il grigiore della sua vita coniugale. E comincia a vedere suo marito Andrea sotto una nuova luce. Finora è stata trattata come una bambina priva di volontà, ma adesso comincia ad affiorare in Gabriella un prepotente bisogno di affermare la sua personalità. Attraverso il processo, i suoi colpi di scena, le sue testimonianze impreviste, Gabriella e Tina, giurata e imputata, giungeranno così a una maggiore consapevolezza delle loro condizioni di donna. 

http://www.archiviodelcinemaitaliano.it/index.php/scheda.html?codice=AG3872

 Crítica

"Il film è colorito e spigliato, con svolte mordaci e parentesi languide di gustoso effetto. La morale della favola è di qualche vaghezza, per quel suo celebrare il valore della passione femminile e rivendicare la parità sentimentale fra i sessi contro i pregiudizi d'una società fallocratica, ma il racconto è tessuto con fili spettacolarmente piacevoli" (G.Grazzini - Cinema '75).

 


 

Giorni di gloria - Giuseppe De Santis, Mario Serandrei, Marcello Pagliero, Luchino Visconti (1945)

$
0
0


TITULO ORIGINAL Giorni di gloria
AÑO 1945
IDIOMA Italiano
SUBTÍTULOS Español
DURACIÓN 71 min.
PAÍS Italia
DIRECCIÓN Mario Serandrei, Marcello Pagliero, Giuseppe de Santis, Luchino Visconti
GUIÓN Umberto Calosso, Umberto Barbaro
MÚSICA Constantino Ferri
FOTOGRAFÍA Gianni Di Venanzo, Angelo Jannarelli, Giorgio Lastricati, Navarro, Giovanni Pucci, Arthur Reed, Massimo Terzano, Umberto della Valle, Giovanni Ventimiglia, Vittoriano, Michel Werdier, De West, Manlio
REPARTO Documental
PRODUCTORA Titanus, Associazione Nazionale Partigiani d'Italia (ANPI), Cinéac, Ministero delle Terre Occupate, Comando delle Divisioni Garibaldine Zone Valsesia, P.W.B. Film Division
GÉNERO Documental | Película de episodios. II Guerra Mundial

Sinopsis
El film muestra la vida de los partisanos antifascistas, los acontecimientos que llevaron a la liberación de Roma, entre los que están la masacre de las Fosas Ardeatinas, el proceso Koch y Caruso y el fusilamiento de estos, así como la reconquista de Milán con la unión de armas entre partisanos y aliados. (FILMAFFINITY) 

1  2  3  Sub

Il film è la rievocazione dell'oppressione nazifascista dalle tristi giornate del settembre '43 alla liberazione del Nord. Ha inizio con la ripresa di alcune azioni di partigiani presso la linea del fronte; gli atti di sabotaggio provocano una reazione degli oppressori che incrudiscono le loro azioni di rappresaglia; ma la stampa clandestina anima e forgia gli spiriti della resistenza. Il massacro delle Fosse Ardeatine è riprodotto nella sua spaventosa tragicità. Gli eventi incalzano e nelle regioni che a mano a mano vengono liberate i colpevoli della lotta fratricida pagano il loro tributo alla giustizia.

Segnalazioni cinematografiche C.C.C., vol. XIX, 1945


L'idea di Giorni di gloria fu di Serandrei, proprio e soltanto sua, al contrario di quanto in giro si dice. Oltretutto egli montò tutto il materiale ed è quindi il maggiore artefice di Giorni di gloria, che è un film soprattutto di montaggio. Io mi occupai del montaggio con lui, e poi il mio ruolo fu quello di coordinare il materiale che, in massima parte, ci era stato fornito dalle formazioni partigiane del sud ma soprattutto del nord. Personalmente, girai tutto il pezzo delle Fosse Ardeatine, nonché le interviste ai famigliari dei caduti, con l'aiuto dell'operatore Carlini. Ricordo che alle Ardeatine, quando entrai là dentro e sentii proprio l'odore della morte, fui colto da una commozione talmente intensa che, appena stabilita l'inquadratura, dovetti uscirmene alla luce e lasciai il compito di proseguire a Carlini. Oltre a queste sequenze girai anche una azione del GAP, ricostruita. A Visconti si devono invece le riprese del processo di Carretta e del suo linciaggio che poté cogliere perché si trovava a passare da lì con la macchina da presa.

Giuseppe De Santis in L'avventurosa storia del cinema italiano, a cura di F. Faldini, G. Fofi, Feltrinelli, Milano 1979


Vuol essere, questo Giorni di gloria, la esposizione cinematografica della lotta partigiana e degli avvenimenti d'Italia dall'8 settembre sino alla liberazione del Nord: l'occupazione nazifascista e la nascita delle brigate partigiane, gli atti di sabotaggio, la stampa clandestina e l'eccidio delle Fosse Ardeatine, i processi e la fucilazione di Caruso, Kock e Scarpato, gli episodi di guerra aperta nell'alta Italia, la fine di Mussolini, la liberazione di Milano, l'inizio faticoso della ricostruzione. La narrazione dei diversi avvenimenti era condizionata, purtroppo, alla esistenza di materiale girato sul momento. Per cui alcuni episodi sono illustrati con maggiore ampiezza di altri, magari più importanti, ma dei quali i realizzatori del film non avevano a disposizione che qualche metro appena di pellicola impressionata o addirittura solo qualche incerta fotografia.
Comporre in un corpo coerente e compatto, dare unità stilistica e narrativa a un materiale così frammentario era compito difficilissimo. E bisogna riconoscere subito che i realizzatori del film (Mario Serandrei e Giuseppe De Santis) hanno, in genere, superato brillantemente ogni difficoltà. Così che la cronaca viva e dolente della lotta per il riscatto d'Italia vive, in tutta la sua umana e tragica verità, nelle sequenze di questo Giorni di gloria. Al quale presta un insolito e suggestivo e validissimo aiuto il commento parlato dovuto a Umberto Calosso e ad Umberto Barbaro.
Maggiori possibilità, maggiore spazio di tempo disponibile e soprattutto una più matura riflessione avrebbero evitato a Serandrei e De Santis alcuni fin troppo evidenti errori. I quali consistono sia in una difettosa struttura di montaggio che, a scapito della linea narrativa e dell'emotività del film, appare ansioso di utilizzare fin in fondo alcuni brani sia pure bellissimi che di per sé avevano già la compiutezza di un documentario (quelli di Luchino Visconti sul processo Caruso e, ancor più, quelli di Pagliero sulle Fosse Ardeatine); sia in inutili compiacimenti figurativi che accentuano ancor più la discrepanza esistente e visibile tra il materiale propriamente documentario e quello "ricostruito".
Ma, al di là delle incoerenze sintattiche e stilistiche, sta la violenza drammatica di gran parte di quelle immagini, cariche di una emotività così intensa e toccante da obbligare lo spettatore a stringere con le figurazioni dello schermo un patto inevitabile di partecipazione e d'amore.

Antonio Pietrangeli, "Star", n. 41, 9 novembre 1945


I partigiani, con indosso gli abiti e le armi che avevano in montagna e che ancora non avevano reso, ripetono per la macchina da presa i gesti e le azioni dei giorni di guerra, i momenti della vita al campo, del rancio, del tribunale partigiano. Altri episodi, più legati alla cronaca, sono girati da Luchino Visconti, a cui si devono le straordinarie riprese con suono diretto del processo Caruso, del "linciaggio" del questore Carretta, della fucilazione di Caruso e di altri fascisti, e Marcello Pagliero che girò le fasi del disseppellimento e del riconoscimento delle vittime delle Fosse Ardeatine. De Santis, da parte sua, gira alcune inquadrature di azioni di guerra partigiane totalmente ricostruite: suo è nel film, insomma, ciò che più evidentemente è finzione, messa in scena, e la cosa appare emblematica, sia per la carriera futura di De Santis sia per tutto il cinema italiano resistenziale. Giorni di gloria, anche se utilizza alcuni materiali Incom, è il segno vivente dell'impossibilità di fare in Italia un film realmente "documentario" sulla resistenza e sui suoi aspetti quotidiani. Gran parte dei documenti originali girati da operatori partigiani furono infatti subito sequestrati dal P W B americano ed è su questa assenza che il cinema resistenziale italiano si costruirà come cinema eroico, romanzesco, fatto di avvenimenti tutti eccezionali e incapace di indagare la quotidianità, le voci e i corpi della resistenza.

Alberto Farassino, Giuseppe De Santis, Moizzi, Milano 1978 

https://www.torinofilmfest.org/it/7-festival-internazionale-cinema-giovani/film/giorni-di-gloria/3340/

Il film è il montaggio di numerose sequenze e immagini fotografiche sulle distruzioni causate dalla guerra in Italia; sulle drammatiche condizioni di vita della popolazione; su personaggi e azioni dei fascisti e dei nazisti; su situazioni relative all´Italia libera. Ma i “giorni di gloria” sono quelli della Resistenza: ed è questo tema celebrativo a dominare il tono del film. Combattimenti partigiani contro gli occupanti, rastrellamenti, rappresaglie nazi-fasciste, tedeschi che si arrendono, attività clandestine nella città, lanci con paracadute di rifornimenti ai reparti partigiani; e infine la mobilitazione e gli scioperi che preannunciarono l´insurrezione e la liberazione, a opera dei reparti partigiani del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, delle grandi città del Nord: Genova, Torino, Milano, Venezia. Sono quindi sviluppati in particolare due episodi. Il processo a Pietro Caruso (girato da Visconti) è la cronaca vivacissima e drammatica del procedimento contro il questore di Roma, uno dei compilatori degli elenchi di ostaggi da trucidare alle Fosse Ardeatine; durante il processo - che si concluse con la condanna a morte per fucilazione - l´esasperazione popolare portò anche a uno sconvolgente atto di linciaggio (documentato dalla macchina da presa) contro uno degli arrestati, il direttore del carcere romano di Regina Coeli, Carretta. Il tema delle Fosse Ardeatine (con riprese dovute a Pagliero e De Santis) è documentato in immagini di tragica evidenza: il ritrovamento, la ricomposizione e il riconoscimento dei corpi dei 335 esseri umani trucidati dai nazisti e rimasti sepolti per mesi sotto tonnellate di tufo. Di particolare intensità sono anche alcune rare testimonianze sonore di donne parenti delle vittime. Una scritta finale chiarisce gli obiettivi del documentario: «A tutti coloro che in Italia hanno sofferto e combattuto l´oppressione nazifascista è dedicato questo film di lotta partigiana e di rinascita nazionale».

Film di montaggio coordinato da G. De Santis e montato da M. Serandrei (che ne fu anche l´ideatore) sulla Resistenza, dalle tragiche giornate del settembre 1943 fino all´aprile 1945. Prodotto da Fulvio Ricci per la Titanus e dall´Associazione Nazionale Partigiani d´Italia (ANPI). Commento non privo di enfasi retorica di Umberto Calosso e Umberto Barbaro. L´impostazione di fondo è quella di una sintesi patriottica e interclassista. La parte più debole è quella sulla guerra partigiana soprattutto per la (logica) scarsità del materiale di documentazione, in parte ricostruito. Il film conta per le immagini (girate da M. Pagliero) sull´apertura delle Fosse Ardeatine con i cadaveri dei 335 italiani uccisi per rappresaglia il 24 marzo 1944 e per le sequenze (girate da Luchino Visconti) del processo al capo della polizia Pietro Caruso e a Carretta, direttore del carcere di Regina Coeli con le prime fasi del suo linciaggio. Fu proiettato in pubblico per la prima volta il 18 ottobre 1945 a Roma.
Morando Morandini, Il dizionario dei film

De Santis: Giorni di Gloria nasce in questo modo. Nel nostro gruppo c’era un grande montatore, Mario Serandrei, un uomo che nella storia del cinema italiano ha occupato un ruolo molto importante, anche se poi è ricordato meno di quanto si dovrebbe. Al pari di Libero Solaroli, direttore di produzione, della stessa formazione culturale, della stessa generazione. Così anche Serandrei era un uomo di grande cultura, di formazione culturale anche molto raffinata. Insomma, io e lui avemmo l’idea di metter insieme questo materiale che, ci dicevano, le varie formazioni partigiane avevano girato in Piemonte e in Emilia Romagna. In più anche gli Alleati avevano altro materiale girato. Mettemmo insieme questo materiale e decidemmo anche di far girare qualcosa che potesse rinvigorire o rinfrescare o dare forza. E decidemmo di fare un documentario. Questo a Roma, ancora prima della liberazione del nord. Però il film lo abbiamo fatto dopo, quando avevamo tutto il materiale. Comunque nasce a Roma, tutto a Roma, viene anche montato a Roma.

Ci sono anche alcune cose di finzione, girate da me. C’è un’azione dei GAP, fatta con degli attori, di finzione vera e propria. Poi c’è il processo Caruso girato da Visconti, già con un’idea televisiva. Visconti ebbe l’idea di mettere tre macchine cosa che allora nel cinema non si usava, ebbe questa bella intuizione per cui poteva stare sul primo piano di questo che veniva condannato alla fucilazione, poi c’era il padre di Berlinguer che leggeva la sentenza, e quindi avere tutti gli effetti e le cose che si vedono.

Io girai poi la parte delle interviste ai parenti fuori dalle Fosse Ardeatine. Non ebbi il coraggio di entrare dentro, perché avevo molti compagni e amici che erano stati fucilati, proprio non me la sentii di entrare dentro. Questo lo girò Pagliero, lui girò all’interno, io le interviste all’esterno. C’è una lunga carrellata che è mia. […] Devo dire una cosa, anche questo è bene che si sappia. Finito il processo Caruso ci fu un tentativo di linciaggio che noi girammo, che Visconti girò, interamente. C’è, negli archivi dellAnpi dovrebbe esserci, a meno che gli alleati non l’abbiano fatto sparire. Non ci sentimmo, onestamente, di montare quella roba, perché non ci sentimmo di mostrare questa folla imbestialita, questo corpo straziato. Giusto? Non giusto? Non le so dire, non so rispondere a questa domanda. Però il materiale c’era.

Gobetti: Io credo che questo sia il film più rivoluzionario che esista. Come struttura. L’idea di fare un documentario, un film, che non è un film a soggetto, con queste cose visive, nel 1945. Secondo me anche questa è la Resistenza. Se non c’era prima la Resistenza non poteva esistere un film del genere, che proprio nella sua insolita struttura ti suggerisce che, in un mondo nuovo, ci potrebbe essere un cinema diverso, nuovo.

Intervista video a Giuseppe De Santis realizzata il 17 giugno 1994 da Paolo Gobetti, Paola Olivetti, Giacomo Gambetti, Daniele Gaglianone

Mario Serandrei.
Giorni di gloria. Gli scritti. Un film
Il Castoro, 1999

http://www.luchinovisconti.net/visconti_sc_film/giorni_di_gloria.htm 

L' Uomo senza gravità - Marco Bonfanti (2019)

$
0
0

 


TÍTULO ORIGINAL L'uomo senza gravità
AÑO 2019
IDIOMA Italiano
SUBTÍTULOS Inglés y Español (Separados)
DURACIÓN 107 min.
PAÍS Italia / Bélgica / Francia
DIRECCIÓN Marco Bonfanti
GUIÓN Marco Bonfanti, Giulio Carrieri (Historia: Marco Bonfanti, Fabrizio Bozzetti)
MÚSICA Danilo Caposeno
FOTOGRAFÍA Michele D'Attanasio
REPARTO Elio Germano, Michela Cescon, Elena Cotta, Silvia D'Amico, Vincent Scarito, Pietro Pescara, Jennifer Brokshi, Andrea Pennacchi, Cristina Donadio, Dieter-Michael Grohmann, Dominique Lombardo, Francesco Procopio
PRODUCTORA Distribuida por Netflix. Coproducción Italia-Bélgica-Francia; Isaria Productions, Zagora, Climax Films, Ministero per i Beni e le Attività Culturali
GÉNERO Comedia. Drama. Fantástico

Sinopsis
Un niño, que desafía la ley de la gravedad y crece lejos de las miradas de todos, se convierte en un hombre extraordinario y famoso, pero él solo desea tener amigos. (FILMAFFINITY) 

2 
4 
Sub (Esp) (Gentileza de Carmen Elizalde)

El film "L'Uomo senza gravitá" (El hombre sin gravedad), de Marco Bonfati, una fábula ágil protagonizada por Elio Germano, abrirá la 14ta edición de la Fiesta del Cine de Roma, que va del 17 al 27 de octubre,  y a partir del 1º de noviembre podrá verse en Netflix. El protagonista de la historia es Oscar (Pietro Pescara y, de adulto, Elio Germano), un niño que nace en los años '80 en una noche de tempestad, en el hospital de un pequeño pueblo del norte de Italia. Inmediatamente se comprende que hay algo de extraordinario en él: no obedece a la ley de gravedad. Desde bebé flota en el aire, frente a los ojos de su madre, Natalia (Michela Cescon) y de su abuela Alina (Elena Cotta).
Ambas mujeres hacen un pacto: deciden mantener escondido al niño de los ojos del mundo por muchos, demasiados, años. Solo la pequeña Agata (Jennifer Brokshi y, de adulta, Silvia D'Amico) conoce el secreto. Pero un día Oscar decide que ha llegado el momento de huir del pueblito entre las montañas y que todo el mundo debe conocer quién es realmente: el hombre sin gravedad. Entonces, decide participar en un concurso internacional para hombres y mujeres "raros" e ingresa, gracias a sus poderes, en el rutilante ámbito del espectáculo, con la ayuda de un manager algo oscuro (Vincent Scarito), que solo piensa en el dinero. "La historia de Oscar, un hombre afectado por la ausencia de peso habla de la dificultad de ser puros, ingenuos, livianos (en todos los sentidos) en un mundo opaco dedicado a la pesadez", sostuvo el director sobre su ópera prima. Agregó que "a pesar de que Oscar tiene un poder especial, 'L'Uomo senza Gravitá' no es un film sobre un superhéroe sino la historia de un hombre simple y puro que desea ser aceptado por el mundo". "Es un ser humano a quien se le ha negado la
infancia, que al término de un largo recorrido en la búsqueda de sí mismo y del amor, comprenderá que volver a ser niño es el único modo para vivir una vida realmente sin gravedad", señaló Bonfati.
Por su parte, Germano, quien interpreta a Oscar en la adultez, dijo que su personaje es "un superhéroe muy particular". "Es un personaje que tiene algo equivocado, tal vez una excesiva ligereza, este es su error. Y finalmente termina siendo un antihéroe porque, por ejemplo, jamás utiliza sus superpoderes", sostuvo.(ANSA). 

http://www.ansalatina.com/americalatina/noticia/espectaculos/2019/10/14/la-curiosa-historia-del-hombre-sin-gravedad_f7331c50-5e21-45c0-a7e1-982128ca6128.html

 

UN'AUDACE FAVOLA MODERNA CHE GUARDA ESPLICITAMENTE A CALVINO SENZA PERÒ RAGGIUNGERNE I LIVELLI.

Marzia Gandolfi

Da qualche parte nella provincia italiana nasce Oscar, un bambino senza gravità che galleggia sopra la nebbia e l'insostenibile pesantezza dell'essere. Nato fuori tempo massimo da una madre matura e single, Oscar cresce sotto l'ala protettiva di nonna Alina che lo costringe in casa, lontano dallo sguardo indiscreto e curioso delle comari di paese. Ma Oscar vuole conoscere il mondo e magari salvarlo come Batman, il suo supereroe preferito. Al suo fianco 'combatte' Agata, la prima amica (e il primo amore) a conoscere il suo segreto. Un segreto difficile da mantenere in un paese piccolo che comincia a interrogarsi su Oscar. Costretto a trovare in montagna rifugio dal mondo, Oscar cresce e con lui il desiderio di volare via, di essere finalmente se stesso.
Audace perché il postulato di partenza non si preoccupa della verosimiglianza, è una sorta di gioco infantile a cui ci invita l'autore: una donna ordinaria concepisce un bambino straordinario, "affetto da leggerezza". Un gioco al quale lo spettatore deve aderire se non vuole perdere l'essenza del film. Come il racconto filosofico di Calvino, Marco Bonfanti fa appello all'arte di elevarsi, letteralmente e figurativamente, per sottrarsi dal mondo e guardarlo meglio.

Audace ancora perché l'irruzione di un elemento incongruo indaga la mutazione di un corpo e lo fa evolvere da un universo grigio a un mondo a colori, a misura dell'adeguamento del protagonista alla sua identità sovrannaturale. Perché Oscar non è un bambino come gli altri ma è figlio di una madre come le altre, che lo ama di un amore cieco, che vorrebbe soltanto proteggerlo ma finisce per tarpargli le ali e la naturale vocazione al volo. A immagine del Ricky alato di François Ozon, Oscar è un bambino come tanti e un bambino singolare, come ogni altro bambino agli occhi dei suoi genitori.

Sceneggiato a quattro mani con Giulio Carrieri, il film poetizza il cordone ombelicale, concepisce un bambino magico e oppone all'amore materno il voyeurismo della gente e dei media, sottolineando il ruolo di Oscar come centro di gravità dopo essere stato motivo di squilibrio e di turbamento. Racconto tutto in ellissi, L'uomo senza gravità debutta in una provincia mesta e scivola nel fantastico ancorato al realismo del quotidiano con effetti speciali centrati sul corpo del protagonista e sulle rotture di tono (dal comico al tragico, dove il primo corregge sovente il secondo).

Dopo due documentari che indagavano il miracolo della resilienza (L'ultimo pastore) e della creazione (Bozzetto non troppo), l'autore debutta nella fiction, già sperimentata in corto (9x10 Novanta) con candore e ingenuità. Dei lavori precedenti, Bonfanti conserva lo splendido amore per il mondo lieve della favola e lo stupore dei suoi eroi per cui inventa questa volta il prodigio dentro l'ultra reale.

Diversamente da Calvino, orizzonte dichiarato di riferimento, il risultato non produce però scintille. La vagheggiata levità calviniana non tarda a rivelare nel film il proprio peso insostenibile, esplodendo mortaretti ed esplorando il fantastico come una piroetta rivelatrice di nulla. Il suggestivo soggetto di partenza non apre le porte a una riflessione filosofica all'altezza della premessa. I dialoghi convenzionali, l'interpretazione artificiosa degli attori, gli improbabili (e bruschi) scarti narrativi, l'ellissi temporale impiegata come mera tecnica di raccordo e mai come figura di sentimento, svuotano la storia di ogni sostanza. Convertono il volo di Oscar in quello imprudente di Icaro.

E imprudente è pure il film, il cui bagaglio letterario e filosofico non è sufficiente a fornirgli una vocazione. La brillante meccanica intellettuale di Calvino non serve a Bonfanti la chiave d'uscita. "Scrivete con precisione e con leggerezza", esortava Calvino nelle sue "Lezioni americane", fornendo indicazioni sul peso e il significato delle parole. A mancare in un film che si dà come assioma la leggerezza è proprio quel valore cardine che rima sempre con complessità. Al cinema come in letteratura, è necessario che il linguaggio sia all'altezza di quello che è raccontato.
https://www.mymovies.it/film/2019/luomo-senza-gravita/


 

 

La peccatrice - Amleto Palermi (1940)

$
0
0
TÍTULO ORIGINAL
La peccatrice
AÑO 1940
IDIOMA Italiano
SUBTÍTULOS Español e Italiano (Separados)
DURACIÓN 88 min.
PAÍS Italia
DIRECCIÓN Amleto Palermi
GUIÓN Amleto Palermi, Luigi Chiarini, Umberto Barbaro, Francesco Pasinetti, Amleto Palermi
MÚSICA Alessandro Cicognini
FOTOGRAFÍA Václav Vích (B&W)
REPARTO Paola Barbara, Vittorio De Sica, Fosco Giachetti, Gino Cervi, Bella Starace Sainati, Umberto Melnati, Camillo Pilotto, Piero Carnabuci, Giuseppe Porelli, Mario Ferrari, Anna Maria Falchi, Armida Bonocore, Olga Solbelli, Marcella Melnati
PRODUCTORA Manenti Film Sp.A
GÉNERO Drama

Sinopsis
La pecadora es una película de 1940 , dirigida por Amleto Palermi , que formó parte de la selección italiana en el Festival de Cine de Venecia de ese año. Se considera como un primer intento de película realista en el panorama del cine italiano a principios de los años cuarenta .

2 
4 
 

Amleto Palermi affronta la difficile tematica della prostituzione e affresca con dimesso realismo e con commossa partecipazione il graffiante e scomodo ritratto di un’Italia inquieta, problematica, ben lontana dall’immagine, addomesticata e sterilizzata dalla propaganda fascista, di una società priva di contraddizioni. Sceneggiato da Luigi Chiarini, Umberto Barbaro e Francesco Pasinetti, La peccatrice è la storia di una giovane sedotta e poi abbandonata, Maria Ferrante (Paola Barbara) è un corpo in fuga, marchiato indelebilmente dal peccato eppure ancora innocente, un corpo senza più possibilità di redenzione, costretto al sacrificio e all’esclusione. Maria lascia rivivere i fantasmi del suo passato e ripercorre tra il sogno e la veglia la sua esistenza. I brevi istanti di felicità vissuti – l’abbagliante chiarore che avvolge l’istituto dove mette al mondo il suo bambino, l’avvolgente e appassionato ballo durante il quale Pietro (Vittorio De Sica) le dichiara timidamente il suo amore – si alternano alla sua dolorosa caduta, fatta di speranze continuamente negate, in un universo moralmente ambiguo e corrotto. E risvegliatasi dal suo sonno tormentato, Maria si concede un’ultima, caparbia illusione, quella di poter ritrovare vita e riposo dalla sua sofferenza. Ma il suo vagare è l’inutile movimento di un corpo continuamente rifiutato, reso inaccettabile dalla sua diversità e per questo ricacciato ai margini, costretto alla solitudine e alla dannazione dal falso moralismo borghese di una società intollerante, cinica ed egoista, che ha disperso ogni parvenza di solidarietà e di comprensione. L’universo cittadino, nel quale Maria cerca d’integrarsi, di ritrovare un nuovo candore, abbandonandosi prima al miraggio di una tranquillità familiare con Pietro e poi alla sommessa speranza di normalità, finisce per assumere le sembianze ambigue di un organismo tentacolare e pericoloso, avvolto da un’atmosfera cupa e opprimente, abitato da figure deboli, stanche e arrese, come Pietro, o squallide e prive di scrupoli, come Ottavio (Piero Carnabuci). E alla concretezza spoglia dello spazio urbano, Amleto Palermi contrappone il lirismo dell’idillio rurale, degli spazi aperti, luminosi e rassicuranti, di un’umanità ruvida, ma sincera e ancora capace di comprensione, di rispetto e di calore. L’universo contadino, che Maria attraversa nella rassegnata consapevolezza di non potervi appartenere, non è una dimensione salvifica contrapposta alla città come luogo di perdizione, non è uno spazio liberatorio al quale poter ancora aspirare, ma un paesaggio irraggiungibile, un altrove perduto nel tempo e senza una reale consistenza, che esiste solo come proiezione mentale delle speranze della protagonista.
https://www.sentieriselvaggi.it/dvd-la-peccatrice-di-amleto-palermi/


TRAMA LA PECCATRICE
Maria, una ragazza di provincia viene sedotta e, quando si accorge di attendere un bambino, viene anche abbandonata. Piuttosto che confessare a sua madre il proprio stato, ella si allontana da casa. Il bambino non sopravvive che pochi giorni e la fanciulla è ospitata in un paese vicino, presso una brava famiglia di campagnoli dove fa da balia al loro bambino. Un giovanotto del paese dimostra serie intenzioni verso di lei ma quando viene a conoscenza del suo passato, adirato e deluso, la tratta indegnamente. La ragazza si allontana anche da questa sua nuova famiglia e, giunta in città, è facile preda di loschi individui che la spingono a fare la prostituta. La morte di una sua compagna nella casa di tolleranza in cui le stessa vive, le fa comprendere pienamente il basso livello a cui è ormai arrivata per cui trova la forza di fuggire e di lì. Incontra il suo vecchio seduttore che neppure la riconosce e, piena di amarezza, torna dalla vecchia madre che l'accoglie e la perdona.

CRITICA DI LA PECCATRICE
"'La peccatrice'è un lavoro di seria impostazione, anche se il soggetto appartiene alla categoria di quelli che attingono i motivi fondamentali del loro successo popolare agli elementi e alle situazioni molto comuni ed abusati, ma eternamente emotivi, popolarizzati da tutta una serie di romanzi e di drammi, dalla 'Signora dalle camelie' a 'Resurrezione'. Seria l'impostazione, dicevamo, perché l'intento spettacolare è onestamente raggiunto. (...) Una regia meno prolissa e manierosa sarebbe andata a vantaggio della classe del film." (Marco Moncalvi, "L'Ambrosiano". 5 settembre 1940)

CURIOSITÀ SU LA PECCATRICE
- GIRATO A ROMA NEGLI STUDI DEL CENTRO SPERIMENTALE DI CINEMATOGRAFIA.- IL FILM E' STATO PRESENTATO ALLA MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA DEL 1940.
https://www.comingsoon.it/film/la-peccatrice/25828/scheda/



La peccatrice e Il peccato di Rogelia Sanchez: due infelici odissee (1940)

“Nello stato fascista l’arte viene ad avere una funzione sociale: una funzione educatrice. Essa deve tradurre l’etica del nostro tempo. Deve dare unità di stile e grandezza di linee al vivere comune. L’arte così tornerà ad essere quello che fu nei suoi perodi più alti e in seno alle più alte civiltà: un perfetto strumento di governo spirituale”.
M. Campigli, C. Carrà, A. Funi, M. Sironi, Manifesto della pittura murale, in “La colonna”, 1933.

Il regista siciliano Amleto Palermi firma con La peccatrice (settembre 1940; 88 min) una pellicola relativamente inconsueta per i canoni della cinematografia fascista. Basandosi su un soggetto proprio, sceneggiato con l’aiuto di Luigi Chiarini, Umberto Barbaro e Francesco Pasinetti, egli racconta l’interminabile, infelice odissea di Maria (Paola Barbara) la quale, sebbene incinta, viene abbandonata al suo destino dal fidanzato Alberto (Gino Cervi). Il bimbo nasce e muore poco dopo. La giovane, fuggita di casa, dapprima viene accolta da una famiglia di contadini dove sembra ritrovare un certo equilibrio; tuttavia le insidie di un componente della famiglia la costringono a ripartire. Giunta in città si innamora di Pietro Bandelli, un giovane brillante e pieno di debiti (Vittorio De Sica) e, quando questi finisce in prigione, al colmo della disperazione si adatta a fare la prostituta in una casa chiusa gestita da un infido amico. Giunta al punto più basso della propria tragedia personale la donna trova la forza di risalire la china; ripercorre allora a ritroso le tappe del proprio cammino (la struttura circolare del racconto è la stessa che ritroveremo nel celebre Arancia meccanica, 1971, di Stanley Kubrick derivato dal romanzo omonimo, 1962, di Anthony Burgess). Dapprima ritrova Pietro che cerca di aiutarla impiegandola nella ditta del padre; però la famiglia, scoperto il passato della donna, la licenzia. In seguito la giovane reincontra la famiglia di contadini e riceve le scuse del giovane che l’aveva tormentata; ritorna nella propria città dove incrocia Alberto ed infine rientra nella casa materna dalla quale era scappata all’inizio.
Gli elementi di originalità ed audacia nella pellicola sono molteplici seppure uniti ad evidenti omaggi alla politica del regime, volti a mitigare l’eccessiva negatività del racconto e del connesso affresco sociale. Raramente la cinematografia italiana pre “neorealista” ha raccontato in modo tanto crudo le disgrazie di un personaggio la cui evidente debolezza è però incentivata da una realtà complessivamente meschina e popolata da profittatori e da figure opache. Insomma se Maria ha qualche colpa, molte di più se ne trovano nel tessuto sociale circostante e questo suona come un’implicita accusa al regime politico che in fondo non è stato capace di debellare una serie di atteggiamenti e di miserrime realtà individuali e colletttive. In tal senso il film otterrà il prevedibile  plauso della critica postbellica (un po’ come accadrà al blasettiano 4 passi tra le nuvole, 1942), pronta a cercare ovunque presunte anticipazioni “neorealiste” e lavori volti a descrivere realtà degradate e problematiche.
Palermi adotta un realismo duro ed essenziale con cui tratteggia alcune perfide figure maschili che sono all’origine del dramma di Maria: il primo ipocrita fidanzato (un ottimo Cervi) che rassicura la ragazza incinta, la invita a raggiungerlo, le promette le nozze e subito dopo fugge senza addurre spiegazioni ragionevoli; nella casa dei contadini il nuovo corteggiatore, venuto a conoscenza del passato della donna, non esita a pretendere immediate prestazioni sessuali da una donna che al quel punto considera disonorata e indegna di qualunque rispetto. Infine una sorta di malavitoso irretisce la giovane e la manda a lavorare in una casa chiusa, facendone sostanzialmente una schiava. Questo quadro assai fosco è tuttavia riequilibrato mediante due squarci rasserenanti, allineati alla politica demografica e ruralista di Mussolini: la lunga parentesi nella clinica, ritratta con una fotografia luminosa e riposante all’interno di un contesto quasi documentaristico, mostra un universo sociale che si occupa in modo amorevole delle madri e dei bimbi, qualunque sia la loro origine e le traversie personali che hanno portato a quelle nascite (sull’argomento si vedano i successivi La fuggitiva ed E’ caduta una donna, 1941). Gli sceneggiatori si attengono quindi alle direttive fasciste circondando di un’aura sacrale questo mondo di madri e di neonati, unica oasi felice attraversata da Maria nella sua inesorabile discesa agli inferi. Sempre in linea con l’ideologia mussoliniana l’altro ambiente solare e positivo è quello del mondo rurale illustrato nella seconda tappa del percorso della protagonista: una pace senza tempo abita tra le mura della casa agricola mentre i contadini sono descritti con immagini anch’esse di taglio documentaristico (limitatamente al contenuto delle inquadrature, poiché il quadro complessivo è apologetico ed irreale) mentre mietono il grano, cantando. Laddove le realtà borghesi appaiono scure (immagini prevalentemente notturne), miserabili e corrotte (la realtà della casa chiusa allude ad un’alta borghesia parassitaria ed inutile), l’universo rurale, tanto lodato dal duce per la sua semplicità fattiva e per la sua fedeltà al regime, è rievocato con toni quasi fiabeschi che si ritroveranno simili nel già citato 4 passi tra le nuvole (1942, vedi). In definitiva gli autori raccontano un fosco melodramma in cui ombre e luci, egoistiche colpe e generosi slanci cercano di equilibrarsi ed infine di supportare l’ideologia prevalente che esalta la purezza di una donna-madre ed accusa l’insensibilità di una borghesia ottenebrata dall’avidità.
La pellicola, girata da Palermi con buona sensibilità e con un gusto per la recitazione incisiva e misurata, contiene una grave reticenza narrativa ed una pagina di grande bravura. La prima si situa nella comoda ellisse che evita di spiegarci perché la giovane, perso temporaneamente il secondo fidanzato (Pietro), non si spenda per seguirne le sorti (in fondo è stato arrestato per debiti, ma ha alle spalle una famiglia facoltosa; una situazione facilmente risolvibile) e non trovi di meglio che affidarsi alle attenzioni dello sciagurato malvivente che la imprigiona nella casa di tolleranza. Tanto più che Maria aveva lasciato un impiego di commessa prima di andare a vivere con Pietro e non si capisce per quale motivo non riprenda quel tipo di vita semplice, regolata da un’attività “normale”; la caduta nell’abisso appare fasulla ed immotivata, necessaria al percorso drammatico del racconto ma artificiosa quanto a realismo ed anche in riferimento alla psicologia della protagonista quale ci è stata mostrata fino a quel momento. Gli sceneggiatori sono stati incapaci di motivare quel fondamentale momento di scelta, la qual cosa mina in modo definitivo la credibilità ed il valore dell’intera pellicola. In questo senso La peccatrice è davvero un film anticipatore del “neorealismo” poiché in modo simile De Sica e Visconti costruiranno i contesti drammatici delle loro celebri pellicole su svolte narrative altrettanto forzate ed inverosimili (si veda quanto scritto a proposito di Sciuscià, Ladri di biciclette e La terra trema).
La pagina di virtuosismo cinematografico consiste invece nella lunga sequenza, girata secondo lo stile del muto, durante la quale Maria osserva, non vista, Alberto che mangia avidamente le portate del proprio pasto serale, seduto in un ristorante. Da questa lunga “soggettiva” esce un ritratto assai espressivo in cui, dalle semplici sfumature della mimica e della gestualità, si intuisce in modo inequivocabile, un carattere gretto ed egoistico (non a caso l’uomo siede solo al tavolo). Nei confronti di questo tranquillo borghese, incapace di far fronte alle proprie responsabilità, traspare il massimo disprezzo: in tal senso lo sguardo attonito ed anche disgustato di Maria si identifica con quello di Palermi ed in ultima analisi con i valori familiari e nazionali dell’ideologia fascista.

 Carlo Borghesio nasce a Torino (1905). Negli anni trenta, dopo aver scritto alcune sceneggiature e aver collaborato come aiuto regista, esordisce con Due milioni per un sorriso (1939; coregia di Mario Soldati). Il peccato di Rogelia Sanchez (gennaio 1940; 90 min.) è il suo secondo film e, come La peccatrice, racconta una drammatica odissea tutta femminile. Il regista si ispira al romanzo Santa Rogelia (1926) dello scrittore spagnolo Armando Palacio Valdés (1853-1938), sceneggiato da Mario Soldati, Edgar Neville e Roberto De Ribon.
In un centro minerario nelle Asturie (luogo di nascita di Valdés) la bella Rogelia (Germana Montero) è al centro delle attenzioni di numerosi popolani. La spunta l’ostinato Massimo (Juan De Landa), un uomo manesco e semialcolizzato che finisce presto per trascurarla. Ferito da un rivale, l’uomo viene curato da Don Fernando (Rafael Rivelles), un distinto medico che si innamora della donna, senza peraltro mancarle di rispetto. L’ottuso marito, invece, montato dalle dicerie del borgo, spara al dottore e quasi lo ammazza. L’uomo viene condannato a vent’anni di lavori forzati e Rogelia cede al nuovo venuto. La coppia si trasferisce a Madrid, ha un bambino e, per evitare complicazioni, si fa passare per legalmente sposata. I nodi vengono presto al pettine e Rogelia, subito emarginata quale amante illegittima di Don Fernando, decide di abbandonare tutto. Si reca allora nella colonia penale dove Massimo sconta la sua pena, gli resta vicino e, poco alla volta, riesce a redimerlo e a farne un uomo equilibrato. Nel finale consolatorio l’uomo muore in un incidente sul lavoro (nell’eroico tentativo di salvare alcuni compagni) e Rogelia può, senza rimorsi, ritornare a Madrid da suo figlio.
La vicenda, per quanto abbastanza convenzionale, viene raccontata con accenti sicuri, tratti essenziali e buon senso dell’ambientazione da Borghesio e dai suoi collaboratori. Gli attori sono perfettamente calati nei loro ruoli, la bella colonna sonora di stampo operistico di Giovanni Fusco conferisce un alone importante e quasi solenne agli eventi mentre il taglio delle inquadrature (numerosi i primi piani capaci di indagare il tormento della protagonista) offre spesso immagini molto espressive e tutt’altro che scontate. Il tutto riesce a far dimenticare l’andamento un po’ generico e forzatamente lacrimoso degli eventi.
Analizzando invece il senso ideale del racconto, si nota come esso provenga da una realtà distante rispetto all’universo fascista, di cui condivide ben pochi valori. In tal senso la Rogelia di Borghesio è “fuori registro” almeno quanto la peccatrice di Palermi. Innanzitutto lo sguardo sulla realtà popolare delle Asturie è decisamente negativa, denunciando un mondo sociale arretrato, nonché pervaso da invidie e pregiudizi. I minatori e le donne del villaggio offrono un quadro disperante di violenze e facili brutalità, spesso innescate dall’alcolismo mentre semplici pettegolezzi si trasformano in nefaste certezze a causa della stupidità dei personaggi. Di contro il medico che viene dalla capitale, un signore distinto e colto, viene descritto come persona sensibile e capace di aiutare la misera popolazione. Sarà lui a porre in salvo Rogelia, a portarla lontano da quella terra arretrata e infine a renderla madre felice. Le realtà cittadine appaiono dunque certamente migliori di quelle degli umili borghi minerari. In seguito però la donna non riesce a sostenere le critiche e il conformismo sociale che regolano comunque anche la vita di una metropoli come Madrid e preferirà sacrificarsi per cercare di migliorare l’infelice esistenza del brutale Massimo.
Come si nota siamo quasi agli antipodi del populismo fascista che, in genere, tende a santificare i piccoli villaggi rurali (o minerari) e a criticare aspramente l’ “imbelle” e colta borghesia media (per la verità, come si é detto, anche Valdés critica la borghesia madrilena che condanna, senza appello, Rogelia). In ogni caso il regime poteva ben tollerare un film come questo in quanto, innanzitutto, parlava di una realtà “estera” (spagnola) e inoltre salvava il valore supremo della maternità nell’artificioso finale (il ritorno della madre nella casa del figlio che la attende da lungo tempo).
Insomma Il peccato di Rogelia Sanchez, con la propria evidente estraneità al contesto italiano, rivela, senza saperlo, l’artefatto populismo che attraversa in modo abbastanza omogeneo il cinema di regime; non a caso il primo titolo doveva essere l’esplicito Donne di Spagna, come a dire che il racconto era privo di relazione con l’Italia di Mussolini; anche il titolo definitivo conferma comunque il carattere “esotico” della pellicola - girata tra l’altro in due versioni, una per la nostra penisola e l’altra per la penisola iberica - e la sottintesa lontananza dell’odissea di Rogelia dalle “consuetudini filmiche” del mondo italiano. In quest’ultimo abitualmente accadeva il contrario ossia una brava fanciulla veniva “rovinata” da un borghese senza scrupoli e salvata dal buon cuore di un operaio o, meglio ancora, di un modesto impiegato.
Il cinema fascista doveva soprattutto elogiare e consolare gli strati più umili e la piccola borghesia cittadina - ovvero la sua base di consenso - tanto più che erano soprattutto queste categorie sociali ad affollare le sale cinematografiche.
http://www.giusepperausa.it/la_peccatrice.html
 

 

Viewing all 514 articles
Browse latest View live